Vivere nell’Antropocene

La mediazione delle catastrofi nell’Antropocene.

Richard Grusin sarà uno dei relatori del convegno internazionale “Interactive Imagination” che si terrà dal 6 all’8 giugno  all’Istituto Svizzero di Roma. Pubblichiamo la traduzione, a cura di Angela Maiello, di “The Radical Mediation of Life in the Anthropocene“. 

Cosa si prova a vivere nell’Antropocene? L’esperienza di lettura di tre articoli riportati in prima pagina sul «New York Times» risponde direttamente a questa domanda, come anche ciò che negli ultimi due anni ho chiamato mediazione radicale. Più nello specifico queste storie ci danno consapevolezza che vivere nell’Antropocene significa vivere con la sensazione, più o meno costante, di una catastrofe imminente. Esse evidenziano anche come la natura globale e interconnessa dell’imminente catastrofe sia inseparabile dalla nostra esperienza della realtà della mediazione nelle relazioni umane e non umane che determinano la nostra vita nell’Antropocene. Mi spiego meglio.

Il concetto di Antropocene, coniato all’inizio del XXI secolo dal premio Nobel e chimico dell’atmosfera Paul Crutzen postula una nuova epoca geologica caratterizzata da una soverchiante influenza dell’uomo sulla terra. Da allora il concetto è stato raccolto ed ampliato da altri scienziati, principalmente ma non esclusivamente da geologi ed ecologisti  del pianeta. In tempi più recenti l’Antropocene ha catturato l’attenzione e l’immaginazione di artisti ed esperti di scienze umane e sociali, per i quali esso rappresenta un’efficace cornice entro cui collocare e attraverso cui descrivere l’impatto del cambiamento climatico su un’ampia varietà di forme e pratiche mediali.

L’Antropocene potrebbe essere inteso come una tendenza che colloca gli esseri umani al centro del mondo, in realtà esso consiste nell’esatto opposto, ovvero nel riconoscimento che le azioni umani, individuali e collettive, oggi operano sull’atmosfera terrestre e sul clima in modo analogo alle forze climatologiche non umane, e quindi in modo indipendente da e spesso in contraddizione con la volontà, l’intento o l’interesse dell’uomo. Sebbene non venga nominato nelle storie riportate dal «New York Times», l’Antropocene determina chiaramente le relazioni esperite che accomunano queste tre storie.

Il primo articolo, l’unico a meritare davvero uno spazio sulla prima pagina del «Times», affronta il tema delle vittime civili degli attracchi dei droni nella cittadina di frontiera pakistana Miram Shah. L’articolo descrive i rapporti di Amnesty International e Human Rights Watch circa gli intensi livelli di angoscia registrati tra i residenti delle zone tribali occidentali del Pakistan, la paura e l’ansia collettiva che chiunque possa essere, in qualunque momento, vittima di una attracco drone americano. «“I droni sono come angeli della morte” – dice Nazeer Gul, un negoziante di Miram Shah – «”Solo loro sanno quando e dove colpiranno”». Miram Shah – prosegue l’articolo a pagina 10 – «è diventata una città impaurita e paranoica, che dal 2008 ha dovuto far fronte ad almeno 13 attacchi di droni, 25 se condiamo i distretti limitrofi, più di qualunque altro insediamento urbano nel mondo. Anche quando i missili non colpiscono, droni rumorosi circolano notte e giorno, monitorando i vicoli e i mercati con le loro telecamere ad alta risoluzione».

Sebbene i droni non richiamino immediatamente alla mente le preoccupazioni climatologiche dell’Antropocene, non c’è dubbio che essi abbiano un impatto sul clima affettivo della città di Miram Shah: «”Le vendite di sonniferi, antidepressivi e farmaci per contrastare l’ansia hanno subito un’impennata”» – dice Hajji Gulab Jan Dawar, un farmacista del bazar cittadino – «Le donne sono particolarmente turbate, ma anche gli uomini fanno esperienza di problemi simili. Vendiamo loro questi, dice mostrando una scatola di compresse, con il marchio Rocket, che che dovrebbero curare l’impotenza».

Ciò che mi ha fatto pensare a questa storia in relazione all’Antropocene è stato un altro articolo, a pagina 11, intitolato Smog avvolge e blocca città nel Nord-Est della Cina (“Smog Envelops and Chokes City in Northeast China”).

“Non riesci a vedere le tue stessa dita di fronte a te”  riporta il sito ufficiale della città. Del medesimo tenore è il commento lasciato da un abitante di Harbin sulla popolare piattaforma microblog Sina Weibo: “Puoi sentire la persona con cui stai parlando, ma non riesci a vederla”; un altro aggiungeva che gli era capitato di non riuscire a vedere la persona a cui stava stringendo la mano.

Si tratta chiaramente del risultato di forze antropogeniche associate alle pratiche agricole ed industriali cinesi. Lo smog nella città di Harbin produce un impatto sul suo clima affettivo, sulle relazioni esperite di umani e non umani che, ancorché in un tono diverso da quelle di Miram Shah, condividono con essa un senso di minaccia imminente.

Quindi sebbene queste minacce si manifestavano in modo molto diverso – l’angosciante invisibilità di un potenziale attacco di droni si oppone quasi diametralmente all’oscurante visibilità dello smog onnipresente – le relazioni esperite degli abitanti di entrambe le città erano direttamente collegate ai cambiamenti geopolitici e antropogenici nell’atmosfera.

La terza ed ultima storia, “Dopo la tempesta, inondazione di acqua tossica in Giappone” si trovava nella colonna di destra, giustapposta all’articolo su l’Air Apocalypse cinese. Descritto come «l’ultimo episodio di una litania di passi falsi e peggioramenti nel tormentato problema della bonifica della centrale di Fukushima Daiichi» l’articolo si concentra sugli attuali problemi di perdite radioattive che sono seguite alla raffazzonata risposta, da parte del governo giapponese e della TEPCO (Tokyo Electric Power Company), al terremoto di Sendai del Marzo 2011.  Dopo le piogge recenti, TEPCO

ha effettuato dei test sull’acqua negli stagni che sono straripati e ha scoperto che circa mezza dozzina di questi è contaminata, riportando livelli di stronzio-90 sopra il limite di quasi 10 becquerel per litro, fissato dalle regolamentazioni per lo scarico delle acque in mare. Il livello di radiazioni nel sito più contaminato era 71 volte oltre quel limite.

Tra gli altri pericoli, «le emissioni di stronzio sono particolarmente preoccupanti perché esso si può accumulare nelle ossa umane e causare leucemia».

Anche qui, come nel caso dei droni di Miram Shah, la minaccia che scaturisce da queste continue perdite è imminente e allo stesso tempo invisibile – registrata dall’aumento dei livelli dello stronzio radioattivo – anche se, come in Pakistan, essa è suscitata dai ricordi di precedenti disastri, attacchi di droni e meltdown causati da terremoti. E come la storia del’ Air Apocalypse cinese, anche questa è esplicitamente caratterizzata da un punto di vista antropogenico e ambientale, essendo conseguenza diretta di tecnologie per la generazione di energia elettrica e del loro impatto sul clima atmosferico e acquoso.

Non è un caso, forse, che queste storie possono essere viste come un ritratto dell’Antropocene asiatico o orientalista, che evoca l’immagine di una minaccia asiatica, in particolare nell’inesorabile movimento di radiazioni tossiche che attraversa il Pacifico fino alla costa occidentale degli Stati Uniti. Prese insieme, queste tre storie forniscono in modo più diretto ai lettori del «New York Times» un’esperienza mediata delle relazioni antropoceniche, collegando le loro esperienze, attraverso la mediazione giornalistica del quotidiano, con quelle degli abitanti colpiti di Pakistan, China e Giappone.

In un passaggio cruciale della teoria sull’empirismo radicale William James scrive:

Per essere radicale, un empirismo non deve ammettere nelle sue costruzioni nessun elemento che non sia stato direttamente esperito, né escludere da esse alcun elemento direttamente esperito. Per questo tipo di filosofia, le relazioni che connettono esperienze devono essere esse stesse relazioni esperite e qualsiasi tipo di relazione esperita deve essere intesa come reale, come qualsiasi altra cosa nel sistema.

Nello sviluppare il concetto di empirismo radicale, James vuole rifiutare sia il realismo che comincia con gli oggetti o il reale in sé, sia il razionalismo dell’idealismo che vede nel reale la manifestazione imperfetta di un logos universale o di uno spirito. Cominciando con le relazioni esperite, James comincerebbe nel mezzo, in ciò che egli chiama “la rumorosa confusione fiorente e ronzante del mondo”.

Ciò che intendo suggerire con il concetto di mediazione radicale può essere compreso se nella definizione di James sostituiamo “relazione” con “mediazione” e “reale” con “immediato”: «le mediazioni che connettono le esperienze devono essere esse stesse mediazioni esperite e qualsiasi tipo di mediazione esperita deve essere intesa come immediata, come qualsiasi altra cosa nel sistema». Faccio questa sostituzione per insistere sul fatto che mentre le mediazioni potrebbero essere, e di fatto sono, relazioni, esse sono anche trasformazioni, interruzioni o modulazioni. Le mediazioni sono sempre rimediazioni che cambiano o traducono le esperienze, nonché le connettono. Nella mediazione radicale tutte le connessioni implicano modulazione, traduzione o trasformazione, non solo collegamento. Poiché la mediazione non è separata da altre relazioni esperite, essa non si colloca tra un soggetto e un oggetto pre-esistenti, né impedisce esperienze o relazioni immediate, piuttosto trasduce o genera esperienze immediate e relazioni che non preesistono alla loro mediazione.

Leggere questi tre articoli in reciproca relazione fornisce ai lettori di questa edizione del «New York Times» un’esperienza mediata della vita nell’Antropocene che connette e allo stesso tempo rimedia radicalmente le esperienze di quegli abitanti del Pakistan occidentale, del Nord-Est della Cina e del Giappone orientale.

Dalla prospettiva della mediazione radicale, questa esperienza è meglio compresa se non la si intende come una rappresentazione linguistica o giornalistica di tre eventi distinti, autonomi e irrelati le cui connessioni pre-esistano alla loro mediazione, operata sia del «Times» che da questo blog.  Piuttosto essa va intesa come un’esperienza della catastrofe imminente che deve essere intesa come reale, proprio come ogni altra cosa nel sistema. Ciò che fa del cambiamento climatico antropogenico stesso un’istanza della mediazione radicale è il fatto che non può essere compreso se separato dalla rimediazione dell’esperienza di catastrofe imminente che coinvolge allo stesso modo gli umani e i non umani.

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