In ricordo di un compagno di viaggio.

Ripubblichiamo l’intervento che Mario Galzigna ha tenuto nel 2015 in occasione del ciclo di seminari “Siena e il suo Doppio”, di cui il lavoro culturale è stato media partner. Mario è stato un pensatore che si muoveva con grande competenza incrociando teoria critica, teoria dell’arte, antropologia e psicanalisi. Questo intervento ne testimonia una volta di più l’originale approccio alla storia della cultura e alla teoria del soggetto.
I dualismi come patologie del pensiero occidentale: aveva ragione Bateson. Tra di essi, soprattutto il dualismo corpo/anima, che già l’analisi foucaultiana dedicata alla nascita della prigione aveva scelto come bersaglio fondamentale: dal corpo del condannato, sottoposto a pena e punito, all’anima del condannato, sottoposta a specifiche tecnologie di potere, che rappresentano l’esito di una «metamorfosi dei metodi punitivi», messa a tema da Foucault già nel primo capitolo del grande libro del 1975, Sorvegliare e punire (p. 27, che citerò, d’ora in poi, come SP, nell’edizione einaudiana del 1993).
Si tratta, appunto, di «studiare la metamorfosi dei metodi punitivi» afferma Foucault, «partendo da una tecnologia politica del corpo». Si tratta di capire in che modo «l’uomo, l’anima, l’individuo, normale o anormale, sono venuti a porsi accanto al delitto come oggetti dell’intervento penale». Si tratta di capire – sempre Foucault– come questo «ingresso dell’anima sulla scena della giustizia penale» rappresenti «una trasformazione del modo in cui il corpo stesso» è stato «investito dai rapporti di potere».
Dentro questo snodo i saperi scientifici e le scienze dell’uomo irrompono nella pratica giudiziaria fino a modificarla e a sconvolgerla. Dentro questo snodo il corpo – e con esso l’individuo, e con esso l’anima – viene scoperto come forza utile, e quindi sia come corpo produttivo, tutto interno al rapporto di produzione, sia come corpo assoggettato, forgiato dalle discipline: è il momento in cui l’impianto genealogico si innesta proficuamente sull’analisi marxiana del rapporto capitalistico di produzione; è il momento in cui il corpo viene «direttamente immerso in un campo politico», poiché «i rapporti di potere operano su di lui una presa immediata, lo investono, lo marchiano, lo addestrano, lo suppliziano, lo costringono a certi lavori, lo obbligano a delle cerimonie, esigono da lui dei segni» (SP, 29).
Questa microfisica del potere funziona, è efficace, è produttiva, proprio nella misura in cui il potere stesso non si esercita più come proprietà, ma come strategia. Una strategia che ha i suoi effetti di dominazione, le sue tattiche, le sue tecniche, i suoi funzionamenti specifici, un suo vasto campo di applicazione: il bersaglio della pena, infatti, non è più esclusivamente il corpo, ma l’anima.
Come auspicava Gabriel Bonnot de Mably, l’abate Mably, in De la législation, ou Principes des lois (1776), «che il castigo, se così posso dire, colpisca l’anima, non il corpo». «Momento importante» afferma Foucault:
I vecchi protagonisti del fasto punitivo, il corpo e il sangue, cedono il posto. Un nuovo personaggio entra in scena, mascherato. Finita una certa tragedia, inizia una commedia, con figure d’ombra, voci senza volto, entità impalpabili. L’apparato della giustizia punitiva deve ora mordere su questa realtà senza corpo (SP, 19).
L’anima. L’anima dei condannati. L’anima dei soggetti puniti. I giudici, insomma, si sono messi a giudicare non soltanto reati, cioè condotte definite e sanzionate dal codice, ma l’anima dei criminali, e perciò «istinti, passioni, anomalie, infermità, disadattamenti, effetti dell’ambiente o della eredità» (SP, 20).
Allo sdoppiamento del corpo del re, al suo «corpo doppio» già messo a tema da Kantorowitz, che Foucault cita e valorizza, corrisponde simmetricamente uno sdoppiamento del corpo sottomesso del condannato; il potere eccedente che si esercita su questo corpo sottomesso suscita un altro tipo di sdoppiamento, che mette in scena un incorporeo, un’anima, per dirla ancora con Mably, cioè una realtà incorporea prodotta in permanenza intorno al corpo, alla superficie del corpo, all’interno del corpo.
Un’anima reale e incorporea dotata di una sua ben definita realtà storica. Un’anima che non è sostanza e che viene perciò sottratta agli ambiti della metafisica e del pensiero religioso: una «realtà-riferimento», come la chiama Foucault, che ha reso possibile la costruzione di concetti differenti e di differenti «campi di analisi: psiche, soggettività, personalità, coscienza». Ed è proprio a partire da tale realtà-riferimento che «sono state fatte valere le rivendicazioni morali dell’umanesimo» (SP, 33).
Quest’anima, insieme «effetto e strumento di una anatomia politica», diviene inesorabilmente «prigione del corpo». Quest’anima è prigione del corpo proprio perché costituita e forgiata – rivelandosi capace di produrre un singolare sistema di sdoppiamento – a partire da puntuali e minute tecnologie politiche del corpo.
Essa subisce, in altri termini, i vincoli, il destino mondano e l’orizzonte di condizionatezza di queste stesse tecnologie: dimensioni silenziose, poco appariscenti, che si dispiegano con modalità efficaci, puntuali e ben localizzate grazie all’azione di «tutto un esercito di tecnici» che «ha dato il cambio al boia, anatomista immediato della sofferenza: sorveglianti, medici, cappellani, psichiatri, psicologi, educatori» (SP, 13).
Tecnici del corpo e dell’anima, dunque, tutti preposti, anche se in differente maniera, alla gestione di quel continuum esistenziale – fatto di individui e di gruppi, di singoli e di masse – che rappresenta sia l’oggetto della disciplina carceraria, sia, più in generale, l’oggetto del carcerario, che trasporta le tecniche di dominio dell’istituzione penale «nell’intero corpo sociale» (SP, 330).
Il carcerario è un oggetto variegato, multiforme, differenziato al suo interno: include il colpevole ma anche il pazzo; il colpevole da punire ma anche il pazzo, anch’esso colpevole, che tuttavia dovrà essere non solo rinchiuso ma anche curato.
L’articolo 64 del codice penale napoleonico – in base al quale non esiste né crimine né delitto se il soggetto era in stato di demenza al momento dell’atto – sanziona l’ingresso della perizia psichiatrica in ambito penale e mette in primo piano la coscienza e la valutazione psichiatrica del soggetto criminale, del suo grado di consapevolezza, della sua imputabilità, del suo grado, per dirla con i testi dell’epoca, di libertà morale.
Una falla, un buco nero del sistema penale: una possibilità, sostenuta scopertamente e spesso polemicamente dai padri fondatori della psichiatria clinica (gli Esquirol, i Georget, per non citare che loro), di sottrarre il colpevole alla prigione o alla forca (cfr. M. Galzigna, La malattia morale. Alle origini della psichiatria moderna, Marsilio 1992).
La pratica dei tribunali riuscì ben presto a disconoscere la rottura introdotta dall’art. 64, riconcliando due termini – colpevolezza e follia – che la legislazione penale europea, influenzata dal codice napoleonico, aveva temerariamente dissociato.
Si legga l’acuto pamphlet di Georget, Il crimine e la colpa. Discussione medico-legale sulla follia (a cura di M. Galzigna, Mimesis 2008). Questa Discussion del 1826 è scritta dall’alienista Étienne-Jean Georget (1795 -1828), allievo di Esquirol e suo collaboratore al manicomio parigino della Salpétrière.
Già nel primo Ottocento la pratica della perizia psichiatrica diventa parte costitutiva del procedimento giudiziario. Secondo gli psichiatri alienisti, il “reo” giudicato folle dalle perizie non è imputabile. Non è colpevole. È perciò solo un malato da assolvere, da segregare in manicomio, da curare. Molti magistrati non accettano questo genere di assoluzione.
Di qui un aspro conflitto tra magistrati e alienisti, efficacemente messo in scena da questo pamphlet: uno dei primi documenti importanti della psichiatria forense. Il dibattito è aspro, privo di mediazioni, soprattutto nei casi in cui l’autore del crimine viene definito attraverso la categoria della monomania omicida.
Molti crimini atroci e mostruosi, che avevano dominato le cronache giudiziarie francesi a partire dagli anni Venti del secolo XIX, popolano lo scenario di tale querelle. Emerge già qui la figura del doppio, assieme ai suoi antecedenti teologici, religiosi, metafisici. La freudiana Ichspaltung – la scissione dell’io, così presente nella letteratura e nella psichiatria dell’Ottocento – trova in questi testi aurorali della psichiatria forense le sue radici dottrinali, troppo spesso ignorate o dimenticate.
Rispetto alla giustizia d’ancien régime un argine, comunque, era stato rotto: si passa, nel valutare portata e conseguenze di un crimine, dal fatto all’intenzione, du fait à l’intention, come recitano i testi giuridici a cavallo tra Settecento e Ottocento: cioè dalla descrizione del regime di materialità di un crimine alla valutazione del grado di consapevolezza – di «libertà morale», appunto – del criminale nel momento stesso in cui ha commesso tale crimine.
La definizione della libertà morale di un soggetto attraversa dunque in profondità la lettera dei codici e al tempo stesso la somministrazione delle pene, le strutture della sorveglianza, i contesti istituzionali – l’ospedale, l’asilo, la caserma, la scuola – capaci di gestire processi di normalizzazione delle condotte, all’unisono con garanzie attendibili di un certo grado di sicurezza sociale. È all’interno di questa sinergia virtuosa tra libertà e sicurezza – tra libertà morale e sicurezza sociale – che vanno collocate e comprese le strategie della cura e il governo della devianza.
La cura, la Sorge – il lemma che già Heidegger, in Essere e tempo, tratta come l’equivalente tedesco del lemma latino “cura”– è caratterizzata da una sua ineliminabile contingenza, da una sua ineliminabile condizionatezza storica: non «essere dell’esserci» (Sein des Dasein), come pretende Heidegger, che con comica e delirante supponenza si autoproclamava pastore dell’essere, ma cifra della temporalità, volto friabile, provvisorio – spesso frammentato – del nostro presente psichico, storico, culturale.
È così, credo, che va inteso tutto lo straordinario Libro XI delle Confessioni di Agostino. Al paragrafo 20 si legge:
Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non le vedo altrove [Sunt enim haec in anima tria quaedam et alibi ea non vidéo]: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa.
La cura si gioca dunque dentro questa presentificazione della temporalità, messa mirabilmente in evidenza, non senza sgomento e smarrimento, da Agostino. «È in te, spirito mio, che misuro i tempi» [tempora, che il valente traduttore einaudiano, Carlo Carena, traduce arbitrariamente al singolare].
Leggiamo infatti, nell’incipit del paragrafo 36: In te, anime meus, tempora metior. Sgomento e smarrimento, dicevo, ben percepibili in questo passaggio collocato quasi alla fine del Libro XI: «Io mi sono schiantato sui tempi, di cui ignoro l’ordine, e i miei pensieri, queste intime viscere della mia anima, sono dilaniati da molteplicità tumultuose» [et tumultuosis varietatibus dilaniantur cogitationes meae].
Contro l’inevitabile reductio ad unum di chi cerca e trova in Dio il fondamento della Verità, si muovono minacciose, anche se perdenti, le tumultuose molteplicità, le tumultuosae varietates, che lacerano e dilaniano lo spirito.
La cura, dunque, si gioca tutta tra passato, presente e futuro – agostinianamente, tra memoria, visione ed attesa, tra memoria, contuitus ed expectatio – al di fuori di ogni abusivo orizzonte ontologico. Il presente della cura, contuitus, anche in quanto expectatio, anche in quanto promessa e attesa di guarigione, viene definito – a partire da riscontri empirici, fuori da ogni ingessamento categoriale – dal suo inevitabile intrecciarsi con procedure disciplinari: pratiche della sicurezza ricche di precedenti storici (memoria), che devono essere piegate e adattate, soprattutto nel manicomio nascente, ai nuovi imperativi terapeutici.
Un Giano bifronte, dunque, la cura: strumento utile ad affrontare o a risolvere le patologie e al tempo stesso garanzia dell’ordine e della sicurezza. Un singolare ossimoro e insieme una nuova e inedita scommessa, che mette assieme ragioni dell’ordine sociale e imperativi di carattere medico-sanitario.
L’asilo, la maison des fous, il manicomio nascente, al centro di questa scommessa: un laboratorio dove si sperimenta la difficile conciliazione tra i due termini dell’ossimoro, oppure, se preferite, la sintesi disgiuntiva che li collega, che li istituisce come momenti inscindibili di un unico insieme.
Solo la fausse conscience di non pochi operatori “psy” rifiiuta la necessità di pensare assieme i due termini dell’ossimoro. Ed è il concetto di disciplina – uno degli epicentri dell’analitica foucaultiana – quello che maggiormente ci aiuta a comprendere l’enigma storico-politico di questo ossimoro, oltre che il retroterra sociale e istituzionale della sintesi disgiuntiva, prima citata, già messa a tema da Foucault, nel suo Corso Nascita della biopolitica, come «connessione degli eterogenei».
[Una prima breve e doverosa parentesi. Un’efficace metafora – «polizia dell’anima» – per rappresentare l’ossimoro è stata quella a suo tempo utilizzata da un grande amico recentemente scomparso, Alessandro Fontana, a cui dedico questo mio intervento. Alessandro Fontana ha intitolato una sua raccolta di saggi, dedicata alla genealogia della psicoanalisi, Polizia dell’anima. Il libro, già édito da Ponte alle Grazie, raccoglie e introduce tre voci originariamente scritte per l’Enciclopedia Einaudi (Angoscia/colpa, Censura, Castrazione/complesso). Alessandro ora non è più tra noi, ma la sua voce e il suo pensiero continuano ad ispirarci e ad orientarci. Ho imparato, anche e soprattutto da lui, come leggere Deleuze e Foucault, e soprattutto come pensare con Foucault e a partire da Foucault. Memorabili, tra le sue tante cose, l’Introduzione all’edizione einaudiana dell’Anti-edipo e l’Introduzione all’edizione einaudiana di Nascita della clinica. La sua è stata una lezione di vita, oltre che una lezione di stile].
[Una seconda parentesi vuole anche essere, in questa sede, un omaggio al pensiero di Foucault. Un omaggio ad una delle sue cifre costitutive: una cifra irriducibile rispetto ai tetri e funesti esercizi esegetici che l’acribia disciplinare di matrice accademica ha continuato e continua a produrre attorno ai testi di Foucault. A questo scopo, fidando nella vostra paziente attenzione, riporto della pagina conclusiva che chiude il primo capitolo di Sorvegliare e punire (SP, pp. 33-34):
Che le punizioni, in generale, e la prigione derivino da una tecnologia politica del corpo, è forse meno la storia che non il presente ad avermelo insegnato. Nel corso di questi ultimi anni, un po’ ovunque nel mondo si sono prodotte rivolte nelle prigioni. I loro obiettivi, le loro parole d’ordine, il loro svolgimento avevano sicuramente qualcosa di paradossale. Erano rivolte contro tutta una miseria fisica che dura da più di un secolo: contro il freddo, il soffocamento e l’affollamento, contro i muri vetusti, contro la fame, contro i colpi. Ma erano anche rivolte contro prigioni modello, contro i tranquillanti, contro l’isolamento, contro il servizio medico o educativo. Rivolte i cui obiettivi non erano che materiali? Rivolte contraddittorie, contro il decadimento ma contro il confort, contro i guardiani ma contro gli psichiatri».]
Il panoptismo benthamiano: un paradigma che poggia soprattutto sull’invisibilità del controllore e sulla totale visibilità dei controllati. L’invisibilità, soprattutto quella laterale – la cui assenza renderebbe possibile la comunicazione tra i soggetti dominati – è una indispensabile «garanzia di ordine» (SP, 218).
E «la folla, massa compatta, effetto collettivo, luogo di molteplici scambi, è abolita in favore di una collezione di individualità separate. Dal punto di vista del guardiano, essa viene sostituita da una molteplicità numerabile e controllabile; dal punto di vista dei detenuti, da una solitudine sequestrata e scrutata» (SP, 219). È così che «il Panopticon è una macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti; nell’anello periferico si è totalmente visti, senza mai vedere; nella torre centrale, si vede tutto, senza mai essere visti» (SP, 220).
Da parte di chi ha lavorato sui sistemi penitenziari contemporanei, spesso con il supporto di minuziose indagini etnografiche sul campo, è stata messa in evidenza la sfasatura tra l’ideologia panottica rivisitata da Foucault e la pratica quotidiana dell’esperienza carceraria. È il caso, ad esempio, di Fred Alfort, che pubblica nel 2000, sulla rivista Theory and Society (29, 1, pp. 125-146) un denso e provocatorio articolo, nel quale analizza i risultati della sua ricerca condotta nel penitenziario di massima sicurezza di Patuxent, nel Maryland.
Il panottismo, per Alfort, non è che una ideologia.È l’effetto di propaganda prodotto da un certo sistema di potere. È il suo modo di apparire, che maschera i rapporti reali. Scrive Alford: «Il vero potere consiste nel non guardare […] La necessita di guardare è un segno del limite del potere. Se si deve guardare, non si ha veramente il controllo. Se si ha il controllo non si prova il bisogno di guardare» (p. 129).
In alcuni sistemi penitenziari contemporanei – primo fra tutti il carcere boliviano di San Pedro (La Paz), ben studiato da Francesca Cerbini (Università Statale di Cearà-Brasil) – l’unica esigenza vincolante dell’autorità è la sorveglianza delle entrate e delle uscite dalla prigione. Soddisfatta questa necessita – scrive Cerbini – «non si ha più bisogno di guardare “dentro”, eludendo così l’obbligo di prendere in carico la persona, pur disponendo della sua vita».
Il potere disciplinare poggia in maniera particolare, più che su un potere che si impone dall’esterno, sulla forza dei capi, cioè dei reclusi che occupano posti di comando nella comunità e che hanno interiorizzato nella loro routine carceraria quotidiana le regole del comando e del controllo, veicolate proprio da quelle tecniche «minuziose e modeste» messe in luce da Foucault in Sorvegliare e punire.
Dentro «l’esperienza della reclusione» scrive acutamente Cerbini al termine del suo contributo,«le cose e le persone che appartengono a questo spazio non “domesticato” hanno bisogno di essere culturalmente mediate, fondate e immaginate, per cui il recluso è capace esso stesso di una forza creativa e distruttiva superiore a ordini e a regole, indipendente dalla presenza di sbarre e secondini». Egli perciò plasma, almeno in parte, «il suo castigo e il suo margine di libertà, svelando in questo modo la dimensione ambigua, contraddittoria, “intermittente” del potere di coloro che [lo] controllano e [lo] reprimono, la cui principale forza risiede proprio nella capacità di essere, paradossalmente, assenti».
In questi scenari contemporanei, ai quali si accenna, qui, solo per sommi capi, la disciplina si afferma e si impone attraverso regole estrinseche e non attraverso la visibilità dei soggetti controllati e reclusi. I soggetti reclusi, subiscono, come si è visto, un’istanza di potere, la quale però si impone attraverso norme estrinseche.
E tali norme, proprio perché estrinseche, non forgiano l’interiorità dei soggetti reclusi. I soggetti reclusi mantengono viva e attiva la loro forza creativa (o distruttiva); sono dunque, perciò stesso, soggetti costituiti, condizionati, che tuttavia si affermano anche come soggetti costituenti: cioè come soggetti creativi che trovano la forza di reagire inventando regole, procedure e sistemi di sopravvivenza.
Si ricordi l’adagio engelsiano valorizzato da Jean-Paul Sartre nella sua Introduzione alla Critica della ragione dialettica: l’uomo fa la storia (soggetto attivo, soggetto costituente), ma in un ambiente dato che lo condiziona (soggetto passivo, soggetto costituito).
Ancora un ossimoro. Ancora una sintesi disgiuntiva, ben oltre le movenze ireniche, pacificatrici e conciliatrici della dialettica hegeliana. La possibilità, per il soggetto passivo, costituito, di diventare soggetto attivo, costituente: magia e poesia della creatività umana, capace di uscire dal kantiano stato di minorità e di accedere, non senza lotte, contrasti, lacerazioni e sofferenze, a un orizzonte di libertà.
Siena, 16 aprile 2015