Vite potenziali, romanzi effettivi

Intervista a Francesco Targhetta.

Vite potenziali Targhetta

Alberto, Giorgio, Luciano, colleghi con mansioni diverse (il capo, il pre-sales, il programmatore) nella stessa azienda di e-commerce, la Albecom; Marghera, la provincia veneta, le città europee; il lavoro, la Rete, le potenzialità di sviluppo.

Questo, in estrema sintesi, lo sfondo del romanzo d’esordio in prosa di Francesco Targhetta, già autore di opere poetiche (Fiaschi; Perciò veniamo bene nelle fotografie; Le cose sono due). Le vite potenziali, Mondadori, racconta le vicende di tre informatici trentenni, diversi per carattere e approccio verso la vita, ma contraddistinti da una stessa insicurezza di fondo: insicurezza non correlata alle – ma comunque in rapporto con le – evoluzioni di forma e di pensiero comportate da una tecnologia ormai onnipervasiva.

Mattia Rutilensi: L’azienda modello per questo romanzo è la Alpenite, che hai citato nei ringraziamenti. Ma cosa ti ha spinto a scegliere questo oggetto di narrazione?

Francesco Targhetta: Tutto è partito dalla figura del nerd, la trovavo una figura letterariamente fertile. Infatti, i nerd sono sempre stati gli sfigati, socialmente disadattati, goffi, impacciati, però di fatto sono diventati i padroni del mondo. Inoltre, probabilmente sentivo con la figura del nerd anche qualche affinità interiore, profonda. Il mio libro è una cosa diversa dai romanzi della tradizione industriale italiana, altra mia ossessione. Tutti i grandi romanzieri hanno sottolineato la difficoltà a parlare dell’industria, perché se non ne facevi parte c’era come un muro a dividerti. Con la Alpenite invece la cosa era differente: io entravo liberamente, anche senza dover suonare un campanello. Qualcuno mi salutava, la maggior parte neanche si accorgeva che fossi lì.

M.R.: E cosa ti ha spinto a passare dalla forma in versi a quella in prosa? Penso alla citazione di Faulkner: «Ogni romanziere, all’inizio, vuole scrivere poesie e, non riuscendoci, prova con i racconti, che sono la forma letteraria più difficile dopo la poesia. Poi, fallendo anche con quelli, l’unica cosa che gli resta da fare è mettersi a scrivere un romanzo».

F.T.: Non conoscevo la citazione, ma ho sempre pensato che si scrivessero poesie perché non si aveva una grande conoscenza del mondo. Quando ho scritto il romanzo in versi cercavo invece di dare una certa idea del mondo. Adesso volevo farlo di nuovo, parlando di questa accelerazione, ma per questo progetto non bastavano le poesie, serviva un romanzo. L’alternativa era scrivere un altro romanzo in versi, sarebbe stata anche la struttura per me più naturale, ma non volevo ripetermi subito.

M.R.: Durante il racconto il narratore riesce a cogliere, con dei passaggi dal lirismo abbacinante, le sfumature della personalità dei suoi personaggi. Di ogni atteggiamento mostra le ragioni segrete: il carisma di Alberto nasconde la necessità di fidarsi delle altre persone; l’eccitazione costante di Giorgio, detto GDL, si regge su un perenne bisogno di conferme; l’inadeguatezza di Luciano per la vita sociale cela un’attenzione ai sentimenti altrui ben più acuta del normale. Ma la qualità maggiore della scrittura è quella di catturare lo spirito del nostro tempo, evidenziando, a partire dai protagonisti, i cambiamenti di cui essi sono l’emblema, quelli introdotti da una tecnologia che da manufatto si è fatta forma mentis, scivolando pian piano dalle promesse di felicità e benessere alla situazione opposta, in cui l’abbondanza diventa miseria, non nel senso di indigenza, ma di povertà morale causata dalla frenesia e dall’eccesso di possibilità. Si avverte quindi, in tutto il libro, un senso di nostalgia, di malinconia, e quindi una condanna implicita per un mondo che si sente andare verso una trasformazione irreversibile. Il risultato è una visione amara del presente:

Tornato a Casier, si fece una doccia di un’ora, durante la quale si ritrovò spesso con gli occhi chiusi e la testa appoggiata al mosaico di piastrelle celesti. Nella sua prossima casa, si disse, avrebbe avuto una vasca da bagno. Eccolo, dunque, nudo, nelle sue contraddizioni: lui, che si era dato il compito di assecondare come pochi altri la nuova velocità del mondo e di guidarla fino all’accelerazione definitiva, appena poteva, nel suo intimo, rallentava, recuperava le abitudini antiche, retrocedeva verso i cascami del passato. D’altronde, pensò, sotto il getto bollente del soffione a dodici pollici, esistono due mondi, ormai, uno interno all’altro: quello monolitico di sempre, che ci è stato trasmesso dagli avi, con le sue piaghe e la sua ostinata zavorra di stanchezza, e quello multiforme, più aleatorio e intangibile, formato dalla rete, che è nato dentro all’altro per poi svilupparsi con una rapidità vorace fino a smangiarne i contorni, a mo’di buco nero che si allarga senza sosta nel suo incessante ronzio.

Cosa può fare la letteratura in questa situazione? Davvero, come pensa Alberto «Il mondo non si può fermare. Si tratta soltanto di accompagnarlo nella direzione in cui sta già andando, con la cura di farlo con più onestà possibile. Bisogna riuscirci, però»?

F.T.: Quella è la visione di Alberto, che è un progressista e pensa che quella direzione debba essere assecondata, ma nel libro ci sono anche altre prospettive. Il mio punto di vista è più scettico, coincide con quello di Luciano. Non credo che la letteratura possa fare molto.

M.R.: Perché non può reggere il confronto? O perché il suo potere di convincimento si muove su un piano differente?

F.T.: Per questa seconda ragione: qualcosa in più, come diceva Houellebecq, può fare solo la saggistica. Sul ruolo della letteratura in questo mondo sono molto scettico, i fatti dimostrano che si sta andando verso una diminuzione del numero di lettori e quindi una marginalizzazione della letteratura.

M.R.: In Di cosa parliamo quando parliamo di libri, Tim Parks ipotizza però che il romanzo resisterà proprio per la sua tendenza a richiedere una certa dose di attenzione: come momento della giornata in cui evadere.

F.T.: La lettura di certi romanzi richiede tempo, concentrazione, impegno e il paradigma dell’accelerazione di cui parlo, al contrario, propone il trionfo della velocità e quindi anche della superficialità. Credo perciò che il romanzo rimarrà, come resistono tutte le cose che esaltano la complessità, però rimarrà in una dimensione estremamente marginale.

M.R.: Invece Calvino in Una pietra sopra affermava che la letteratura non deve cercare di fare politica o tratteggiare direzioni, suo compito è solo quello di renderci più intelligenti o sensibili. Sei d’accordo?

F.T.: Certo, anzi, per la poesia vale ancora di più questa cosa. Iosif Brodskji diceva: «La poesia è la miglior scuola di insicurezza». Questo è il massimo che si possa fare, ma è comunque tantissimo. E cercare di far vedere il mondo da un’ottica nuova, è, più che provare a dare una risposta, fornire una nuova domanda. In questo senso a me interessa la letteratura che cerca di dare uno sguardo alla contemporaneità. I libri che hanno successo oggi sono quelli che parlano del nostro passato o che sono senza tempo, mentre a me interessano più gli scrittori che cercano di interpretare il loro tempo.

M.R.: Notevole in questo libro è anche l’impianto stilistico, perché è proprio nello stile che diventano evidenti le contraddizioni dei protagonisti: nei discorsi indiretti liberi che li avvolgono la lingua riflette in pieno l’estetica nerd piena di prestiti dal linguaggio scientifico e dall’inglese, condita con ragionamenti stringenti, quasi matematici, ed espressioni da pubblicità che creano un significativo stridore con i passaggi più lirici del romanzo. Come nella scena iniziale del libro, in cui Luciano attraversa la strada «tenendo saldo tra le mani un pacco di crocchette al manzo e frumento, ideali per gatti adulti esposti alle intemperie e bisognosi di rafforzare le proprie difese immunitarie». Come hai lavorato per ottenere questo effetto?

F.T.: Riguardo al lessico gergale ho cercato di metterne il più possibile, stando attento a non far diventare il romanzo qualcosa di illeggibile. Però volevo che ci fosse, perché i programmatori parlano così e io volevo un romanzo che fosse aderente alla realtà. Ho dovuto però fare un esercizio di italianizzazione delle conversazioni, perché loro utilizzano tutti adattamenti dall’inglese, come ad esempio «startare».

M.R.: Spesso la sintassi ricorda il linguaggio pubblicitario e quello scientifico, con molte metafore: come quando Luciano si domanda se buttarsi con Matilde e si risponde che dovrebbe «elevare alla seconda i sentimenti».

F.T.: Sì, questi personaggi ragionano così. Il loro è un modo estremamente razionale di cercare di inquadrare il mondo, un mondo che sfugge anche a loro, sempre di più. La contraddizione è tra questo mondo sempre più disorientante e il tentativo stoico di ridurlo a un certo ordine, di ricomporlo con delle formule, con delle frasi. Nella sintassi ho cercato di usare periodi abbastanza ampi, ma allo stesso tempo ordinati, con le subordinate al loro posto, elementi mimetici del modo di stare al mondo di questi personaggi, del loro tentativo di essere più lucidi, perché sanno che non possono permettersi di distrarsi. Perciò veniamo bene nelle fotografie aveva un linguaggio più torrenziale, che era anche quello giovanile, con una rabbia che ancora si muoveva in modo magmatico, questa volta invece volevo una prosa più ordinata, più limpida, più chiara.

M.R.: Il romanzo è ambientato principalmente, anche se non solo, a Marghera, città che dici di amare, ma che definisci come un luogo che «ha elevato l’imperfezione a sistema», un luogo progettato per ordinare e finito per desolare, perfetto per questa vicenda. Penso che la città sia il tuo quarto personaggio principale, sei d’accordo? Fai molta attenzione alla descrizione dello scenario, cosa significa per te il luogo di ambientazione della storia?

F.T.: Non appena ho pensato alla figura del nerd è stato immediato l’accostamento a Marghera, perché, come il nerd, è un luogo di attrito. È il luogo della memoria dell’industria pesante, ma è anche il luogo dove sta nascendo l’invisibile. Io ho un’attrazione verso i luoghi marginali e abbandonati, verso quello in particolare. Trovo che in esso viva una forma di sublime: è qualcosa di talmente grande e gigantesco, brutto, è innegabile, che però dà la stessa visione di una cattedrale gotica, con le ciminiere al posto dei pinnacoli. Poi è un luogo di dolore, di memoria dolorosa, e questo è poeticamente importante. È il luogo del Petrolchimico, dove molte famiglie hanno trovato un riscatto, ma a che prezzo? È un luogo poeticamente fertile perché è un luogo vivo, dove il nuovo convive con la memoria.

M.R.: In un certo punto scrivi addirittura «Solo nei luoghi desolati certe vite possono trovare la loro armonia: i bar decadenti, le panchine lungo la circonvallazione, le piazze di periferia con le fontane disseccate e il cemento dei palazzi a cintura, le strade sporche dietro la stazione. Marghera» e sembra quasi che la città ti faccia sospirare, come se ti stupisse tutte le volte.

F.T.: Sì, è così. Quando ci torno ho i miei cantucci, gli angolucci in cui vado a guardare l’acqua del canale, il tramonto contro le navi in costruzione, i silos. Quindi sì, c’è questo sospiro dell’innamorato.

M. R.: Alberto, GDL, Luciano, sono tutti e tre maniaci del controllo: Alberto sulla propria azienda, di cui lamenta le defezioni e i soprusi subiti a opera delle aziende più grandi; GDL sulla propria carriera, che vorrebbe sempre in ascesa e per cui è disposto a tradire gli amici; Luciano sulla propria emotività, che vorrebbe corrisposta, ma che si costringe a nascondere per non ferirsi. Questo in fondo è un romanzo sulla mancanza di naturalezza e di accettazione delle proprie debolezze, una mancanza che dalla tecnologia è spalleggiata fino a diventare un falso punto di forza:

Quella testardaggine nell’inadeguatezza, forse, però, era segno di qualcosa di nuovo, come se la loro incompetenza e la difficoltà nel venire a capo di un problema fossero improvvisamente divenute una responsabilità e una colpa altrui – della società, dei capi, dei padroni – da cui una specie di cocciuto orgoglio da loser, abbinato persino a un po’ di boria, ma senza nessuna coscienza di classe o ideologia, anzi, frutto di una deriva individualistica portata all’estremo.

Passaggi come questi fanno capire la precisione e il valore di questo libro, che fotografa perfettamente il distacco con il passato: distacco che si misura nella tendenza, negli appetiti, nelle passioni, nelle speranze, non solo nei cambiamenti di infrastrutture. Questo libro durerà, forse anche perché, pur raccontando senza dubbio di questi anni, non ha molti riferimenti precisi ad aziende o marchi che, in un ipotetico futuro, possano diventare sconosciuti ai più. Questo risultato è frutto di una scelta oculata? Hai pensato a quale potrebbe essere il riscontro di questo libro anche fra dieci-venti-cinquant’anni?

F.T.: In realtà di marchi commerciali avrei voluto mettercene di più, ma non mi è riuscito. In questo romanzo c’erano già tanti corsivi e inserire anche i marchi sarebbe stato un appesantimento inutile, un modo di affogare i personaggi tra le cose. Non ho inserito neanche i social, perché frequentando queste persone mi sono accorto che li usano poco, sia al lavoro che fuori dal lavoro. Sono come gli imprenditori della Silicon Valley che poi dichiarano: «ai nostri figli non permetteremo mai di usare un tablet o di iscriversi a un social».

M.R.: È come quando scrivi «Luciano era un programmatore diffidente verso la tecnologia, proprio perché, a ben vedere, era il fondamento della sua stessa esistenza».

F.T.: Sì, ma Luciano è un marginale, non ama esporsi. La sua diffidenza si spiega dal punto di vista caratteriale. Invece Alberto e GDL sono due che al mondo ci stanno volentieri, eppure quelle persone lì, a cui mi sono ispirato per quei personaggi, fanno un uso moderato dei social. Non me lo so spiegare del tutto però, forse fanno come il pasticcere che non mangia le torte che prepara.

M.R.: Io azzarderei, su Alberto e GDL, una spiegazione: spesso i social si usano per celebrare le proprie esperienze, mentre loro non riescono mai a concentrarsi sul presente perché sono sempre tesi in avanti.

F.T.: Sì, questo aspetto è comunque espressione di quel paradigma della potenzialità: essere sempre proiettati in quello che si potrebbe diventare. Forse però la loro ritrosia dipende anche dalla mancanza di necessità di condividere. In ogni caso la mia tesi è che tutta questa struttura ha modificato i nostri modi di pensare. Ma per rendere in un romanzo tutto questo non è necessario citare esplicitamente. È talmente cambiato il nostro modo di stare al mondo che basta raccontare questo per dare l’idea, non la comunicazione nel dettaglio.

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