Un’altra versione è possibile

La versione di Jean, ovvero un’altra storia degli sgomberi e delle “città possibili”

Un'altra storia degli sgomberi e delle "città possibili
Foto di La versione di Jean

Campi da golf, centri sportivi, cinema multisala, piste da go-kart, istituti scolastici, villaggi e condomini solidali, ecc. Quelle elencate sono soltanto alcune delle attività che le istituzioni locali promettono di avviare ogni volta che effettuano lo sgombero di un insediamento abitativo informale. Di queste attività, quasi sempre, non si vede traccia, anche ad anni di distanza. Ma non è questo il punto, evidentemente. Evocarne la costruzione, a prescindere dal fatto che la si voglia e la si possa concretamente realizzare, non risponde a obiettivi pratici ma serve a drenare legittimazione verso l’amministrazione che minaccia di “usare le ruspe”.

Il gioco, in termini politici, funziona. A opporsi, a parte le persone direttamente interessante – se e quando hanno la forza di farlo –, sono pochi gruppi di attiviste e attivisti e qualche avvocato. La maggioranza della popolazione, tendenzialmente, è contenta che la “pulizia” venga effettuata. Del resto, cacciare famiglie povere dalle baracche in cui vivono per far giocare comodamente a golf, all’interno della loro stessa città, i ricchi e i notabili locali è un’azione considerata positiva, su cui sembra esserci ben poco da discutere.

Gli sgomberi si verificano da anni e con ogni probabilità continueranno a verificarsi in futuro, nel silenzio e nell’indifferenza – quando non nella tacita approvazione – generale. Soprattutto quando a essere oggetto di rimozione sono i cosiddetti “campi rom”, catalizzatori per eccellenza di diffidenza e risentimento.

La distruzione degli insediamenti abitativi informali in cui vivono persone romanì – o, quantomeno, percepite ed etichettate come tali dalle amministrazioni – costituisce una storia a parte all’interno della più ampia vicenda degli sgomberi. Nel portare avanti azioni di questo tipo, le istituzioni si dotano di un articolato apparato di parole, categorie e saperi, attingendo in maniera selettiva e strumentale alle scienze sociali e, spesso, avvalendosi della consulenza di esperti, accademici e no. In questo modo, costruiscono una loro lettura delle caratteristiche e dei comportamenti che contraddistinguerebbero i soggetti con cui si relazionano.

Come ha evidenziato già diversi anni fa Nando Sigona, le visioni istituzionali convergono nel ritenere il “nomadismo” un tratto culturale di rom, sinti e camminanti. La politica nazionale e locale, in piena coerenza con queste visioni, ha affrontato la “questione zingari” ponendo come priorità la disciplina della mobilità. Le prime iniziative intraprese dalle amministrazioni locali negli anni ‘50 e ’60 si sono di conseguenza tradotte nella costruzione di aree di sosta per “nomadi”. Le leggi regionali che, a partire dagli anni ’80, sono andate a sistematizzarle hanno disposto la realizzazione di campi sosta per “zingari stanziali” e campi di transito per “zingari nomadi”. Queste misure sono state accompagnate dalla produzione di documenti istituzionali che hanno consolidato processi di categorizzazione e di stereotipizzazione già in atto, contribuendo a una lettura sempre più culturalista delle popolazioni romanì e dei loro comportamenti. Le Linee Guida di accesso nei Campi Rom e Sinti, pubblicate dalla Croce rossa italiana nel 2010, sono rappresentative al riguardo. Il capitolo 7, intitolato “Le varie fasi per prendere contatto con un campo Nomadi: modi e tempi per accedere, acquisire e mantenere la loro fiducia”, contiene suggerimenti come questo: «il nomade ha una spiccata sensibilità, capisce perfettamente gli stati emozionali della persona che ha di fronte e capisce anche se il volontario è una persona corretta e leale; se il volontario guadagna la fiducia del nomade non potrà mai succedergli nulla, perché all’interno di un campo c’è un codice d’onore e il volontario, la divisa e il simbolo che rappresenta non verranno mai toccati; noi viviamo una fase culturale che discute i[l] valore della divisa, ma nei campi la divisa, portata con correttezza, è una insegna, una bandiera».

Visioni e discorsi del genere hanno contribuito negli anni a legittimare la costruzione dei campi e, successivamente, a giustificarne il sistematico smantellamento. Il campo, infatti, al pari delle persone che è chiamato a ospitare, ha subito un processo di naturalizzazione: da luogo di gestione della mobilità imposto dalle istituzioni è diventato l’habitat in cui le popolazioni romanì sarebbero “naturalmente” portate a vivere. In poco tempo, dunque, le stesse categorie e gli stessi saperi hanno prodotto prima l’idea che gli “zingari” siano intrinsecamente nomadi e, poi, quella che siano essenzialmente incapaci di vivere in abitazioni “normali” e che, di conseguenza, preferiscano stare nelle baracche.

Attraverso visioni e discorsi culturalisti – che rimuovono sistematicamente il dato politico e materiale delle disuguaglianze e delle condizioni di deprivazione in cui migliaia di persone sono indotte a vivere –, governi centrali, regioni e comuni hanno dunque costruito la loro versione dei fatti, funzionale alla giustificazione e alla legittimazione di un agire escludente e discriminatorio.

Degli stessi fatti, e prima ancora dei presupposti teorici e delle visioni politiche che li rendono possibili, sono pensabili però altre letture. La versione di Jean è una di queste. Il progetto di Manuela Cencetti, Jean Diaconescu e Stella Iannitto – un percorso in parte finanziato, senza fare ricorso a committenti esterni (e soprattutto a fondazioni bancarie), dall’organizzazione indipendente Codici tramite il bando Non solo case – racconta la lunga vicenda dell’insediamento informale di Lungo Stura Lazio a Torino, prima città italiana a istituire, già nel 1982, un Ufficio Stranieri e Nomadi. Lo fa attraverso immagini, testi e video, ora raccolti e organizzati in un sito internet – http://laversionedijean.it/ – e presto destinato a diventare un film, anche grazie a un crowdfunding. Esplorandone le pagine, è possibile accedere ai ricordi e alle testimonianze di una persona che, da non rom, ha vissuto per anni nel più grande “campo rom” d’Europa, abitato per almeno 15 anni da circa 2000 persone.

Jean – ex pugile professionista, attivista politico, autista, camionista e molte altre cose – ha iniziato a riprendere sistematicamente le azioni compiute dalle forze di polizia quando gli abusi nei confronti delle e degli abitanti dell’insediamento di Lungo Stura Lazio sono diventati insostenibili. L’atto stesso di filmare quanto accadeva è stato da subito interpretato dalle istituzioni come un affronto e una minaccia al loro lavoro. Attraverso le testimonianze video, l’asimmetria costitutiva tra chi detiene formalmente il potere e chi lo subisce, soprattutto quando questo è impiegato in maniera eccessiva e arbitraria si fa immediatamente evidente.

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Foto di La versione di Jean

Filmare, per Jean, diventa un’esigenza vitale e un atto politico fondamentale: «se non si fanno i filmati è sempre la voce del Comune o della polizia ad avere ragione. Se le persone del campo non fanno i filmati non hanno voce. Di loro si dice che raccontano sempre bugie ma non è vero. Nei campi le persone sono trattate molto male, sono minacciate o insultate». L’episodio che ha dato avvio alla scelta di riprendere quanto accadeva è stato l’arresto di Aramis, un ragazzo abitante nel campo più volte identificato dalle forze dell’ordine, trovato senza documenti nel giorno in cui viene apposto il foglio di sequestro sulla baracca in cui vive la sua famiglia. Durante l’“azione” – testimoniata da uno dei numerosi video presenti nel sito –, una agente dell’ex “Nucleo Nomadi” della polizia locale – ora ridenominato “Reparto informativo minoranze etniche” – estrae la pistola e la punta contro le persone presenti, nonostante l’assenza di qualunque forma di resistenza da parte loro, mentre un’altra collega spruzza lo spray al peperoncino sul volto di Aramis, ormai immobilizzato a terra da due persone che, per diversi minuti, esercitano pressione sulla sua schiena.

Una scena di violenza strutturale e quotidiana che presenta due versioni: la prima di parte istituzionale, tesa a giustificare l’operato del personale comunale sostenendone la legittimità; la seconda dal basso, costruita dalle e dagli abitanti del campo attraverso i filmati realizzati con i loro telefoni, volta a decostruire e smontare la prima. Si tratta chiaramente di un confronto impari, non soltanto a livello giudiziario ma anche di senso comune: le rappresentazioni delle persone che abitano i campi, in parte costruite dalle istituzioni e spesso rafforzate dai media, difficilmente vengono scalfite dai racconti e dalle testimonianze di chi in quei campi effettivamente ci vive e subisce soprusi.

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Foto di La versione di Jean

Anche perché molte di queste violenze, come emerge da La versione di Jean, assumono la forma di abusi legali e amministrativi. La continua richiesta di documenti – priva di ragioni specifiche e dovuta piuttosto alla volontà di intimidire e disciplinare – e la sistematica negazione della residenza anagrafica – e quindi l’impossibilità di ottenere la carta di identità e l’iscrizione al Servizio sanitario nazionale – sono le manifestazioni più diffuse di una prepotenza burocratica strisciante, che va avanti da decenni nonostante le istituzioni di livello centrale abbiano più volte sanzionato le decisioni comunali. Già nel 1973, infatti, una circolare del Ministero dell’interno invitava le amministrazioni locali a rimuovere i cartelli che segnalano il divieto di sosta per i “nomadi”. Qualche anno dopo, nel 1985, una seconda circolare emanata dallo stesso dicastero ricordava l’obbligo di iscrizione anagrafica per le persone che vivono nei campi, soprattutto a fini di inclusione sociale e scolastica, e criticava l’uso disinvolto e improprio dell’ordinanza comunale quale strumento di sgombero di individui e famiglie soggiornanti da anni nel territorio municipale.

La più macroscopica ed evidente delle violenze istituzionali è proprio quella che induce Jean e le altre persone abitanti nel campo a usare i telefoni per effettuare riprese. Si tratta del programma di sgomberi – presentati come “dolci” e “negoziati” – che concludono il progetto La città possibile, finanziato e coordinato dal comune di Torino e affidato, tramite bando, a un raggruppamento temporaneo composto da 27 enti e associazioni. La versione di Jean nasce con l’intenzione di smascherare la narrazione istituzionale del progetto, finalizzato ufficialmente a superare la forma campo e a garantire percorsi effettivi di integrazione in contesti alloggiativi “normali”.

Il sito – e prossimamente il film documentario -, attraverso immagini, testimonianze e un’accurata cronologia degli eventi, racconta una storia diversa da quella ufficiale. Gli attori coinvolti, istituzionali e no, più che ricollocare le persone espulse in situazioni abitative decenti le hanno ingannate – dando una casa soltanto a poche e rendendole economicamente dipendenti dalle associazioni e dalle cooperative, le quali hanno pagato per qualche mese una parte degli affitti che, però, sono presto aumentati vertiginosamente diventando insostenibili – e poi le hanno allontanate con la forza, separandole, sparpagliandole e spingendole a trovare soluzioni precarie e di fortuna. Spesso, peraltro, in altri insediamenti informali (in particolare in via Germagnano e in corso Tazzoli), dai quali, in seguito, sono state nuovamente sgomberate. In una specie di drammatico gioco di rimpalli, ottimo per soddisfare gli elettori e i media, ai quali è stato raccontato che le famiglie sgomberate erano tornate nel paese di origine o avevano trovato una collocazione abitativa “dignitosa” grazie alla generosità delle istituzioni, ma pessimo, materialmente e moralmente, per chi lo ha subito.

La critica al progetto La città possibile, e più in generale alle versioni istituzionali degli sgomberi, passa anche attraverso una decostruzione e una ri-significazione delle parole. Assieme a Jean, Manuela – attivista e realizzatrice di video e montaggi, da anni coinvolta nelle lotte con persone senza casa e senza terra, sfruttate e discriminate perché povere – e Stella – documentarista e autrice, da tempo impegnata a seguire le vicende di alcuni dei più grandi insediamenti rom della città di Torino – hanno deciso di utilizzare, nel sito e nel film, i termini “campo”, “Platz”, “Barcaiola” e, secondariamente, baraccopoli o slum. L’intenzione era quella di ricostruire la storia e la memoria di un luogo dando voce prima di tutto alle persone che lo abitavano e, dunque, richiamando il modo in cui lo denominavano.

La versione di Jean cerca così di contrastare parole e discorsi stigmatizzanti e culturalisti, pronunciati da istituzioni che, come si è visto, si avvalgono di una polizia locale “etnicizzante”, a partire dal suo nome prima ancora che dalle sue pratiche. Si tratta, anche in questo caso, di un confronto impari, considerate la potenza e la diffusione del linguaggio istituzionale e mediatico, ma che, come emerge chiaramente dal film e dal sito, è giusto e fattibile portare avanti. Un’altra versione, dei fatti e delle parole che li raccontano, è possibile.

 

 

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