Recensione a “Alma matrigna. L’università del disincanto” di Pierluigi Celli e Valutare e punire” di Valeria Pinto. La seconda puntata della “recensione comparativa”dedicata al libro di Valeria Pinto. Qui la prima puntata su “Alma matrigna” di Pier Luigi Celli.
Come ho notato la volta precedente, leggendo Alma matrigna si percepisce l’assenza di un collegamento tra i due centri di gravità attorno ai quali si sta assestando in Italia la cornice semantica del concetto di valutazione. Ovvero, da un lato il potenziamento di una lettura riduttiva della didattica delle competenze e dall’altro le pratiche di valutazione promosse dall’ANVUR. È la miopia rispetto a questo nodo politico che impedisce a Celli di scorgere il bosco, l’apparente neutralità operativa degli strumenti di valutazione. I quali non possono funzionare da selezionatori del merito perché hanno il loro limite nell’essere raffigurazioni rifratte e distorte della realtà variegata della ricerca. Come ha scritto Luca Illetterati, i dispositivi statistici con i quali si pretende di misurare e “fotografare” lo stato dell’arte ne ri-producono un’immagine filtrata sulla quale poi vengono tarati e approntati gli interventi di riforma e “bonifica” dell’esistente. E chi li sottopone a critica, chi ne smaschera l’apparente neutralità, diviene immediatamente parte del campo opposto, quello altrettanto miope che rifiuta qualsiasi strategia di scelta nell’allocazione delle risorse economiche all’interno di un dipartimento, quello che afferma “è impossibile valutare perché da un punto di vista scientifico – della ricerca – tutto si equivale”.
È uno snodo teorico e politico questo che di certo non manca di essere approfondito nell’ultimo libro della filosofa napoletana Valeria Pinto, Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione (Cronopio, 2012). La diffusione virale della “cultura della valutazione” a tutti livelli del sistema d’istruzione e formazione – dalla scuola primaria all’Università, dall’Invalsi all’ANVUR – è collocata nel più complesso passaggio politico degli anni ’90 (riforma del mercato del lavoro con la “legge Biagi”) e nel contesto dei processi di riforma che investono la stessa Università, dalla “legge Rubettino” (legge n. 168/1989) alla “riforma Gelmini” (legge n.240/2010). Con l’introduzione della categoria di “autonomia” nella governance dell’istruzione superiore – lo snodo fondamentale è la “legge Bassanini” del 1997 – hanno fatto la loro comparsa anche quegli strumenti valutativi statistici volti a separare l’improduttivo dal produttivo. A bonificare il campo della ricerca dagli sprechi e a stabilire i criteri di promozione sociale e di distribuzione delle risorse economiche. In altre parole la “cultura della valutazione” compare nel sistema d’istruzione italiano nel contesto più ampio dell’estensione della forma della libera impresa all’intero tessuto sociale e da questo passaggio – forse incompiuto in Italia – trae il proprio ruolo attuale: «una pratica di verità funzionale all’instaurazione di regimi di “concorrenza amministrata”, cioè regimi di “quasi-mercato”, dove si tratta di creare vincoli di mercato pure in assenza di merci e di condizioni corrispondenti» (p.55). Fin qui, fino ad un’analisi che iscrive la “cultura della valutazione” nel registro della governamentalità neo e ordoliberale, non c’è niente di nuovo. La sottigliezza del libro di Valeria Pinto – sottigliezza che invece manca ad un autore di grande spessore come Celli – è nell’analisi di come questi processi trovino realizzazione nel nostro Paese. Possiamo isolare tre punti di questa analisi.
Innanzitutto la nascita di istituzioni come l’ANVUR, dell’Invalsi, dell’AVA, della VQR e prima ancora di sistemi di ranking internazionale come il QS è accompagnata dall’emergere di nuove figure professionali: gli “esperti della valutazione”. Più che verboso tuttologo da salotto televisivo l’esperto possiede un talento «nella capacità di maneggiare le conoscenze in vista delle soluzioni, di superare in tempi rapidi ostacoli e difficoltà, di operare scelte di successo». La sua virtù è la tempestività perché nella mutevolezza dei mercati globali «bisogna ridurre al minimo ciò che occorre sapere, disporre di cifre facilmente leggibili, di idee semplici e facili da comunicare e da difendere» (p. 47). Il punto è che il bisogno di semplificare e ridurre l’oggetto della propria analisi, la febbre del dato che l’esperto vive come un male sacro, rivela spesso approssimazione e confusione. Com’è già avvenuto in Australia, nel caso del ranking ERA delle riviste scientifiche la pratica divinatoria dell’esperto di dati e statistiche dà avvio ad esperienze fallimentari nell’impresa – che è anche il destino dichiarato della valutazione – di elevare la “qualità” della ricerca.
È appunto sulla categoria di “qualità” della ricerca che Valeria Pinto concentra – secondo elemento rilevante del libro – i propri sforzi d’analisi della cultura della valutazione. Delucidando l’ambiguità semantica tra l’accezione aristotelica ed essenzialista di “qualità”, come insieme delle proprietà essenziali che rendono una cosa quel che è, e l’accezione ordinaria, ovvero l’apprezzamento mediante un giudizio e quindi un riconoscimento esterno, del valore di una cosa, la filosofa napoletana mostra come l’ANVUR coinvolga nel processo di valutazione della ricerca solo la seconda accezione. Se il concetto di “qualità” di una cosa viene agganciato alle regole mediante le quali viene costruito il giudizio sulla cosa – se la qualità della ricerca viene agganciata al giudizio statistico sull’efficacia produttiva della ricerca – allora la “qualità” di quella cosa diventa lo strumento creato per evidenziare i processi di produzione della cosa stessa, vale a dire i rapporti di forza che la determinano. Così nel caso dell’ANVUR il controllo della “qualità” della ricerca non fa riferimento al valore intrinseco dell’attività che viene svolta – il confronto e la tensione del ricercatore e della ricercatrice con la tradizione di studi e di pratiche che li hanno preceduti e che li accompagnano nella costruzione continua di un ambito dei saperi – ma la tangibile e materiale visibilità che tale attività acquisisce. Ovvero quanti articoli e libri il ricercatore o la ricercatrice hanno pubblicato sull’ambito iper-specialistico della disciplina accademica in cui svolgono la propria ricerca (cfr. pp. 128-135). Ancora una volta è la nudità del dato, il governo simbolico del numero a fondare il governo delle pratiche di ricerca.
Il dato statistico, lo strumento di de-cifrazione della complessa realtà della ricerca costituisce, infine, il terzo punto rilevante dell’analisi della Pinto: al governo delle condotte di ricerca corrisponde un governo dei numeri che incoraggia ed enfatizza il volume, la quantità e l’accumulazione della produzione. Di articoli su riviste accreditate, prodotti in serie e che spesso “spacchettano” il risultato di una ricerca, per darne immediata visibilità. Le pubblicazioni di monografie e di riviste quotate all’interno di un ranking riconosciuto dall’istituzione nazionale o internazionale preposta alla valutazione diventano così “quasi-monete”, unità di conto e di valore di non-merci (i temi e le tracce seguite dalla ricerca), creando un circuito che è un “quasi-mercato” (cfr. le pp. 61-83). A questa enfasi volumetrica che richiama una più giusta, meritocratica, distribuzione delle risorse economiche fa da pendant un imporsi del risentimento a criterio della politica della conoscenza. Nell’università e nella sua rappresentazione che domina l’immaginario di ricercatori e studenti, tutti i sacrosanti motivi di malessere e d’intolleranza verso il sopruso – concorsi truffaldini, carriere facili, baronaggio, burocratizzazione bizantina – finiscono per precipitare nell’accettazione dell’avvento della valutazione come male minore, in grado di spazzare via il male assoluto del corporativismo accademico. La «delega alla rivalsa assume la forma di un progetto di politica attuariale della conoscenza» (p. 164), ovvero di distribuzione statistica e matematica del rischio attraverso cui i meccanismi di valutazione e selezione riducono le probabilità di emergenza di cattive pratiche di ricerca, «in vista del meno peggio quantitativamente calcolabile» (p. 166). Così, l’estensione della forma della libera impresa al core business dell’istituzione accademica, si realizza senza considerare il problema di legittimazione democratica che trama alla base del processo: l’enfasi sul dato che giustifica lo stato d’emergenza in cui l’esperto propone le proprie soluzioni serve a celare agli occhi dei ricercatori valutati secondo i criteri da lui imposti la domanda fondamentale sull’autorevolezza dei valutatori stessi, ovvero “chi valuta i valutatori?”[1]
In questo scenario feroce e complesso il lean thinking, il pensiero snello dei valutatori ministeriali, sottopone ad un rigido digiuno da pensiero critico ogni pratica di ricerca, fino al rincoglionimento. A pagarne il dazio più salato sono quelle discipline che possono nutrirsi solo di massa critica, le scienze umane e in particolare la filosofia, «non un sapere relativo a qualcosa o a un determinato ambito di cose (o anche alla totalità delle cose) e neppure una conoscenza finalizzata alla produzione di qualcosa, ma […] un modo personale di esistere» (p.180). Un modo di vivere, in intimità con diversi saperi coltivati dall’istituzione universitaria, che rischia di scomparire sotto la falce della valutazione. Saremo ancora in grado di rimpiangerlo dopo tutto questo valutare? Forse ha ragione Bateson quando dice che «la via dell’inferno può anche essere lastricata di cattive intenzioni, sebbene questo possa riuscire difficile da credere ai benintenzionati»[2].
Note
[1] La domanda paradossale, che qui liberamente viene riformulata da Giovenale, Satire (VI, 346-347: «Pone seram, cohibe, sed quis custodiet ipsos custodes?») rispetto al problema della valutazione è declinata da G. De Michele nel contesto della legittimazione dei tutori dell’ordine socio-politico e della sicurezza post 9/11; Cfr. Watchmen. Il triste tropico del Dottor Manhattan in Pop Filosofia, a cura di S. Regazzoni, il Melangolo, Genova 2010, pp. 108-126.
[2] Cfr. G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, tr. it. di G. Longo e G. Trautteur, Adelphi, Milano 1977, p. 204.