“Grammatica della moltitudine” di Paolo Virno, un po’ trascrizione di un seminario universitario che molto conserva del ritmo del parlato e un po’ lapidaria enunciazione di tesi sulla moltitudine postfordista tanto ha ancora da dire sulla cangiante relazione fra Lavoro, Politica e Intelletto di questo secondo decennio del XXI secolo.
Ora andate, lavorate! Non vi sarà data paglia, ma voi darete lo stesso numero di mattoni.
(Esodo 5,18)
Riprendere in mano la pletora di tesi e intuizioni che Paolo Virno snocciolò pochi mesi prima del G8 di Genova – quindi a ormai dodici anni dalla loro prima pubblicazione nel 2002 e a ben tredici dal seminario tenutosi all’Università della Calabria in cui furono trascritti – in Grammatica della moltitudine. Per una analisi delle forme di vita contemporanee (DeriveApprodi, IV edizione, 2014) potrebbe sembrare un esercizio sterile, quasi un attardato tentativo di leggere la sua capacità analitica e predittiva con un rassegnato senno del poi. Eppure questo testo anfibio, un po’ trascrizione di un seminario universitario che molto conserva del ritmo del parlato e un po’ lapidaria enunciazione di tesi sulla moltitudine postfordista tanto ha ancora da dire sulla cangiante relazione fra Lavoro, Politica e Intelletto di questo secondo decennio del XXI secolo.
Innanzitutto sull’attualità dell’antica disputa da cui l’analisi di Virno prende le mosse, ovvero quella contrapposizione fra le categorie politiche di popolo e moltitudine che nata nel XVII secolo dalle fucine filosofiche di Hobbes e Spinoza torna oggi a essere interessante.
Se il “popolo” ha descritto la forma di vita associata e lo spirito pubblico dello Stato moderno, del Leviathan hobbesiano, oggi che questo svanisce delocalizzando il monopolio della decisione politica, una nuova soggettività, eteroclita e dinamica, aleggia sulle sua ingombrante assenza. Che però questa fantasmagoria viva sia la moltitudo spinoziana, una pluralità che persiste in quanto tale sulla scena politica, non è dato poterlo dire, così come è ineffabile quella «sfera pubblica non statale» (p. 62) che si conforma al suo modo d’essere, e che fa oggi capolino nelle esperienze associative e politiche dei No-Tav o dei Cinema e Teatri occupati in giro per il paese.
Tali esperienze esprimerebbero un altro modo di vivere le forme associative del comune (sarebbe meglio dire tanti altri modi di vivere) che hanno nel rispetto del molteplice il loro minimo comune denominatore e che colmerebbero il vuoto lasciato dal meccanismo securitario dello Stato moderno. Ora, quando queste nuove soggettività non s’individuano e non si fanno potere costituente allora il vuoto è nuovamente adombrato dalla retorica performativa dei rappresentanti del “popolo”. O meglio, come avrebbe detto Ernesto Laclau, se il “popolo” è la logica sociale con cui si costruiscono le categorie del “politico” in età moderna allora esso è anche un universale vuoto, riempito di volta in volta da popul-ismi di vario orientamento che ne rappresentano il significante.
Non a caso, oggi, gli efficaci popul-ismi di Grillo, della Lega, di Berlusconi e non ultimo di Renzi (quello giovanilistico-mediatico della “volta buona”) cannibalizzano la possibilità di mostrare quella “sfera pubblica non statale” in cui si da l’esperienza dell’esser molti in quanto molti. Sfruttano l’angosciato disorientamento della società postfordista per stimolarne, in Italia, il bisogno di costruirsi un riparo nelle vecchie forme associative dello Stato moderno.
In altre parole categorie come paura, ricerca di sicurezza, privato e individuale continuano a funzionare da concetti zombie, da parole d’ordine non morte al contrario del loro cuore pulsante – la triade d’età moderna popolo/volontà generale/ Stato – al fine di mobilitare i flussi elettorali e imporre al discorso pubblico la leadership di gruppi politici che offuscano la “sfera pubblica non statale”, in cui si consuma il modo d’essere oggi prevalente, l’esperienza della moltitudo.
Si badi tuttavia che è proprio l’ambivalenza di questo modo d’essere, l’insieme di possibilità alternative che caratterizza l’esser moltitudine, a renderlo vulnerabile e allo stesso tempo resistente al ritorno del “popolo”. La differenza fondamentale, semmai, «è che queste possibilità alternative hanno una fisionomia peculiare, diversa da quella con cui comparivano nella costellazione popolo/volontà generale/ Stato» (p. 15).
Proprio questa diversità fondamentale è all’opera, in maniera evidente secondo Virno, nel collasso della tripartizione dell’esperienza umana in Lavoro, Politica e Pensiero. La cifra ultima del capitalismo postfordista è l’indiscernibilità di produzione e prassi, del lavoro produttivo subordinato e delle competenze che, nel secolo scorso, facevano capo all’ambito dell’azione politica. In tale contesto il capitale punta ad accapararsi la performance del virtuoso, l’attività del lavoratore visto come un artista-esecutore. Ciò implica che l’attenzione del capitale si sposti dalla forza lavoro reificata nel prodotto, dalla merce, a quell’atto del produrre che è inseparabile dal proprio prodotto, che come scrive Marx nel ben noto Capitolo VI inedito di das Kapital, accomuna il cameriere al grande pianista. E con ciò investe di attenzione la stessa vita del lavoratore: il suo essere sociale perché l’esecuzione virtuosistica ha bisogno di un pubblico, il suo essere parlante perché l’azione del virtuoso si svolge su uno spartito, come un gioco linguistico intrecciato al dedalo di strade e case che fanno la cittadella dei topoi koinoi, la saggezza comune depositata nell’uso del linguaggio.
In tal senso assume la veste di un vero e proprio paradigma la trasformazione novecentesca, nell’ambito della società dei consumi e dello spettacolo, dei lavori cognitivi nell’industria culturale. E in Italia, la coscienza di questa trasformazione è stata la voce solitaria di Luciano Bianciardi, il suo acuto scrutare e vivere l’esperienza del quartariato, della invalutabilità dei lavoratori culturali, del loro essere «lubrificante, al massimo vasellina pura» (La vita agra, Feltrinelli, Milano 1962, p. 132). Come osserva Virno:
Bianciardi sottolinea la crescente «politicità» del lavoro nell’industria culturale. Ma, ecco l’importante, lega questa politicità al fatto che in tale industria non si producono opere separate dall’agire stesso. […] Sia chiaro: nell’industria culturale (come poi oggi, in epoca postfordista, nell’industria in genere) non mancano certo prodotti finiti da smerciare alla fine del processo produttivo. Il punto cruciale è, però, che, mentre la produzione materiale di oggetti è demandata al sistema delle macchine automatizzato, le prestazioni del lavoro vivo assomigliano sempre di più, invece, a prestazioni linguistico-virtuosistiche (pp. 47-48).
Il fatto che le prestazioni del lavoro vivo diventino regola della produzione per l’occidente postfordista non esclude ovviamente che la produzione di merci attraverso il lavoro subordinato sia di colpo svanita. La fabbrica, lo sfruttamento del corpo operaio e contadino, continuano a proliferare ai margini di questo universo di profitto postindustriale, nel lavoro subordinato di salariati e migranti, ma anche nelle masse operaie e contadine che vivono oltre le sbarre della gabbia dorata. Anzi forse è proprio nello sfruttamento del corpo vivo come dynamis, come potenza di agire e trasformare, che si annida una sordida continuità tra fordismo e postfordismo. Lo ha già notato tra le righe Alberto Prunetti in quella scheggia ironica e dolorosa al tempo stesso che è Amianto:
Faccio un lavoro culturale e ho trentanove anni. Alla mia età mio padre operaio metalmeccanico sindacalizzato dalla Fiom si era già comprato casa. Io, “lavoratore cognitivo precario”, arranco per pagare l’affitto. Altro che flessibilità: a forza di stare seduto a tradurre saggistica dall’inglese e dallo spagnolo per otto-dieci ore in una postura innaturale mi sono ritrovato una protrusione discale con assottigliamento dei dischi vertebrali nella zona lombare. Le ginocchia scricchiolano per la troppa immobilità. E ho una tendinite quasi cronica che dalle mani mi risale fino ai gomiti, facendomi urlare di dolore mentre scrivo queste righe. (A. Prunetti, Amianto. una storia operaia, Edizioni Alegre, Roma 2014, p. 129).
E dunque proprio della convivenza di più e diversi modelli produttivi che si nutre la macchina postfordista. Non tanto della comunanza di mansioni, competenze lavorative, caratteristiche del processo produttivo.
Un bracciante di Rosarno e un operaio di Detroit nulla hanno a che spartire da questo punto di vista con un traduttore di saggistica dall’inglese e lo spagnolo e un grafico di Londra. Ma in quelli che Virno chiama «i contenuti della socializzazione extralavorativa dei singoli individui» (p. 104) queste figure hanno invece oggi molto da condividere: un mondo della vita fatto di inclinazioni comuni, di opportunismo e cinismo nel destreggiarsi fra possibilità equivalenti, fra lavori a tempo determinato, disoccupazione e sottoccupazione (si veda la porta girevole fra lavoro a contratto, volontariato e inoccupazione prevista per l’EXPO 2015), di chiacchiera e curiosità come modalità discorsive della socialità (soprattutto con l’avvento dei social network).
Un ethos omogeneo che individua la soggettività della moltitudine e la apre ad una sconcertante e fertile ambiguità: quella che ammicca a un esodo dal Lavoro per gettarla, se non si costituisce comune, nell’anonimato pezzente dell’intellettualità di massa.