Il declino dell’università italiana

La discussione sullo stato dell’università italiana ha trovato sinora poco spazio nel dibattito pubblico, dominato da pregiudizi negativi – e spesso poco fondati – circa i pregi e i difetti dell’accademia nel nostro paese.

Il volume “Università in declino. Un’indagine tra gli atenei da Nord a Sud” (Donzelli 2016) ha recentemente riacceso il dibattito sulle condizioni del sistema universitario e sui cambiamenti introdotti dalla riforma Gelmini.

Un primo merito del lavoro del gruppo di ricerca multidisciplinare coordinato da Gianfranco Viesti per la Fondazione Res di Palermo è quello di riportare l’attenzione su ciò che è accaduto in questi anni dentro e intorno all’università italiana, fornendone un quadro ampio ed esaustivo. Sono così analizzati, ad esempio, l’andamento degli iscritti, i processi di mobilità studentesca dal Sud al Nord del paese, le (scarse) garanzie di diritto allo studio; i percorsi di carriera dei docenti e la progressiva precarizzazione del lavoro accademico; i meccanismi di finanziamento e valutazione degli atenei; le caratteristiche dell’offerta didattica e la qualità della ricerca; il rapporto con il mondo dell’impresa e con la società nel suo complesso.

Il quadro che emerge è sconfortante: rispetto a 8-10 anni fa il finanziamento all’università tramite Fondo ordinario si è ridotto di oltre il 22%; specularmente, gli studenti immatricolati sono calati del 20%, il personale docente è diminuito del 17% e il numero di corsi di studio si è contratto del 18%. In questo allarmante scenario di declino complessivo, la situazione del Mezzogiorno appare ancora più critica. Il volume dedica ampio spazio alla progressiva differenziazione tra atenei del Nord e del Sud, con questi ultimi fortemente penalizzati in termini di iscritti, dotazioni, distribuzione di risorse. Gli autori mostrano, dati alla mano, che siamo di fronte a un “nuovo divario” tra aree del paese, delineatosi a partire dagli anni Settanta con il passaggio dall’università di élite a quella di massa (un aspetto, questo, su cui torneremo a breve). La tendenza sembra poi rafforzarsi con l’attuale riforma del sistema, orientata a concentrare gli investimenti in pochi centri di eccellenza piuttosto che a puntare su una qualità diffusa.

L’enfasi posta sul ruolo strategico dell’istruzione terziaria nello sviluppo locale, spesso ignorato dal sistema politico, è senza dubbio un altro punto di forza del volume. È tuttavia importante, dal nostro punto di vista, evitare un eccessivo appiattimento su questo argomento, come sembra invece fare Viesti quando arriva ad affermare che “oggi più che mai non è possibile – di fronte alle criticità che si manifestano su molti fronti in Italia – rivendicare per principio maggiori risorse pubbliche” (p.44). In questo modo a nostro parere si corrono tre rischi. Primo, di avallare implicitamente le retoriche sull’austerity che permettono di immolare sull’altare della “salute dei conti pubblici” politiche di estrema rilevanza sociale. Secondo, di cadere nella trappola della dimostrazione di efficacia, misurata per di più in termini rigidamente economici. All’università è infatti sicuramente deputato il compito di formare imprenditori, innovatori e lavoratori della conoscenza capaci di rilanciare la competitività del paese. Tuttavia, congiunture sfavorevoli o fenomeni come l’inflazione delle credenziali educative potrebbero offuscare le ricadute in termini occupazionali e di crescita di investimenti ad hoc, alimentando ulteriormente retoriche delegittimanti. Terzo, il rischio di ridimensionare il ruolo sociale e politico dell’università, luogo di formazione di una cittadinanza critica e consapevole, che va ben oltre la sua funzione all’interno di un sistema economico. L’investimento in istruzione terziaria può infatti essere giustificato anche a prescindere dal suo contributo a un modello di sviluppo: in questo senso rivendicare “per principio” la difesa del sistema universitario pare un’opzione politicamente legittima e percorribile.

Questa rivendicazione è tanto più importante quanto più ci si rende conto, come mostrano efficacemente Viesti e colleghi, che il nostro paese non è stato in grado di gestire il passaggio all’università di massa a cui si faceva riferimento poc’anzi. Un’occasione che avrebbe potuto favorire la mobilità ascendente delle fasce meno abbienti della popolazione e ricomporre le differenze territoriali, ma che è stata tragicamente mancata, con enormi responsabilità da parte della politica. La garanzia di un diritto allo studio sostanziale e non formale chiama infatti in causa una serie di fattori che vanno ben oltre il numero di borse di studio erogate.

Un primo elemento riguarda il ruolo della didattica, che dovrebbe costituire un pilastro dell’integrazione e che invece è relegata in secondo piano, anche a causa di un sistema di valutazione dei docenti focalizzato esclusivamente sulla produzione scientifica. Inoltre, l’introduzione di criteri di ripartizione del fondo di finanziamento ordinario che premiano gli atenei con una maggior contribuzione studentesca incoraggia l’innalzamento delle tasse a livello locale, a svantaggio degli studenti dotati di meno risorse.

Infine, anche le politiche di reclutamento sembrano muoversi in una direzione opposta a quella che una reale università di massa richiederebbe. Lo scarso ricambio del personale, determinato dal taglio di risorse e dal blocco del turnover, ha impedito di rigenerare un corpo docente composto ancora oggi in buona misura da coloro che sono entrati a far parte dell’università prima della transizione verso un modello di massa. Questi docenti, socializzati a una popolazione studentesca di élite, sono stati spiazzati dalle trasformazioni avvenute e spesso non sono stati in grado di gestire il trade-off emergente tra qualità dell’insegnamento e inclusività del sistema. A un’università di massa sul fronte degli studenti – incentivata anche dalla “corsa al reclutamento di nuove matricole”, dal momento che il numero di iscritti è un altro degli elementi premiali nella valutazione degli atenei – rischia dunque di corrispondere un’organizzazione amministrata ancora oggi da un’élite di docenti. Un rischio ancora più concreto data la progressiva precarizzazione delle traiettorie di carriera dei giovani ricercatori, che paradossalmente può aumentare il peso della variabile “classe sociale” nel corpo docente. Se è vero infatti che il reclutamento dei primi anni Duemila ha in una certa misura “democratizzato” l’accesso all’accademia, non si può non notare come percorsi professionali che richiedano implicitamente periodi di lavoro gratuito finiscano per favorire coloro che, grazie a risorse familiari, sono in grado di far fronte alla discontinuità di reddito.

Alle conseguenze più ampie della precarizzazione del lavoro di ricerca vogliamo dedicare alcune considerazioni finali. Le enormi difficoltà e le limitate prospettive con cui si confrontano ogni giorno i ricercatori nel nostro paese sono ormai piuttosto note. Esse rappresentano però solo un aspetto in un quadro più ampio di incertezza che investe tutte le componenti universitarie – docenti strutturati, personale non strutturato, studenti – e che ha serie ripercussioni sulla qualità della ricerca e della didattica. Se il disinvestimento nell’università italiana è infatti innegabile, altrettanto evidente è l’instabilità sistemica che accompagna la contrazione di risorse in atto. Non solo dotazioni scarse, dunque, ma anche incerte nell’ammontare e nei tempi di erogazione.

Sul piano organizzativo, gli atenei italiani manifestano crescenti difficoltà nel portare avanti la loro attività ordinaria a causa dell’incertezza dei finanziamenti ordinari, dal momento che i criteri di ripartizione delle risorse variano enormemente di anno in anno. Sul fronte del reclutamento, al di là delle limitazioni imposte dalla scarsità di risorse e dal blocco del turnover, è l’impianto normativo stesso a risultare fortemente instabile. La legge Gelmini ha infatti subito in questi anni numerose modifiche, volte per lo più a sanare le contraddizioni insite nella norma stessa. Il risultato è una progressiva frammentazione delle carriere accademiche all’interno di un quadro di opportunità estremamente differenziato.

Tali dinamiche hanno effetti non solo sulla vita degli individui, ma anche sulla qualità di didattica e ricerca, a cui non possono essere garantiti continuità e programmazione. Per ciò che riguarda la ricerca, in particolare, scarsità e incertezza nei finanziamenti ordinari generano una forte spinta alla competizione per attrarre fondi provenienti da fonti esterne al sistema universitario pubblico. In questo modo, in una sorta di circolo perverso, la ricerca si impoverisce sempre più. Da un lato, infatti, una quantità di tempo abnorme viene sottratta al lavoro di ricerca in senso stretto per essere dedicata alla partecipazione a bandi[1]. Dall’altro lato, il finanziamento a progetto attribuisce ad attori esterni al sistema la facoltà di orientare i contenuti della ricerca, definendo priorità nei temi e di fatto stabilendo quali prospettive promuovere e quali no. Non è difficile immaginare che approcci non mainstream e ambiti di indagine minoritari faticheranno a entrare nell’agenda di ricerca definita da questo tipo di fondi.

La diffusione del finanziamento di natura non ordinaria promuove dunque solo un certo tipo di ricerca, penalizzando sguardi meno convenzionali e impedendo la pratica di quella che da alcuni movimenti accademici è stata definita in modo provocatorio Slow Science. La logica progettuale individua infatti a priori i tempi di lavoro, richiede una stima dei risultati che verranno raggiunti e impone a posteriori una loro valutazione. Se a questo si somma l’orientamento a una valutazione individuale in tutte le fasi di carriera basata innanzitutto sul numero di pubblicazioni prodotte, appare chiaro che le possibilità che vengano intrapresi percorsi di ricerca dall’esito incerto risultano fortemente limitate.

La tendenza emergente è dunque verso un lavoro di ricerca il più possibile definito nei tempi, nelle procedure e negli esiti. Al contrario, il sistema universitario pubblico per poter svolgere appieno la propria funzione dovrebbe potersi configurare come un luogo del rischio e, perché no, del fallimento, dal momento che spesso è in questo modo che la conoscenza scientifica progredisce. Paradossalmente, però, è necessaria una buona dose di stabilità e certezza – nei finanziamenti, nei criteri di allocazione delle risorse, nei gruppi di lavoro – per potersi assumere dei rischi.

[1] Sugli effetti perversi del finanziamento a progetto della ricerca e su alcune possibili soluzioni, si veda: J.P.A. Ioannidis (2011), Fund people not projects, «Nature», n. 477.

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