È un biografismo generazionale e neo-borghese quello che brilla in Volti nella folla, romanzo della scrittrice Valeria Luiselli (il cui titolo originale è Los ingrávidos, i senza-peso) uscito nel 2011 per i tipi della Nuova Frontiera e nel 2015 ripubblicato dalla medesima casa editrice, con la traduzione italiana di Elisa Tramontin.
Il neo-borghesismo della Luiselli è scisso, ambiguo. È una “meglio” gioventù pluri-laureata, centrifuga, esule per scelta, fame di vita e combustione temporale. Pluralismo delle patrie. È una generazione in cerca di padri. Una generazione globetrotter, allenata nelle palestre del Potere. Eppure anche una gioventù che domanda un’identità. Un territorio. La riappropriazione del tessuto urbano. L’investimento emotivo, energico, lavorativo nella conoscenza della propria terra – Città del Messico, ancor più evidente nel secondo titolo della Luiselli, Carte false (La Nuova Frontiera, 2013). Gioventù ricca di scelte, al vaglio dei possibili destini; carica di pathos, di Fato.
Rosanna Morace propone in un suo felice articolo la distinzione tra letteratura-mondo e global novel, laddove la prima categoria è certificazione di una differenza, di quella che – riprendendo le parole del filosofo della «relazione» Édouard Glissant – è chiamata «diversalità». Negazione di ogni processo di sintesi, inteso come appiattimento, bensì persistenza di «una serie di incroci, sguardi, possibilità, “diversalità”, che mettono in luce tutte le sfaccettature di una complessità non riducibile, che contemplano il punto di vista dei colonizzati e dei colonizzatori, delle vittime e dei carnefici».
Parla invece un esperanto ipercommerciabile il global novel. Di nuovo Morace si serve di un critico letterario, Vittorio Coletti, per riassumere con grande efficacia icastica le caratteristiche effettive di questo oggetto che transita per il mondo:
[esse sono] opere molto traducibili che ambiscono al mercato globale, desideroso di acquistare prodotti standardizzati e ben padroneggiabili, ma conditi di sapori locali […] calato in modelli riconoscibili ovunque o per lo meno a valenza transnazionale. Questo non significa che sia solo letteratura di consumo, anche se quella destinata al consumo mondiale ne è l’espressione più immediata, semplice e percepibile; basti pensare […] ai gialli.
Sarebbe interessante, allora, rileggere questo Volti nella folla alla luce della bipartizione suggerita. Si tratta di un romanzo equatoriale che vive nel contraddittorio scontro tra prospettive e istanze non del tutto addomesticabili, nel fuoco incrociato di quegli «sguardi» e «possibilità» che costituiscono una sorta di enzima della «diversalità»? Oppure è un romanzo che ha attraversato il postmodernismo – con i suoi ostentati rimandi alla frammentazione, all’evanescenza della voce narrante – annullando la complessità irriducibile della differenza?
Volti nella folla. Una moglie-madre messicana vive con un marito architetto e due figli piccoli. Il marito lavora a grandi progetti. È l’America, quella del piano di sopra, che lo richiede. La notte lui disegna spazi. Anche il marito vive di topografia identitaria. La moglie, invece, è impegnata in un esercizio del rimpianto. È la New York del passato, del suo passato di lettrice ed editor in una piccola casa editrice statunitense, in trasparenza. È un’avventura alla ricerca di un’altra biografia, quella del poeta Gilberto Owen. È la New York della “reale” cittadinanza, quella letteraria. La ridda dei personaggi evocati è frutto di un collezionismo affettuoso e giocoso (e fatalmente un poco sterile). García Lorca, William Carlos Williams, Emily Dickinson, il citatissimo Roberto Bolaño del suo Detective selvaggi, qui utilizzato come una sorta di palinsesto, lo stesso Owen. Il poeta. Gilberto Owen. Realtà e finzione si mescolano. Il protagonista è Owen stesso; lei finge un’autobiografia che mente e inganna. Su tutti i piani della narrazione vegliano ambiguità e sospetto, come categorie del gioco – ancora – più che della conoscenza.
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I dettagli però. Alcuni evidenti. La vasca da bagno, ad esempio. Luogo della ricombinazione tra maschile e femminile. Nella vasca da bagno i personaggi di Moby e Dakota passano intere giornate. La vasca appartiene all’appartamento della protagonista; lei, la nostra eroina, viene sovente “sfrattata” (anzi, meglio, si auto-esilia, come pratica esistenziale) perché Moby o Dakota devono usare il bagno. La sua vasca. Personaggi lacustri. Nella vasca il maschio passa alla femmina. E viceversa, con intercambiabilità. Prima Moby poi Dakota fanno l’amore con la protagonista.
Tutto il romanzo vive di queste opposizioni. Tensioni. Forze che non si scontrano, però, non generano conflitto. Dinamiche giustapposte in movimenti separati. Owen ingrassa e dimagrisce al tempo stesso (evidente il riferimento al titolo originale messicano, i senza-peso…).
Pieno e vuoto. Spazi da architettare e vuoti familiari. Sopra/sotto. Il palazzo sta crollando. A pagina 83 si legge la sentenza programmatica: «Non un romanzo frammentario. Un romanzo orizzontale, raccontato verticalmente». Vero e falso, naturalmente. E ancora: passato/presente; New York/Città del Messico; natura/cultura. Ad un certo punto tre gatti invadono l’appartamento:
Non so cosa fare con i tre gatti che a quanto pare vogliono stabilirsi qui definitivamente. Un paio di sere fa ho versato un goccio di whisky in un piattino, immaginando che forse così avrebbero rinunciato a me come padrone e santo protettore delle loro tre miserabili vite. Ma devono essersi commossi per il gesto, perché il mattino dopo si sono svegliati in diversi punti del mio materasso e quando rintoccavano le sei sono venuti a leccarmi le cispe dagli occhi. (pp. 100-101).
Eppure nella vasca da bagno, sebbene avvenga una metamorfosi tra il segno maschile e quello femminile, domina una notte uterina e freudiana. Se movimento c’è, questo è verso un ritorno all’originario indistinto, al primigenio stato di confusione che domina la notte dell’uomo e che, secondo Freud, è la più alta aspirazione dell’umano: un ritorno al Nulla del pre-nascita. In altre parole, i nuovi significati di genere acquisiti nella vasca da bagno non aprono fratture di discussione e ripensamento, per una ridefinizione dei generi, appunto; ma si chiudono in se stessi, si avvitano su un sogno di annullamento che è rumore bianco, disturbo d’informazione, brusio che cancella la responsabilità.
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Daniele Giglioli, nell’ultimissimo Stato di minorità (Laterza, 2015) adombra in Bartleby, lo scrivano di Melville, un «paradigma bianco». La neutralità di Bartleby, la sua «anoressia» di scelte, di strategie, di vita, si fa paradossale modello interpretativo per la sintomatologia contemporanea d’impossibilità ad agire. Paralisi. Inazione. Cecità. La stessa cecità assai evocata nel romanzo della Luiselli. Bartleby non oppone, presenta. Presenta al mondo il proprio grado zero d’identità e presenza. Bartleby non sa, non dice, non suggerisce.
Bartleby non solca i mari per predare il demone Moby Dick; qui Moby abita una vasca da bagno di New York. La notte della dimenticanza, dell’oblio e del senza-tempo. La notte dei los ingrávidos. Non c’è sogno di liberazione per questa donna che si finge uomo, che vive/ha vissuto in un appartamento dove il maschile muta in femminile. L’Orlando di Virginia Woolf, creatura che attraversa lo spaziotempo nell’euforia della metamorfosi di gender, è un ricordo. La liberazione è derogata ad altre fumisterie. L’unica liberazione è un desiderio, la pretesa di un oblio.
«Non voglio sentire niente. Canzone del non veder niente», così si dice nelle pagine finali del racconto. Impossibilità al discorso: a questo si aspira, alla cecità. Se ricerca di radici c’è, in questa campionessa della generazione ritrovata, è una quête che si chiude solo col nulla.