Pubblichiamo l’intervento che Davide Orecchio, autore di “Stati di grazia” (Il Saggiatore, 2014), ha tenuto a CaLibro 2015. L’intervento e il testo qui riportato sono accompagnati dalle illustrazioni di Silvia Checconi.
All’inizio degli anni Settanta, nel mese di luglio, una ragazza teneva per mano un bambino. Lo aiutava a camminare. I due indossavano costumi da bagno. Avanzavano sulla sabbia lavica e ustionante di una spiaggia siciliana. La ragazza (magra, alta, con dei folti capelli ricci) era leggermente china sul bambino, per aiutarlo meglio e forse proteggerlo da inciampi o cadute. Il sole era quasi a mezzogiorno. Forte, spietato, ripercosso dal nero delle pietre e della spiaggia. Non c’era scampo se non nel mare, o sotto l’ombra di un molo o di una barca.
Quella che vi sto descrivendo è una fotografia. Il bambino nella foto ero io. E la ragazza, chi era? È la domanda che rivolsi a mia madre, anni dopo il momento dello scatto. Lei mi rispose, stupita dal fatto che non me ne ricordassi, che si chiamava Aurora: una giovane argentina che si era occupata di me nel corso di un’estate in Sicilia. In realtà me la ricordavo bene. Avevo solo bisogno che qualcuno risvegliasse la memoria.
Aurora (chiamiamola così, ma è un nome fittizio) rimase con noi per poco tempo. Non so attraverso quali canali fosse entrata in contatto con la mia famiglia; immagino che l’avessimo accolta grazie a quella rete di solidarietà che era forte, allora, nella comunità di sinistra, nei confronti degli esuli e delle vittime delle dittature sudamericane e mediterranee. Aurora era un’esule, ma era fuggita dall’Argentina prima che scoppiasse l’ultimo Golpe, quello del 26 marzo del 1976, il colpo di Stato che avrebbe messo al mondo la più feroce delle dittature argentine, l’ultima, destinata a chiudersi nel 1982 con almeno 30 mila vittime e un intero paese prostrato. Aurora era fuggita prima di vedere il generale Videla salire al potere, prima che la Giunta militare applicasse su larga scala il metodo della desaparición, eliminando gli oppositori, gli amici degli oppositori, e gli amici degli amici senza che l’opinione pubblica se ne potesse accorgere, senza quella ferocia manifesta che tutto il mondo aveva testimoniato, invece, guardando al Cile di Pinochet. Una ferocia occulta, da garage, da sotterraneo: è una storia che conosciamo bene, ormai, ma che in quell’estate siciliana né Aurora, né tantomeno io potevamo immaginare stesse per accadere.
O forse Aurora sì: e per questo era fuggita.
In seguito lasciò l’Italia e si trasferì a Città del Messico, come molti altri esuli. Ogni tanto si faceva viva. Una telefonata con mia madre. Una cartolina. Una lettera sigillata da francobolli esotici. E il tempo passò. Lustri. Decenni. Ma nel corso del tempo – crescendo, facendomi adulto – non smisi mai di nutrire affetto per quel paese lontano che si chiama Argentina; per il paese di Aurora. All’università decisi di studiare storia. Ma scelsi di occuparmi di secoli leggermente distanti: il Settecento, l’Ottocento. Il passato prossimo, la contemporaneità, invece m’intimoriva. Solo dopo, abbandonati da tempo aule e archivi, trovai il coraggio di occuparmi di epoche più recenti e decisive per me. Fu allora che entrai in contatto – da semplice osservatore esterno, da appassionato, da simpatizzante – con le iniziative che la comunità argentina romana andava organizzando. Convegni, incontri, testimonianze collettive, pubblicazioni e presentazioni di libri, cause e processi ai torturatori della Giunta. All’inizio di questo secolo, nel decennio degli anni Zero, gli esuli argentini uscivano dall’ombra e raccontavano le loro storie e io li ascoltavo e leggevo. Finché un giorno decisi di esercitare la mia scrittura su queste storie di esilio, di sconfitta, di abbandono che mi indignavano ed emozionavano.
Spesso per scrivere ho bisogno di indignazione, di rabbia. È quasi un carburante che tiene in movimento il progetto, la scrittura stessa, la disciplina della scrittura. In questo caso il carburante mi portò sino in Argentina. Nel luglio del 2004. Ancora di luglio. Visitavo l’Argentina di Nestor Kirchner. Per la seconda volta in due anni visitavo il paese che iniziava a riprendersi dalla crisi del 2001. Che aveva spazzato via la classe dirigente post-dittatoriale di Menem. Che stava abolendo le leggi di amnistia e impunità. Che riapriva i processi contro i crimini della dittatura. Non mi trovavo a Buenos Aires, ma nel Nord. Nello stato di Jujuy. Ero venuto a visitare un luogo dove, trent’anni prima, durante il regime militare, lontano dalla capitale, gli emissari della dittatura si erano macchiati di crimini orribili. Presi una corriera nella stazione di San Salvador de Jujuy. Durante il viaggio sfiorammo posti di controllo, borghi, lamiere, campi. Ero venuto a vedere, a percepire quanto più potevo, come una spugna. Visitavo un paese che si chiama Libertador General San Martín: ospita una fabbrica, lo zuccherificio Ledesma, ed era proprio nella fabbrica la radice della storia difficile avvenuta molti anni prima.
In questa parte dell’Argentina settentrionale l’altopiano andino s’avvalla verso terre subtropicali. È una terra di mezzo tra il secco e l’umido, tra la zanzara e il condor. Più vicina all’asprezza boliviana che alla cultura di Buenos Aires. Distante giorni e chilometri dalla metropoli. È una terra slacciata dall’attenzione e dall’occhio dell’opinione pubblica. Ed è il regno del latifondo. Qui si coltiva in estensione la canna da zucchero. La fabbrica è appunto lo zuccherificio. Rifornisce l’intera Argentina di prodotti saccariferi e carta, e dà nome a un quartiere e villaggio dove abitano i suoi operai e braccianti con le loro famiglie.
Appena arrivato, trovai un muro altissimo: circondava lo zuccherificio e lo sorvegliavano molte guardie. Fotografai il muro. Sembrava la cinta di un carcere, un vallo che teneva separati i segreti dalla verità. Era lugubre persino nei mattoni scheggiati e senza intonaco. Accanto sorgeva una ciminiera che gettava il suo fumo, incessantemente. Presi un taxi. Anzi dovrei dire un colectivo. Un’automobile sgangherata dalla quale entravano e scendevano passeggeri, costume che da principio mi aveva creato una certa ansia, ma che, nonostante tutto, mi consentì di visitare il paese, le coltivazioni di canna da zucchero, il quartiere dei dipendenti, le poche zone pubbliche. Poi proseguii la mia visita a piedi. Restai un altro poco nel barrio. Passeggiai. Visitai uno spaccio. Incrociai una comitiva di adolescenti. Poi un branco di cani. Poi un gruppo di donne con le sporte della spesa. C’era una quiete paesana che mi sembrava inverosimile. Nulla di queste scene e di questa quiete riusciva a trasmettermi quanto era accaduto in questo luogo trent’anni prima. E il mio sconcerto, la mia paura anche, nascevano dal fatto che io già conoscevo quella storia.
Quale storia? È passata agli annali come la noche de l’apagón. La notte del blackout. Avvenne di luglio. Ancora di luglio. Nel 1976. La Giunta di Videla è al potere da pochi mesi, da marzo, e ha già dichiarato la sua Guerra sporca agli oppositori, una guerra combattuta con le armi dei sequestri, della tortura, dell’omicidio. Ma qui al Nord la guerra è scoppiata molto prima, già da due anni almeno. I militari, in effetti, da mesi stanno usando il Nord per una prova generale di quanto faranno al paese intero. Alle spalle, il Nord, ha decenni di lavoro quasi servile tra le canne e la fabbrica, d’immigrazione stagionale e sfruttamento dei nativi convertiti in braccianti che raccolgono dall’alba al tramonto. Il Nord sono le baracche, l’assenza di servizi sanitari, le malattie per dover respirare gli scarti della materia raffinata: una polvere, la bagassa, che intossica i polmoni e a lungo andare uccide. Qui i rapporti di forza sono brutali, primordiali: da una parte i latifondisti, dall’altra braccianti e operai.
Questa è la geografia, l’oggetto del lavoro, la topografia degli eventi. E questa è la storia: nelle notti di luglio nel villaggio si spegne la luce. I lampioni nelle strade, i lumi nelle case: un oscuramento. Chi l’ha deciso? Non si sa. Eppure, guarda caso, la corrente elettrica la gestisce la fabbrica. Nel buio risuona il passaggio dei furgoni. A chi appartengono i camion? Sui teloni qualcuno legge l’insegna della fabbrica. Servono al rastrellamento. Nell’oscurità. Portano militari che violano la privatezza delle abitazioni, l’intimità di una camera da letto o di una vasca da bagno, il ristoro di una cena, le faccende domestiche di una madre, il riposo sulla branda di un padre o di un figlio. I soldati violentano le porte delle case. Entrano. Prendono quattrocento persone: operai, sindacalisti, militanti di sinistra, maestri, studenti, braccianti. Li portano via verso la destinazione di caserme, centri clandestini, interrogatori, torture e sparizione. Molti di loro non torneranno mai più.
Io, questa storia, in parte già la conoscevo. Avevo raccolto materiali su internet. Anche se all’epoca internet non era ricca di documenti come oggi, ed era più complicato fare ricerche in rete. Ero venuto al Nord, ripeto, proprio per vedere il posto, capirlo coi miei occhi. La sera stessa tornai in città. Dormivo in un albergo affiancato a una caserma della polizia. Dalla finestra della mia camera potevo vedere i tetti e gli spazi comuni della caserma, e ascoltare le urla dei comandi e delle esercitazioni. Probabilmente molte delle persone sequestrate la notte del blackout passarono per quella caserma. Se un altro me avesse preso una stanza in quell’albergo trent’anni prima, forse avrebbe ascoltato urla diverse.
Pochi giorni dopo tornai a Buenos Aires, dove raccolsi altri materiali da portare in Italia. Libri, riviste, documentari: quanto più potevo, quanto più potesse aiutarmi a conoscere tutta la storia. Mi procurai un documentario, girato da Norberto Ludin e Pablo Milstein, che racconta con molta precisione la notte dell’apagón. S’intitola Sol de noche, il sole di notte, su YouTube ne trovate la versione integrale e, se volete, vi consiglio di vederla. Io avevo un rudimentale VHS, con sopra scritto “por italiano”. Per l’italiano. L’italiano ero io. Quel VHS era destinato a me. L’italiano tornò in Italia, spinse il tasto “play” del videoregistratore e apprese la storia di chi è scomparso quella notte del luglio 1976, nel nord dell’Argentina, nella terra della canna da zucchero, e di chi è rimasto a lottare e chiedere giustizia, anno dopo anno, fino a oggi.
Questa storia ho provato a raccontarla, in forma di romanzo e finzione, in Stati di grazia. È una delle storie che racconto nel libro. Perché l’ho fatto? Forse perché sono ammalato di storia. Ho quasi una dipendenza dalla memoria di traumi storici. Credo sia una patologia tipica della mia generazione, di coloro che hanno transitato da un secolo all’altro sentendosi alla fin fine orfani sia dell’uno che dell’altro secolo, e in fondo anche orfani della storia. Quanto più il mio oggi è (o mi appare) privo di storicità, tanto più cerco rifugio nei trascorsi alla ricerca ostinata di un senso. Mi sembra che dalla paralisi odierna (molto occidentale, molto italiana) fiotti una pesca nei depositi della storia accaduta. In genere una società dinamica e storicamente protagonista s’impossessa del passato per volgerlo, anche distorcerlo, ai fini non sempre commendevoli del presente. Ma se l’epoca s’impaluda nella stasi, o peggio ancora nel regresso, può accadere al contrario che il passato assuma il dominio e i viventi gli si affidino così da prendere una loro rincorsa, e che si guardino indietro per non stare fermi, per darsi slancio, superare l’ostacolo e riprendere il cammino. Ma questa storia l’ho raccontata anche perché sono convinto che abbiamo in sorte un’epoca che digerisce, mette in rete e condivide ogni vicenda per posarla in uno spazio che è presente continuo, uno storage di storicità. Questo può servire. È un deposito di fatti, nozioni, forse di sapere. Aiuta a vedere l’innesco e la catena della brutalità di Stato che è un virus non debellato dal Novecento dei lager, delle torture in Algeria poi trasmigrate in Sudamerica con tanto di docenti e discenti, e che inaugura questo secolo a Genova, a Guantanamo e chissà in quale altro segretissimo luogo. La nostra gracilità trova la sua diagnosi in una malattia di violenza: ve ne sono ceppi dovunque, nello spazio continuo che lega ieri a oggi, un paese del Nord argentino all’Europa, una segreta nordafricana a un carcere latinoamericano; e ciascuno di essi contamina, infetta, dissemina il trauma della minaccia e della paura. Di generazione in generazione. Tra comunità e comunità. Tutto ci riguarda. Tutto è noi, e noi siamo tutto. Ma se l’ombra è compresa, raccontata, ricordata, se sul blackout accendiamo la luce può darsi che il trauma rimpiccolisca e che il nostro oppresso senso del limite guarisca sino a sfiorire. I fantasmi fanno paura finché non li si smaschera.
Nella storia poi, anzi nonostante la storia, le persone si prendono le loro rivincite. Semplicemente sopravvivendo. Rifacendosi una vita. Fuggendo. Cambiando paese. E alla fine la loro vittoria consiste non solo nell’essere rimaste vive ma nell’essersi conquistate anni di felicità, storie d’amore, figli, lavoro. Ad Aurora, quella ragazza che mi accompagnava su una spiaggia siciliana, è andata così. O almeno voglio sperarlo. Da Città del Messico si trasferì a Barcellona. Trovò lavoro in uno studio di architettura. L’ultima volta che la vidi, al principio degli anni Novanta, era ormai una donna matura. Venne a trovarci a Roma. Era serena, Aurora. Nonostante avesse sulle spalle vent’anni di esilio tra Italia, Messico e Spagna, a me sembrava una persona felice. L’ultima volta che mi chiamò, una decina di anni fa, voleva parlare con mia madre. Non ci sentivamo da moltissimo tempo. Le dissi che mia madre era morta. Aurora rimase in silenzio, senza parole, poi ci salutammo in fretta, con imbarazzo. Da allora non l’ho più sentita.
C’è qualcosa di sconcertante, se ci pensate, ma che ci consente anche una speranza: l’ultima dittatura argentina è stato uno dei momenti più abietti del Novecento. Ha spazzato via un’intera generazione di ragazze e ragazzi. I coetanei di Aurora. Ha stordito, annichilito un paese per decenni, esercitando il proprio effetto anche sulle deboli democrazie che sono venute dopo, sulle oligarchie, sulle politiche neoliberiste praticate senza troppi attriti da chi governava – almeno fino alla crisi del 2001 – su un paese ancora in stato di choc. Eppure il movimento di protesta guidato dalle madri che si è levato contro quella dittatura è uno dei frutti più belli, coraggiosi ed esemplari del secolo scorso. Le madri non si possono non amare, le madri hanno insegnato al mondo intero. Ma senza la dittatura, non avremmo avuto le madri. È questo l’aspetto sconcertante. E senza le madri non avremmo i processi, che ancora si celebrano. E non avremmo l’identificazione dei nietos tramite la banca dati del Dna.
Allora, adesso che chiudo, lascio la parola a una di loro, a Vera Vigevani Jarach, una madre che qualche anno fa in un’intervista disse quanto segue:
Abbiamo finalmente i processi e abbiamo le condanne. In Argentina mai nessuno si è fatto giustizia da sé. Abbiamo sempre creduto nella necessità dei tribunali, dei processi, della Giustizia. E abbiamo fatto bene. (…) Un signore mi ha fermata e mi ha detto: “Ha saputo? È morto Videla. Che effetto le fa?” E io ho risposto che non mi faceva un grosso effetto. Videla è stato processato, condannato a due ergastoli, all’inizio ai domiciliari, ma poi l’abbiamo mandato in cella, in una cella comune e lì è morto, dietro le sbarre.
[I brani sulla visita allo zuccherificio rielaborano un articolo già apparso su «Left» (La guerra sporca di Videla, 28 luglio 2014). I brani sul mio rapporto con la storia sono stralci di ragionamenti più ampi pubblicati su «Lo Straniero», 168, giugno 2014; e su «Nuovi Argomenti», 69, gennaio-marzo 2015 (Gli altri non sono noi, una conversazione con Daniele Giglioli)]