Analogie e differenze tra le pestilenze medioevali e l’odierna epidemia virale 1.
Tra i ricordi della mia infanzia c’è la presenza piuttosto invadente nei salotti popolari della televisione italiana di una classica figura di saggista volgarizzatore: era l’ingegnere Roberto Vacca. Insieme alla sua presenza, campeggiava negli scaffali delle librerie – che all’epoca ancora preservavano discreti patrimoni e non tenevano solo le novità, oppresse da una produzione editoriale soffocante – e di molte case della classe media il libro che aveva reso celebre Vacca. Si trattava di Medioevo prossimo venturo, uscito nel 1971 con grande successo di pubblico.
Non saprei dire cosa ne pensasse la critica: immagino a lume di naso che, non a torto, l’intellighenzia ufficiale italiana guardasse al saggio e al suo autore con una certa diffidenza. Ignoro tuttavia il contenuto del libro: confesso di aver buttato uno sguardo alla voce Wikipedia – il fatto che ce ne sia una testimonia comunque della sua influenza – mentre scrivevo il presente articolo. Ricordo però che già all’epoca, sebbene fossi un bambino, il titolo di quel libro aveva un immediato potere evocativo per me: faceva pensare che al colmo della modernità, nel quale per ragioni misteriose eppure inconfutabili mi sentivo di vivere, ci attendesse una svolta imprevista verso il passato più oscuro e retrivo della nostra storia. Una regressione, come recita la voce Wikipedia con un termine di cui avrei ignorato il significato all’epoca, privo della potenza evocativa che richiedevano le immagini che avevo in testa.
Una delle più efficaci battute umoristiche coniate sui social media in questi giorni, dominati dall’allarme per il coronavirus, sembra dare ragione a Vacca. Immaginando di rivolgersi ad aspiranti viaggiatori nel tempo – altro pezzo del mio immaginario di bambino negli anni Ottanta – la battuta dice più o meno questo: “Se desideravate vivere nel Trecento, eccovi accontentati: ora avete due papi e una pestilenza”. Lascio da parte l’allusione di una possibile analogia all’epoca dei papi e degli antipapi, ovvero dell’unico papa “che fece il gran rifiuto” prima di Ratzinger e che permise così l’ascesa al potere del simoniaco Bonifacio VIII, il quale si affrettò a segregare il suo predecessore. Chissà se la battuta nasconde perfide allusioni alla politica vaticana: Francesco come Bonifacio? Benedetto XVI come Celestino? Ovvero, un papa e un antipapa? E chi sarebbe tra i due l’antipapa: Bergoglio o Ratzinger?
Non si tratta di ciò nel presente articolo. Il punto è se ci sia un’analogia tra le pestilenze medievali e l’odierna epidemia. Intanto è già significativo il fatto che l’immaginazione non proponga un rapporto tra il coronavirus e, poniamo, la spagnola o qualche altra epidemia moderna. Il virus “cinese” è dunque la ricomparsa della peste, del morbo medievale? Credo di no. Penso piuttosto che l’analogia suggerita dalla battuta nasconda un altro significato: il fatto che sotto il profilo culturale il coronavirus è semmai l’opposto della peste medievale.
Nel nostro immaginario l’uomo medievale tendeva infatti ad attribuire un evento incontrollabile con i mezzi della ragione e della tecnica non a una natura, il cui funzionamento gli era ancora oscuro, bensì a male etico, perfino metafisico, che veniva incarnato in specifici colpevoli del morbo: ebrei, marrani, moriscos, streghe, eretici e marginali (soprattutto religiosi) di ogni sorta. Pensate a quanto scrive Voltaire nel Candido, e siamo già nel XVIII secolo: per purificare la città di Lisbona dopo il terribile terremoto che l’ha distrutta, gli inquisitori portoghesi condannano al rogo alcuni conversos accusati di aver tolto il grasso dal pollo e dunque di aver osservato segretamente le regole alimentari delle fede dei loro avi. Quella di Voltaire è un’iperbole letteraria; non doveva essere troppo lontana dalla realtà, se non dei fatti (ormai rari), almeno di una mentalità ancora molto diffusa. In altre parole, la mentalità medievale, insieme alla sua eredità di lungo corso fino all’immagine che noi moderni ce ne siamo fatti, sembra concentrarsi su un punto: umanizzare il male naturale (un’epidemia, un cataclisma) al fine di darne una ragione.
Naturalmente non è l’uomo da solo a provocare il male: è l’uomo in quanto agente del sovvertimento di un ordine morale, divino o metafisico di sorta. In questo modo, anche se in un senso paradossale, e tragico, l’uomo spiritualizza la sua stessa umanità, la pone al centro dell’ordine delle cose, sebbene solo attraverso il filtro di una concezione magica del mondo.
Ebbene le cose mi sembrano essere esattamente all’opposto nel caso odierno del coronavirus. Va detto che la pandemia arriva in un periodo in cui la paura dell’altro, dello straniero, è particolarmente alta a causa delle migrazioni dall’Africa e dall’Asia in Europa o dall’America Latina verso l’America del Nord. Il fatto che il paese venga da un paese lontano come la Cina ridà voce alle paure irrazionali e alla xenofobia. Basti vedere quello che è successo all’Italia: è bastato che fossero scoperti diversi casi ‘positivi’ al virus, compresi alcuni decessi, nel Nord Italia perché per gli altri paesi europei l’Italia si trasformasse da culla del populismo xenofobo nel cuore (e ai confini marittimi) dell’Unione Europea, ovvero da patria dei difensori della civiltà europea e cristiana (a seconda del punto di vista politico), a zona rossa da isolare rapidamente: si vedano i respingimenti alla frontiera austriaca e le analoghe richieste di Marine Le Pen in Francia. Non è un caso se la destra sovranista, sempre pronta a cavalcare la polemica contro la presunta incapacità di governare della maggioranza giallorossa, oscilla ora tra il quasi assoluto silenzio del solitamente facondo e sempre twittante Salvini e l’appello alla solidarietà nazionale di Giorgia Meloni. A ciò si unisca il dato per cui la principale preoccupazione nell’informazione e nei dibattiti sul virus, accanto all’emergenza sanitaria, è l’emergenza economica: l’estendersi di zone di quarantena a diversa gradazione d’intensità rischia infatti di rallentare pesantemente o addirittura di bloccare il sistema globale della produzione e del consumo.
La reazione collettiva – della politica, dell’informazione e dei cittadini, in Italia e all’estero – alla crisi sanitaria rivela, a livello di modificazione della cultura, un pericolo altrettanto insidioso, che il confronto con il Medioevo rivela, ma per opposizione. Se l’uomo medievale umanizzava il morbo, cercandone il colpevole in qualche individuo o gruppo deviante, per noi il virus disumanizza l’uomo, trasformandolo in caso (statistico, prima ancora che medico). Con la ricerca del “paziente zero” tentiamo di circoscrivere l’area di diffusione della malattia; individuati casi sospetti o positivi al virus, imponiamo misure di quarantena individuale o di isolamento di intere città e regioni. Il problema è che nella nostra società misure che corrisponderebbero a un protocollo scientifico di contenimento del contagio vengono lette in controluce ai loro effetti economici. L’espulsione dei corpi infetti attraverso la creazione di un cordone sanitario ha come contraltare il tentativo di non essere espulsi dal cordone sanitario della produzione e del consumo: mai come in questo caso welfare e wealth si sono confusi; e mai come in questo caso il commonwealth, che in inglese antico voleva essere un calco della respublica latina, cioè del corpo politico considerato nel suo insieme di istituzioni e corpi intermedi, ha finito per significare la “ricchezza della nazione”.
Se l’interesse economico finisse per prendere il sopravvento su quello sanitario, gli scenari biopolitici che si aprirebbero sarebbero molto probabilmente inquietanti. L’altro elemento che merita attenzione è la reazione dei social media: la comunicazione dal basso, con il suo groviglio inestricabile di logiche peer to peer e copyleft, con il suo confondere notizia e fake news, in quale direzione deciderà di indirizzare il suo potere virale? Verso il potenziamento o verso il contenimento della paura?