Di uno strano montaggio ai tempi del Coronavirus.
Incertezza e reclusione favoriscono frequenti e lunghe divagazioni solitarie, in cui tutti i materiali d’archivio in cui mi sono imbattuta più o meno di recente si trovano a reagire fra loro e rispetto a questo stato d’attesa e angoscia. Mentre mi vorticano in testa pensieri sconnessi, mi imbatto per caso, a distanza ravvicinata, in tre immagini, ognuna a suo modo e suo malgrado dialettica.
La prima è lo screen-shot di una diretta tweet di Giorgia Meloni, datata il 29 febbraio 2020. Chi l’ha ritwittata, a fine marzo, voleva giustamente sottolineare le contraddizioni patenti che guidano il suo discorso, ma non è questo che mi ha colpita (anzi, sai che novità ho pensato). Quell’immagine, ridicola da far sorridere e terrificante da far tremare, le contiene già tutte quelle contraddizioni.
Primissimo piano della leader di Fratelli d’Italia sullo sfondo di un Colosseo irreale, quasi fosse un cartonato; dietro di lei, diverse persone di spalle sembrano intente a osservare l’imponente romana costruzione. A prescindere dalle intenzioni dell’audace pasionaria, quel Colosseo non funziona affatto come summa dell’italica identità. Quello è il monumento-logo di Roma, per usare una felice espressione di Isabella Pezzini, meta di avidi visitatori che da ogni dove si accalcano per “vedere per davvero” com’è fatto, quel prodigio fra i più famosi del mondo. Immagino appena fuori campo qualche attore improvvisato vestito da centurione che per qualche euro (o forse più) si fa fotografare sorridente con tanto di elmo e corazza di plastica. Di fatto si parla di turismo, ma qualcosa ronza in quell’immagine, sul momento fatico a decifrarlo. Poi capisco: è costruita come quelle delle dirette televisive di giornaliste d’inchiesta in missione in un altro Paese. Potrebbe essere Lilli Gruber o Giovanna Botteri in diretta da Bagdad, per esempio, ai tempi della seconda guerra del Golfo. L’espressione truce e preoccupata esclude infatti che siano in gioco temi leggeri o mondani: sembra proprio una giornalista di guerra, e il simbolo del partito apposto in alto a destra funziona come quello di un’emittente televisiva.
“Appello ai turisti di tutto il mondo: le immagini e le notizie che vi arrivano della nostra Nazione non raccontano il vero. L’Italia è sempre pronta e fiera di accogliervi con tutte le sue unicità. Non rinunciate alla più bella meta turistica da visitare e conoscere”. Una carica pubblica italiana che gioca alla giornalista in paese straniero per smentire niente meno che l’insieme di istituzioni politiche e scientifiche, nazionali e internazionali, concordi sullo stato d’emergenza sanitaria dichiarato un mese prima, il 30 gennaio. E che dal pulpito del proprio profilo social si rivolge niente meno che ai “turisti di tutto il mondo”, come si costituissero in un unico auditorio in ascolto della parola di Meloni.
Flashback. Hammamet, il film di Gianni Amelio su Bettino Craxi, fra gli ultimi visti sul grande schermo prima delle attuali misure di contenimento del contagio. Irrompe nei miei pensieri il discorso del leader del partito socialista durante il celeberrimo congresso di Milano del maggio 1989, a ridosso delle elezioni europee. “Rivolgo il mio fraterno saluto alle compagne e ai compagni delegati… Essi sono qui riuniti in questo congresso straordinario…. In nome del popolo operaio e democratico…”. Essi. Il “decisionista” per eccellenza non si rivolge al popolo ma lo avvera, lo istituisce con la sua sola presa di parola. Il popolo, un soggetto collettivo la cui identità è quella del lavoratore, dell’operaio, del cittadino democratico. Vertice della spettacolare struttura piramidale riprodotta minuziosamente da Amelio, vertice del Partito, vertice del Parlamento confluiscono nella voce disincarnata di un potere divenuto oscenamente assoluto, ma forgiato dall’interno e nel nome dei valori più belli e alti che la politica, nel suo faticoso e doloroso farsi, abbia mai espresso. Mai più un uomo di potere ci si sarebbe rivolto con quelle parole; mai più avremmo potuto credere, a quelle parole. Mai più avremmo potuto finanche fingere di crederci. “La Chiesa ha preso soldi per secoli e nessuno ha mai detto niente”, replica beffardo Craxi-Favino, al riparo dei riflettori, al preoccupato Vincenzo Sartori, cosciente dell’incombenza della fine. Il Re Sole della democrazia italiana non dice il vero, ma stabilisce ciò che può e deve essere il vero. Mai più un politico avrebbe avuto un simile potere di verità.
Trent’anni dopo, una carica pubblica che grazie al cielo non ha ruoli governativi, ma il cui potere, in quanto leader di partito, è identico a quello che aveva allora Craxi nel P.S.I., non stabilisce la verità, ma denuncia vaghe e imprecisate menzogne; non parla dal podio delle istituzioni, ma dal ciglio di una strada, inquadrata come una cartolina kitsch, tramutata in fantomatica trincea; le sue parole non istituiscono un popolo, ma si rivolgono a uno sciame mobile di individui il cui unico tratto comune è il reddito, il tempo e la voglia di viaggiare per svago. Il turista planetario cui si appella Meloni è l’esatto rovescio del migrante che la stessa, da anni, non smette di dipingere. Stop all’invasione! Accorrete tutti! La degenerazione irreversibile dello Jus Publicum Europaeum, come definì Carl Schmitt la doppia logica terrestre e marittima dello Stato moderno, è tutta in quell’appello paradossale: tutti fermi e tutti in moto, ognuno a casa propria e tutti in gita a casa degli altri.
Seconda immagine: un fotogramma dell’apparizione televisiva di Matteo Salvini a Cartabianca il 24 marzo 2020, riportato dal sito adnkronos.com. Anche in questo caso, non è lo stanco discorso di Salvini a colpirmi (anche su questo fronte poche novità in quanto a contenuti e retorica), ma la sua figura e ciò che la attornia. In primis, la mise del Capitano. Mi ero così abituata a vederlo in felpa, a dorso nudo o con la divisa di turno (compresa, di recente, quella del medico-infermiere), che vedere l’abito sobrio ed elegante della carica istituzionale mi ha fatto subito effetto. Come un orologio rotto che due volte al giorno segna l’ora esatta, ho pensato, fra tutti i costumi di scena ora è la volta del politico di professione, impeccabile nel suo sobrio ed elegante completo, come ai tempi della Prima Repubblica. Il microfono, come in un maldestro montaggio, punta verso di lui come un missile o un’oscena allusione. La location, indicata al limite sinistro dell’immagine dall’insegna marrone, destinata alle attrazioni turistiche, scatena infine l’aporia latente: “Chiesa di San Luigi dei Francesi. Dipinti del Caravaggio, 1598-1601”.
L’uomo che bacia il rosario, impugna il Vangelo e si appella alla Madonna (salvo redarguire il Papa quando pecca di solidarietà), questa volta si fa distrattamente ritrarre di fronte alla chiesa nazionale dei Francesi di Roma, tale dal 1589. È un luogo di culto che si trova in Italia, ma che appartiene a un altro popolo. Mentre il leader della Lega blatera per l’ennesima volta sulle minacce che incombono sull’italianità, il suo ritratto mostra en passant come pure quell’identità territoriale istituzionalizzata, idealizzata, ripulita, costruita a tavolino, quell’Italia italianissima, unica nelle sue meraviglie, è, almeno un pezzo, dei Francesi. E se quel San Luigi ancora protegge qualcuno, questi è di origine transalpina.
L’ultima immagine, infine, è quella che immortala lo scontro tra due volanti della polizia il 25 marzo 2020. L’ho scorta grazie al mago e scrittore Mariano Tomatis, che l’ha condivisa sui social citando a sua volta un caustico e geniale utente twitter: “Milano in quarantena, la polizia non frena”.
Altro flashback. Ancora Salvini, durante le ultime elezioni europee, nel maggio 2019. Sprezzante dei rituali istituzionali, delle formalità (come il dibattito parlamentare o il confronto con le istanze critiche), delle ricorrenze fondanti della Repubblica (come il 25 aprile) e in generale dell’esercizio del pensiero (roba da ricchi viziati o professoroni porta iella), “Matteo” si dipinge come corpo operoso, indaffarato e instancabile, impegnato a percorrere in lungo e in largo il territorio affinché ognuno resti o torni al proprio posto. Lui, però, non ce l’ha un posto, né fisico né discorsivo: è ovunque e in nessun luogo, ogni sua presa di parola – dirette social o comizi, commissariati di polizia o discoteche, Tg o talk-show – è evento a sé, non precede e non sopravvive a se stessa. Plastico come il surfista emblema, secondo Gilles Deleuze, dell’individuo all’epoca della società del controllo, il nostro passa con disinvoltura dal registro pomposo dell’istituzione a quello intimo del papà preoccupato per il suoi sessanta milioni di figli, verte indifferentemente sui principi massimi della “missione storica” conferitagli da “chi c’è lassù” e sul piatto del giorno, parla a nome dell’Italia tutta e promette una telefonata o persino una visita a ognuno dei singoli Mario Rossi che doneranno più like. Qualunque alterità è riassorbita da una comunicazione che contiene già in sé ogni possibile contraddizione.
Oggi, in un momento in cui tutti si trovano in snervante attesa nella propria Hammamet, annoiati in ville spaziose o accalcati in spazi invivibili, lo scatto che immortala i due automezzi delle forze dell’ordine che da direzioni contrarie si scontrano in una strada surrealmente deserta ha qualcosa di magico. Sperando di non offendere la sensibilità di nessuno (gli agenti sono per fortuna illesi, l’unico danno è quello alle automobili), l’ho trovata irresistibile, folgorante diagramma di un sogno di governo imperniato su stasi perpetua e movimento perenne.
Miracolo di montaggio, questi tre scatti detonano ai miei occhi tutte le imposture del populismo sovranista, tanto da produrne da sole quasi una definizione: se il popolo sovrano è quel soggetto collettivo tradito, ai tempi della Prima Repubblica, da coloro che avevano il dovere e la responsabilità di avverarlo tramite la difficilissima ars politica, il populismo sovranista è un gioco di prestigio che espelle dal discorso, insieme e nello stesso movimento, governatore e governati, carica pubblica e cittadinanza, qui e altrove, cresi sinistra di totalitarismo e anarchia.
“Vive la trance”, direbbero i Wu Ming di L’Armata dei Sonnambuli: un potere divenuto incollocabile, che non smette di indicare altrove; una comunità divenuta indicibile, che non smette di divergere e polverizzarsi in costellazione eterogenea; una parola politica ridotta a boutade, la cui violenza è nel suo ridicolo ancor più che nei suoi spaventosi contenuti. Potessimo, noi, ricominciare da quel tragicomico auto-tamponamento poliziesco, pantomima di un apparato di controllo che gira a vuoto e si ripiega infine su se stesso; potessimo trovarvi l’ideale grado zero da cui immaginare la polis a venire, quella in cui il “popolo sovrano” non ha niente a che vedere con il padre di famiglia, con l’italiano di nascita o d’adozione, con il proprietario di casa o d’impresa, ma è anzi il loro argine, quel luogo in cui il potere stabilito e distribuito secondo legami di sangue, di forza o di costume smette di valere.
Potessimo, reduci dalla tragedia in corso, avere forza e passione a sufficienza da rinnovare il progetto di una politica come occasione di libertà, nella bellissima definizione di Hannah Arendt, una politica la cui unica legittima operosità riguarda la costruzione e difesa di un in-fra che non precede il nostro essere, e trasformarci insieme.