Dall’utopia alla fantascienza: il genere femminile

Una recensione a Quando la fantascienza è donna di Eleonora Federici (Carocci, 2015), già apparsa su «Between» (vol. VII, n. 13 Maggio 2017), un’affascinante genealogia del genere utopico-fantascientifico scritto da donne inglesi e americane. 

Quando la fantascienza è donna di Eleonora Federici fa ingresso nel panorama degli studi sulla fantascienza e le utopie scritte in lingua inglese, con il merito di colmare una lacuna specifica del contesto italiano, se si considera per un momento la totalità dei testi pubblicati sull’argomento. Fino a ora mancava infatti in Italia un testo che realizzasse una ricognizione puntuale delle principali voci femminili del genere fantascientifico in lingua inglese e che, poste due ambizioni principali – far conoscere la specificità di una fantascienza al femminile e il suo debito con la tradizione utopica femminista dell’Ottocento – riuscisse con successo a realizzare entrambe.

Come d’altronde chiarisce già il sottotitolo del suo studio (Dalle utopie femminili del secolo XIX all’età contemporanea), la posizione di Federici è infatti quella di leggere la fantascienza femminista – quella degli anni Settanta: Joanna Russ, Ursula K. Le Guin, Sally Miller Gearhart e Marge Piercy, per nominare le più note – come erede di un’ampia e lunga tradizione iniziata con le utopie femministe di fine Ottocento, posizione sostenuta peraltro da vari studi (sempre anglosassoni) ai quali l’autrice fa costante e puntuale riferimento. Esplorare cosa è stato tramandato e rielaborato dalle prime formulazioni del genere utopico permette all’autrice di mettere a fuoco le specificità della declinazione al femminile di un genere da sempre riconosciuto come eminentemente maschile e dedicato a un pubblico di soli uomini (e per lo più bianchi).

Questa riscrittura di una fantascienza al femminile ha implicato una profonda revisione del genere realizzata dalle scrittrici attraverso un doppio intervento: sui contenuti e sulle forme. Da un lato infatti hanno rovesciato quegli stereotipi di cui la fantascienza si è alimentata a lungo, mentre dall’altro hanno rielaborato le forme narrative stesse del genere per indirizzarle verso un orizzonte di critica sociale femminista. Il risultato è una vera e propria feminist fabulation, come ha riconosciuto la studiosa Marleen Barr.

Va ricordato in ogni caso che gli elementi costitutivi del genere utopico – l’invenzione di un luogo alternativo dove collocare una società con regole proprie unitamente al meccanismo narrativo del sogno o del viaggio che consentono al protagonista di accedere al mondo alternativo; il dialogo conoscitivo tra protagonista-esploratore e un personaggio membro della nuova comunità o la forma narrativa del diario che consente una narrazione espositiva dettagliata del mondo alternativo – e la sua spiccata intertestualità, eleggono questo genere letterario a candidato ideale e forse unico nella sua efficacia, per contestare lo stato attuale delle cose ed esplorare un’alternativa possibile.

Federici dà inizio alla propria ricognizione critica dedicando il primo capitolo a Mary Shelley e il suo Frankenstein or the Modern Prometheus (1818), scelta che le permette di mostrare quanto il romanzo dell’autrice inglese sia stato portatore di istanze femministe che verranno adottate e ampliate dalle autrici del secolo successivo. La prova di questa sua importanza è una nutrita schiera di autrici che si rifanno più o meno apertamente al mostro di Shelley che è riuscito a «rimettere in discussione la dialettica tra l’uomo-soggetto di sapere, e la donna-oggetto di tale ricerca», un’operazione centrale nella fantascienza femminile. Il testo di Mary Shelley, sottolinea Federici, è innanzitutto riconosciuto come capostipite del genere fantascientifico in sé, ma ancora più significativamente va riconosciuto come capostipite di una fantascienza specificamente al femminile se letto in prospettiva femminista, come appunto auspica la studiosa, e come testimoniano molti studi sulla fantascienza scritta da donne che hanno scelto il romanzo di Shelley come testo prototipico di questo genere.

L’autrice spiega infatti con vari esempi come le istanze di rivendicazione femministe – dal suffragio all’accesso all’istruzione e al lavoro, alla messa in discussione degli stereotipi di genere sul ruolo della donna con quello esclusivo di madre e soggetto assistenziale e accudente, per arrivare a quelli che riguardano soprattutto il corpo femminile, esclusivo strumento riproduttivo o oggetto passivo del desiderio sessuale maschile – non potevano essere affrontate dalle autrici se non attraverso il genere utopico-fantascientifico, del quale sono propri meccanismi di rovesciamento delle leggi che regolano la realtà contemporanea del lettore o lettrice.

Il genere infatti, proprio perché prevede, seguendo la storica definizione di Darko Suvin, uno «straniamento cognitivo» , un processo cioè di rispecchiamento in ciò che si legge con la sensazione crescente di guardare in uno specchio deformante, diventa nelle mani delle scrittrici il mezzo letterario ideale attraverso il quale non solo possono immaginare tempi e geografie alternative dove la donna è riconosciuta come pari all’uomo (o addirittura superiore) ma di contestare allo stesso tempo la realtà a loro contemporanea. Il genere utopico-fantascientifico nutre e mantiene costante una tensione tra mondo immaginato e mondo reale nel quale vive il lettore: di fronte a un mondo alternativo perfino lontanissimo, non possiamo fare altro che chiederci come sarebbero andate le cose se anche noi fossimo vissuti in quel mondo.

La comunità che conosciamo nel libro, pur lontanissima nel tempo e nello spazio, vive secondo regole che sembrano molto vicine alle nostre e che proprio per questo, soprattutto per questo, le chiamano in causa contestandole, mettendoci sotto torchio (l’utopia nasce d’altronde da una domanda: le cose potrebbero andare diversamente da come sono?). Il mito dello scienziato che riesce a dare vita a un essere vivente esclusivamente facendo affidamento sulla propria razionalità e sulle proprie conoscenze scientifiche, topos esso stesso di tanti romanzi e racconti del genere, simbolo della fiducia incondizionata nel progresso scientifico di quegli anni, sarà utile a Mary Shelley nel momento stesso in cui l’autrice se ne approprierà per rovesciarlo, mostrando l’arroganza del gesto predatorio nei confronti della natura (Shelley scrive in pieno periodo romantico: il binomio donna-Natura è pressoché indissolubile).

Il mostro stesso, una volta vivente, catalizza nella propria deformità tutto il senso dell’esclusione e profonda incomprensione. Pur mostrando emozioni umane e riuscendo persino a istruirsi (impara presto a leggere) il mostro non verrà mai riconosciuto nella sua umanità dallo scienziato. 

Questa esclusione prenderà la forma di un esilio volontario del mostro in uno spazio alternativo a quello urbano (associato all’uomo): il mondo dei ghiacci. «La fantasia iperborea nel romanzo», prosegue Federici in un bel passaggio del suo excursus, «è stata analizzata come il viaggio alla ricerca della propria madre, per cui lo spazio bianco sulla mappa diventa il luogo intatto dove la scrittrice può lasciare il suo segno. Infatti l’autrice inventa una vicenda di nascite mostruose al di là delle possibilità umane, in scenari di terre polari e di viaggi senza ritorno dove lo spazio immaginario – uno spazio non catalogato sulla mappa – diventa l’ambito in cui dare vita alla propria creatività». Molte autrici fantascientifiche propenderanno per scenari utopici in cui si auspica un analogo riavvicinamento alla natura e un generale sentimento di vicinanza con l’ambiente.

Inoltre, fondamentale per la tradizione successiva, è la sessualità del mostro. Nel romanzo della Shelley lo scienziato, pur acconsentendo in un primo momento alla richiesta del mostro di creargli una compagna – dunque fidandosi finalmente di lui – non riesce a fidarsi del mostro donna e assalito dai rimorsi la uccide, timoroso delle possibili intenzioni di un essere mostruoso di sesso femminile. La figura del mostro come altro e il suo corpo (come l’alieno e il/la cyborg), sarà centrale in tutta la storia del genere fantascientifico, ma solo nella fantascienza scritta da donne rivelerà un potente e funzionale strumento poetico quando completamente ribaltato nelle sue premesse.

Non più fonte generica di terrore, ma creatura dai sentimenti umani che inizia a reclamare diritti, il mostro diventa un abile strumento poetico per le autrici con cui svelare e decostruire presupposti sessisti e stereotipi, per poi farli debordare in tutta la loro evidenza sulla superficie del testo.

Per mostrare l’evidenza dell’intertestualità della fantascienza al femminile e la sua specificità ai fini della critica sociale proposta dalle autrici, si prenda come esempio il racconto No Woman Born, di Catherine L. Moore, scrittrice prolifica e attivissima, alla quale Federici dedica un ampio paragrafo. Nel racconto Moore prende in prestito il topos fantascientifico tradizionale dello scienziato che dà vita a un essere mostruoso, richiamandosi apertamente a Mary Shelley, ma ribalta quel topos spingendo oltre le istanze radicali lì annunciate. Infatti anziché trovarci di fronte alla creatura passiva e silenziosa (o alla bambola meccanica vamp di molta fantascienza nella quale l’essere mostruoso alternativamente seduce o uccide l’uomo), qui conosciamo una donna-macchina completamente autonoma e loquace, recalcitrante alla rigidità binaria di oggetto sessuale del desiderio maschile o carnefice priva di scrupoli.

La tecnologia dunque, come spesso accade in altre opere di autrici fantascientifiche, non indebolisce l’ideale umano con la mancanza di compassione o di comprensione, ma anzi sembra rafforzarlo superando la tecnofobia tipica della fantascienza scritta da autori uomini. In No Woman Born, la donna-macchina (o donna-androide) è stata creata sì dall’uomo, ma presto però se ne allontana, rivendicando contemporaneamente la propria autonomia e il proprio status liminale, di essere metà umana e metà macchina, senza rifiutare questa sua natura, ma anzi scegliendola coscientemente come perno della propria identità, diventando un essere che si avvale dunque, accanto a caratteristiche prettamente tecnologiche, di un corredo emotivo tipicamente umano. Ho taciuto fino ad ora la data di uscita di questo racconto: No Woman Born è un testo pubblicato nel 1944.

Precocissimo (la parola “cyborg” nascerà tra l’altro soltanto nel 1960) e pubblicato in un periodo in cui la fantascienza era un territorio «quasi esclusivamente maschile, sia per quello che riguarda gli autori che per i lettori», figurarsi per una riflessione sull’innesto di componenti tecnologiche su un corpo umano. Non a caso, ricorda Federici, il “collega” (li separano svariate decadi) di Moore, lo scrittore di fantascienza Lester Del Rey nella prefazione a una raccolta dedicata alla storica autrice, parlerà di lei «come una sorta di terremoto nella scena fantascientifica del periodo». Già allora dunque Moore non solo rovesciava il mito della femminilità basato sulla bellezza e la fragilità, decostruendo attraverso un corpo disassemblato e tecnologico le consuete dicotomie maschile/femminile e mente/corpo, ma dava inizio, con un anticipo disarmante e lucidissimo, al dibattito sulla figura del cyborg e il suo rapporto con l’umano, eleggendo al tempo stesso la fantascienza a genere duttile per eccellenza, dunque più che efficace se elaborato in un’ottica femminista.

Considerata questa illustre precedente, non è dunque un caso se nel 1991 Marge Piercy – altro nome classico del genere, ma di svariate decadi successive – pubblicherà He, She and It, romanzo fantascientifico che non solo raccoglie e fa proprie le lezioni di Shelley e Moore, ma le espande ancora oltre: il suo cyborg donna non è assemblata da un uomo, ma è stata creata dalla comunità di sole donne nella quale vive, una società matriarcale dove la tecnologia in continua e rapida evoluzione permette la procreazione indipendentemente e all’esterno del corpo femminile. Piercy realizza anche una rivoluzione del genere cyberpunk proprio attraverso questa revisione in senso politico, affermando definitivamente l’immagine del cyborg che «come figura in trasformazione, mutante, rappresenta il punto di svolta che consente di mettere in discussione il concetto di genere, la sua costruzione storica e sociale e il linguaggio attraverso cui è mediato». Tutto questo dibattito sul cyborg rientra in quello che Donna Haraway ha definito cyborg anthropology nel suo saggio seminale su questa figura importantissima del genere, «simbolo di una donna tecnologica assertiva». Questo breve excursus sulla figura del corpo altro disassemblato e tecnologico, nel quale l’identità femminile può negoziare liberamente il proprio ruolo, dimostra quanto estremamente ricco di rimandi possa essere il testo fantascientifico, in particolare quello di matrice femminista.

Infine, volendo tentare un rapido sommario dei molteplici (e interessantissimi) elementi affrontati dall’autrice nel libro, dopo un primo capitolo monografico dedicato a Mary Shelley e al suo Frankenstein, nel secondo capitolo l’autrice espone i principali nomi e opere delle utopie pubblicate negli ultimi vent’anni del XIX secolo in Inghilterra (spiccatamente urbane e dedicate al tema del suffragio e la tecnologia, funzionale alla liberazione dalla reclusione domestica), e negli Stati Uniti (più pastorali e legate al tema della frontiera come futura conquista o Eden perduto), per poi proseguire con le opere che vanno dagli anni Venti ai Sessanta del Novecento (dopo i totalitarismi si respira un vento spiccatamente antiutopico; ottenuto il suffragio, le autrici si concentrano sulle condizioni sociali ed economiche; inizia anche la decostruzione del linguaggio patriarcale con Katherine Burdekin e compare la figura dell’androgino e le prime formulazioni del cyborg per contestare stereotipi e ruoli della donna). Continua poi con un capitolo sugli anni Settanta e Ottanta dove si sottolinea come le autrici si siano dedicate a una revisione in senso femminista di archetipi assodati, come la figura dell’amazzone o della dea in stretta connessione con la natura, associata a un nuovo senso di collettività, pacifismo e cancellazione di ogni gerarchia: sono le cosiddette primitive utopias e vi spiccano The Wanderground (1979) di Sally Miller Gearhart, considerato un vero e proprio Manifesto del femminismo radicale americano (anticipa il discorso separatista lesbico che si svilupperà negli anni Novanta) e Marge Piercy con Woman on the Edge of Time (1976), considerata ormai autrice classica del genere la quale immagina una società completamente femminilizzata, dove «la riproduzione avviene al di fuori del corpo della donna e dove la responsabilità dei bambini è compito di tutta la società». I due ultimi capitoli sono invece tematici. Il penultimo si incentra sul rapporto tra tecnologia e corpo, e il nuovo ventaglio di domande e questioni che questo rapporto solleva (si intrecciano i discorsi sul soggetto nomade di Braidotti con quello queer di Butler e la mestiza di Anzaldúa): la soggettività è mobile e non unitaria, e il corpo tecnologicamente alterato diventa strumento utopico per mostrare come non esistano confini prestabiliti né categorie scontate.

Impossibile riassumere in poche righe un dibattito che si arricchisce di nuove voci e conflitti: Federici sottolinea che il cyberfemminismo costituisce infatti un terreno nel quale varie concezioni femministe sono in dialogo e anche in contestazione tra di loro, ma centrale rimane il corpo, e i suoi innesti tecnologici che interpellano l’umano e contestano l’idea di identità come unitaria. Nell’ultimo capitolo invece si affronta il tema della revisione della Storia che, assieme alla memoria, rimane la principale preoccupazione di molte autrici – in primis Connie Willis e Octavia E. Butler – come occasione di una rivendicazione dei ruoli delle donne e revisione in senso critico di un passato che ha da sempre escluso la voce femminile, insieme a quella di altre minoranze: non a caso un recente sviluppo è quello dell’afrofuturism, una riscrittura della diaspora africana; Noli Hopkinson è tra le voci più interessanti di questa tendenza nella quale il percorso di una critica femminista del genere si intreccia con quella della razza.

Questa ricchezza di temi e punti di vista dimostra quanto il lavoro di Federici costituisca una preziosa genealogia del genere che l’autrice riesce a ricostruire nel dettaglio, puntellando le storie dei romanzi e le rispettive autrici con un continuo e ricchissimo rimando ai testi critici che se ne sono occupati. Il suo studio è dunque non solo un documento utile per chiunque voglia dedicarsi allo studio di questo ambito con un certo grado di approfondimento, ma anche al semplice lettore o lettrice che abbia il desiderio di esplorare i vecchi e nuovi territori della fantascienza e la sua storia femminile, un genere che rivendica il proprio carattere politico e di critica sociale.

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