In un articolo [Immigrati e nativi digitali] uscito qualche anno fa su Alias, il supplemento culturale de Il Manifesto, Francesco Mazzetta si augurava la nascita di una disciplina critica dei videogames in grado di superare il modello ormai affermato della recensione tecnica per arrivare a una scrittura critica in grado di rendere conto del videogioco come fenomeno culturale.
di Flavio Pintarelli
Oggi, con la pubblicazione dei saggi di Tom Bissel nel volume Voglia di vincere (ISBN edizioni, 2012), possiamo dire che una critica del videogame è stata fondata a tutti gli effetti. Sarebbe interessante compilare una storia delle discipline critiche che ne analizzi lo sviluppo e si concentri sulla ricerca delle affinità e delle divergenze che si producono a seconda dei differenti sistemi espressivi.
Un amico con cui mi capita spesso di discutere di cinema ama ricordare come agli albori della settima arte la critica cinematografica avesse un tratto squisitamente impressionista e molti dei resoconti più interessanti erano incentrati sul rapporto che, durante la proiezione, si intesseva tra lo spettatore e le immagini in movimento che scorrevano sullo schermo. Solo in un secondo momento si assiste alla nascita di una critica delle forme e dei segni.
Gli scritti di Bissel sembrano incarnare a pieno questa dimensione impressionista propria di una disciplina critica nascente rispetto al proprio oggetto di indagine.
Quello messo a punto dallo scrittore statunitense è un dispositivo narrativo in cui le questioni critiche relative all’universo videoludico vengono affrontate a partire dall’esperienza del giocatore. Emerge così il rapporto complesso e a volte doloroso dell’autore con una forma espressiva i cui confini oscillano tra l’intrattenimento e l’arte. Ma emerge anche, e questo è forse il contributo più significativo che il volume fornisce alla comprensione del fenomeno videogames, l’immagine di un mondo che, dopo un periodo di sperimentazione e sviluppo tecnico, si trova per la prima volta di fronte alla consapevolezza di poter padroneggiare a pieno i propri strumenti tecnici ed espressivi e, di conseguenza, di dover decidere come utilizzarli. A mio parere il filo conduttore che si può ritrovare nel corso del libro è la grande dicotomia tra approccio narratologico e approccio ludologico al videogioco. Si tratta di una questione squisitamente ontologica che si riassume, parafrasando Bazin, nella domanda: che cos’è un videogioco? È uno strumento per creare narrazioni interattive in cui è l’utente/giocatore a determinare il racconto con le sue scelte, come accade nei giochi open world come Fallout 3? Oppure è uno strumento per mettere l’utente/giocatore di fronte a situazioni di gioco in cui è una corretta coordinazione oculo-manuale a costituire il fulcro dell’esperienza?
Ovviamente non si tratta di una tensione destinata a risolversi in una direzione univoca, quanto, piuttosto, di una tensione dialettica, di un campo di forze i cui movimenti determineranno gli sviluppi futuri del mezzo. Dal punto di vista teorico un tentativo di sintesi di questa dialettica è stato tentato da MacKenzie-Wark con l’introduzione del concetto di allegoritmo, concetto trattato dallo studioso australiano nel suo Gamer Theory. Con allegoritmo si intende quella caratteristica dei videogiochi per cui lo sviluppo della narrazione è vincolato all’apprendimento di una corretta sequenza di azioni.
In quest’ottica il lavoro di Bissel è interessante perché problematizza proprio questi aspetti mettendoli in relazione alla dimensione emozionale del giocatore e alla questione della libertà di azione che viene concessa a esso. Qual è il limite di libertà che può essere concesso al giocatore per evitare che l’esperienza si dimostri dispersiva e, conseguentemente, frustrante? Qual è il limite di tolleranza da parte del giocatore delle necessarie costrizioni che il designer deve inserire per orientare lo sviluppo della narrazione? E quali conseguenze sullo sviluppo delle emozioni del giocatore hanno questo genere di limitazioni?
Non sono questioni di poco conto e, forse, andrebbero ricomprese in una teoria e in una critica del gioco contemporaneo e delle sue differenti incarnazioni (gioco di ruolo, social game, gamification, ecc.). In ogni caso una frontiera è stata varcata, ora c’è bisogno di pionieri che sappiano spostarne i confini sempre un passo più in avanti, perché l’ultimo livello è ancora lontano. E bisogna raggiungerlo.