Una riflessione di Daniela Brogi a una settimana dalla scomparsa del regista Bernardo Bertolucci.
A partire dal giorno successivo alla morte di Bernardo Bertolucci (Parma, 16 marzo 1941 – Roma, 26 novembre 2018), nelle sale dove si guardavano i lavori del “Torino Film Festival”, prima di ogni opera è stato proiettato un filmato di pochi minuti in cui sono state rimontate, senza seguire un filo diacronico, alcune delle scene più memorabili dei film del regista scomparso: Agostino che fa l’acrobata sulla bicicletta, guardando in macchina, come se eseguisse uno spettacolo circense, in Prima della rivoluzione; Lucy che pedala su un sentiero alberato della campagna senese, in Io ballo da sola; le bellissime Giulia e Anna, nella danza sensuale tratta da Il conformista; Jeanne e Paul, ubriachi, che si inseguono inciampando nella sala da ballo, in Ultimo tango a Parigi; Isabelle, Matthew e Thèo che corrono, confondendosi coi profili giganti delle loro ombre che si allungano sui muri, per poi tuffarsi a perdifiato in una scalinata di Parigi, in The Dreamers; il popolo della Bassa che balla sotto la più grande bandiera rossa mai vista al cinema, in Novecento; la festa in onore del bellissimo Siddharta, in Piccolo Buddha. Erano tutte scene che ricomponevano, facendola vedere meglio, quella che si potrebbe definire la “cifra Bertolucci”, vale a dire l’amore per l’espressione, anche magica, di un tempo della vitalità: corpi giovani, felici di festeggiare la bellezza di stare assieme. Quel filmato di omaggio ha saputo intercettare e restituire il modo speciale in cui Bertolucci ci ha sempre raccontato il mondo con la testa di un ventenne: dalle prime opere, fino alle ultime. Guardando quelle immagini, rimesse assieme come se danzassero, sembrava di essere su una giostra, o partecipare a una festa.
Qualche anno fa, alla mostra su Pasolini al Palazzo delle Esposizioni, a Roma, ho visto un filmato in cui Bernardo, con la sua erre parmigiana che per me almeno risuona come l’accento più elegante e nobile d’Italia, raccontava della prima volta in cui Pasolini si era presentato a casa Bertolucci, per visitare il padre Attilio. Potrei ricordare male, mi pare che si dica che aveva aperto la porta la cameriera, ma potrei sbagliarmi; sono sicura invece che Bertolucci raccontasse, con sincera naturalezza, di non aver affatto riconosciuto Pasolini: l’habitus del piccolo borghese presentatosi sulla soglia di casa era, agli occhi di Bernardo, inverosimile. Quella scena, il senso di straniamento che ci comunica, mi è rimasta impressa, perché davvero è una piccola meravigliosa fotografia di una storia sociale della cultura italiana: con due mondi, due Italie, due classi sociali messe l’una di faccia a l’altra. La ricordo adesso, come l’ho ricordata spesso anche riguardando i film di Bertolucci, perché mi sembra che mostri bene, senza spiegazioni superflue, un’altra delle risorse più speciali – e apprezzabili – del suo cinema, vale a dire la sua capacità di raccontarci il mondo altoborghese come mondo capace di stare a proprio agio al centro della vita. Bertolucci (e anche per questo, talvolta a ragione, talvolta a torto, Guadagnino è considerato un suo erede) sapeva raccontare i ricchi, i signori, i padroni del mondo. E guardate che non è un male, in sé, perché non siamo a scuola di dottrina (politica o religiosa), ma dentro un discorso che riguarda la capacità dell’arte di raccontarci il mondo. Quella difficoltà di tanto cinema italiano (e di tanta narrativa italiana) a raccontare i ricchi, facendolo senza moralizzarli, Bertolucci, come autore, non l’ha avuta mai. Perché era, anche grazie ai suoi privilegi, un uomo libero: libero anche di appartenere con leggerezza alla classe dei signori. Pochi film sono più colonialisti e orientalisti (in senso culturale) di Il tè nel deserto, e credo che non possa essere un’opinione, ma un dato di fatto; il punto, però, è un altro, vale a dire che l’arte spesso ci cattura anche perché (“anche perché”, non “solo perché”) racconta un mondo tanto più interessante allo sguardo alla mente e al desiderio quanto più è lontano dai nostri princìpi.
Ma accanto all’arte c’è il discorso critico: quello che possiamo dire dell’espressione artistica, per entrare in contatto con essa, con noi, e con gli altri. Quello che ci serve per non far morire l’opera con il suo autore. E qui arriva, mi pare, il bisogno di mettere le cose in prospettiva. Parlo di bisogno: per riferirmi a necessità soggettive, ma pure culturali e interculturali, nel senso che la costruzione di una prospettiva attraverso la quale guardare, discutere, e condividere il nostro giudizio sulle opere, nominando anche gli orrori che possono esprimere, o rimuovere, è quella da cui passa la vitalità e la durata delle nostre parole e dei nostri pensieri. E così, proprio in nome di questa vitalità, che è una delle ragioni per cui mi pare più importante far cultura, che io credo che sia tempo – proprio in senso storico, e soprattutto in Italia – di progettare un immaginario e un pensiero condivisi dentro i quali possa finalmente esistere una terza strada rispetto alle battaglie di religione che si sono combattute in questi giorni. Un varco (capace di far passare i nostri pensieri, anche oltreconfine) dove abiti un terzo discorso rispetto all’alternativa tra queste due improduttive posizioni, cioè: 1) quella di chi sostiene che Bertolucci non è stato un grande autore da rimpiangere “perché Ultimo tango a Parigi contiene anche una scena di violenza fisica e simbolica raccapricciante, perché estorta senza scelta”; 2) quella di chi sostiene che “non è una scena di stupro perché Bertolucci è un grande artista”. Beninteso: la violenza fisica e simbolica di una scena, di stupro, girata senza il consenso dell’attrice è innegabile. Ma il modo in cui sono argomentate le due posizioni rischia di renderle speculari, perché sono articolate secondo la medesima struttura argomentativa: che è la struttura di una prigione. Da cui Bertolucci per primo, e non c’è da meravigliarsene considerando la sua opera, ha voluto mettersi fuori quando anni fa si è scusato – in qualche modo indicando lui stesso la strada da prendere, anche per uscire da vicoli ciechi che non solo ci mantengono in posizioni di sessismo anacronistico, ma ci rendono incapaci di far dialogare la nostra cultura in uno scenario internazionale.
Nell’omaggio a Bertolucci passato sugli schermi in questi giorni a Torino, dopo le scene dei sette film di cui si parlava all’inizio, la narrazione prosegue con alcuni brani di un’intervista recente – chiedo scusa, la riporto imprecisamente a memoria – in cui Bernardo Bertolucci dice: “Vorrei vedere un film di Bergman in 3D, di Rossellini, di Truffaut, un mio film. [Perché] ho capito che il digitale è il tappeto volante e noi dobbiamo, vogliamo salire su quel tappeto volante”.
Ecco: ciò che più mi ha colpito mentre risentivo via via quelle parole, non è stata solo la libertà della “cifra Bertolucci”. Quello che più mi ha colpito è che a farci vedere, raccontandocela, quell’immagine di un tappeto volante sia, e nulla di quel set ce lo comunica, ma se ci pensiamo sappiamo che è così, a portarci su un tappeto volante sia un uomo su una sedia a rotelle. Mi commuovo anche adesso che lo scrivo, scusate: perché non penso solo all’umanità di quelle parole pronunciate in quella particolare situazione, ma alla vitalità del cinema di Bertolucci; e sento che quell’eredità deve appartenere a tutte e a tutti.
Proteggiamola quella vitalità, anche con la libertà di ripensare le prospettive che ha avuto e continuato sempre a voler avere lui, con il coraggio di tenere assieme le contraddizioni, le impurità, la violenza, senza negarle, ma nominandole; senza aver paura di nominare le cose, perché proprio questa, mi pare, è l’eredità più grande di Bernardo Bertolucci.
[Una versione differente di questo articolo è stata pubblicata dall’autrice come post su facebook sabato 1 dicembre].