Pubblichiamo un estratto da “Il Nero di Giovanni Vento. Un film e un regista verso l’Italia plurale” di Leonardo De Franceschi (Artdigiland, 2021).
Le vite dei neri (e delle nere) contano. Nel mese di giugno del 2020, sulla scia dell’ondata di rivolte suscitata negli Stati Uniti e via via in altri Paesi dall’uccisione di George Floyd il 25 maggio a opera di un poliziotto bianco di Minneapolis, anche le piazze italiane si sono riempite di ragazze e ragazzi, spesso giovanissimi, molti afrodiscendenti, figlie e figli di un’Italia plurale, forse mai apparsa così visibile e pronta a farsi sentire. Chi è scesa/o in piazza, ginocchio contro l’asfalto, invocava il diritto di respirare, in un Paese nel quale, sia pure con modalità molto diverse da quanto accada negli Stati Uniti, di razzismo istituzionale e “popolare” si continua a morire. Negli slogan che si rimpallavano da Roma a Napoli, da Milano a Torino, una delle parole più presenti era «cittadinanza». In gioco c’era, e c’è, per centinaia di migliaia di giovani delle cosiddette «seconde» o «nuove generazioni», figlie e figli di migranti, quello che Hannah Arendt ha definito a suo tempo «il diritto ad avere diritti», cioè il diritto a vedersi riconosciute/i cittadine/i a pieno titolo e con pari dignità dal Paese in cui spesso si è venute/i al mondo e in ogni caso si è studiato, si lavora, si vive.
Questa sete di diritti va al di là della richiesta, pure sacrosanta, di una nuova legge per la cittadinanza. Investe prepotentemente l’immaginario e le narrazioni dominanti nei media vecchi e nuovi, nei luoghi di produzione e riproduzione del sapere, ovunque si contribuisca ogni giorno a rinegoziare l’immagine del nostro Paese, nel presente e al passato. In queste piazze era forte infatti l’urgenza di ricordare, di pronunciare i nomi di chi qui è stata/o ammazzata/o solo per il colore della pelle o è stata/o lasciato annegare magari a pochi chilometri dalla costa. Altrettanto sentita era però avvertita la necessità di aprire una conversazione a più ampio respiro sulla Storia profonda di questo Paese, di rintracciare i fili di una trama fatta di incontri transculturali, intrecciata inestricabilmente a un’Europa e più in generale a un’Occidente che per secoli è stato l’architrave di un ordine sistemico basato sulla violenza, sullo sfruttamento, sulla negazione culturale della dignità di intere popolazioni, un ordine i cui protagonisti – imperatori, re, dittatori, primi ministri, generali, scrittori, giornalisti, cantori di vario ordine e grado – campeggiano ancora oggi con i propri nomi nelle insegne delle strade, sulle targhe delle scuole pubbliche, oppure fanno bella mostra sotto forma di monumenti nei crocicchi o nei parchi.
Questa battaglia, che si gioca anche nell’arena delle narrazioni legate alla memoria collettiva, alle produzioni artistiche e culturali popolari, alla comunicazione, è parte di un movimento plurale che avanza da anni, benché stenti ad arrivare ai media mainstream e a farsi sentire nelle stanze del potere reale. Si alimenta di romanzi, racconti, saggi, canzoni, spettacoli, performance, articoli, conferenze, corsi universitari, eventi dal vivo e nello spazio del web. Produce storie declinate al presente e riattraversamenti del passato prossimo e remoto alla ricerca di tracce di contronarrazioni, nella Storia vissuta, nella letteratura, nella pittura, nel cinema.
Quella che state per ripercorrere è l’avventura di un regista e di un film che, oltre cinquant’anni fa, hanno provato a lasciare un piccolo segno di discontinuità nelle narrazioni di quest’Italia che allora, come sostanzialmente ancora oggi, si autorappresentava come omogeneamente bianca ma culturalmente aperta e immune dal razzismo, fiera delle proprie tappe fondative e delle conquiste economiche e sociali, attaccata a una retorica patria che malcelava troppi nodi irrisolti. Il libro nasce dall’urgenza di provare a restituire questo segno anzitutto alle ragazze e ai ragazzi dell’Italia plurale di oggi.
Quel regista, Giovanni Vento, era nato a Roma, da una famiglia più che modesta di venditori di ortofrutta. Era un adolescente quando nel luglio 1943 i bombardieri americani hanno trasformato San Lorenzo in un ammasso di macerie fumanti, un uomo quando è tornato dallo sfollamento in provincia di Caserta. Folgorato dai film del neorealismo nel circolo del cinema di quartiere, ha interrotto gli studi di lingue all’Orientale di Napoli e si è gettato a capofitto nel dibattito critico, scrivendo per oltre un decennio con assiduità sugli organi di riferimento del movimento antifascista e operaio, da l’Unità a Patria indipendente e nelle testate dove più forte infuriava la discussione sul realismo e sullo «specifico filmico», Cinema nuovo e Filmcritica. In prima fila nei dibattiti sulla nuova legge e nella diatriba intorno al conformismo culturale della sinistra storica, scrupoloso studioso della Resistenza nel cinema e del lavoro delle maestranze, tra i primi Vento ha avvertito i fermenti di cambiamento che venivano dal cinema e dalla società, partecipando alla fondazione della rivista Cinema 60. Già in quegli anni però, al lavoro di redazione e riflessione critica cominciava a unire quello di assistentato sui set, prima di alcuni cortometraggi, e poi, con maggiore costanza, accanto a Carlo Lizzani. Nei primi anni Sessanta si consumano il suo definitivo allontanamento dal dibattito critico e la scommessa su un futuro dietro la macchina da presa, secondo un percorso comune a diversi della sua generazione. Documentarista a suo agio nel formato corto, attento alle mille voci di un’Italia sommersa, fatta di donne e bambini del sud, meridionali al nord, detenute/i, operaie/i, comuniste/i, «zingare/i», Vento si sente vicino a una pattuglia agguerrita di filmmaker che, seguendo il magistero visionario e utopico di Cesare Zavattini, si impegnano per restituire al cinema italiano un orizzonte di presa diretta sul reale, in anni di crescita economica ed effervescenza giovanile ma anche di mutazioni antropologiche profonde. Partecipa così all’impresa collettiva de I misteri di Roma (1963) e sviluppa una ricerca personale sul film-inchiesta, mostrandosi ricettivo alle sperimentazioni sul cinema diretto avviate soprattutto in Francia e oltreoceano, che continua a rielaborare, in una serie di cortometraggi (13 in tutto), fino alla fine del decennio.
Dal 1965 molte delle sue energie creative sono concentrate però ormai in quello che rimarrà il primo e unico lungometraggio di finzione. Girato tra inverno 1965 e primavera 1966 in una Napoli inedita, moderna, a suo modo cosmopolita, lontana dai paesaggi cartolineschi e dai miserabilismi pittoreschi della tradizione, Il nero parte dall’urgenza di dare voce a un altro segmento d’italianità dimenticata – le figlie e i figli nati perlopiù tra 1945 e 1946 dai rapporti tra italiane e militari «di colore» della Quinta Armata, per Vento «i primi neri della nostra storia» – e finisce per mettere a confronto per rapidi tocchi due generazioni di padri/madri e figli/figlie, tra stanchezza e sensualità, inquietudini e ribellismo, alla vigilia di un turning point decisivo come il Sessantotto. Presentato in anteprima al Festival internazionale di Berlino insieme ad altri, ben più celebrati film manifesto del giovane cinema italiano, Prima della rivoluzione (Bernardo Bertolucci, 1964) e I pugni in tasca (Marco Bellocchio, 1965), Il nero colpisce la critica del tempo soprattutto per la sua narrazione aperta, ispirata al jazz e al modernismo dei nuovi cinema, e un sapore di presa diretta sul reale che è frutto di riflessioni ed esperienze nel documentario, ma si scontra con una censura di mercato che rallenta il ricambio generazionale e sacrifica i talenti meno associabili alle mode culturali del momento, non riuscendo a trovare la via della distribuzione. Dopo un ritorno sull’afrodiscendenza negata e sulle eredità mal digerite del colonialismo, nel corto Africa in casa (1968), e altri lavori brevi più o meno personali, Vento mette un punto fermo a un ventennio intenso di battaglie sulla carta stampata e dietro la macchina da presa e abbandona in buona sostanza le scene, se si esclude la tardiva collaborazione all’esordio di Francesco Longo (Un’emozione in più, 1979), scivolando in un fitto cono d’ombra, fino e oltre la scomparsa prematura, avvenuta nel gennaio del 1979.
Questo regista dimenticato e questo suo unico lungometraggio mi hanno letteralmente ossessionato negli ultimi sette anni di attività didattica e di ricerca. Correva infatti l’anno di grazia 2013, in giugno, quando, dopo aver visto nelle settimane precedenti per la prima volta il film, grazie a un DVD messo a mia disposizione dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AAMOD), mi sono fatto coraggio e, procuratomi il telefono di Carlo Lizzani, sono partito da una conversazione con quello che nei primi anni Sessanta era stato a lungo tra i mentori e sodali più affezionati di Vento, avendolo avuto come assistente in ben sei lungometraggi, per sondare le condizioni di possibilità di quella che già allora mi pareva un’impresa da far tremare le vene e i polsi, avviare un percorso parallelo di restauro e valorizzazione de Il nero.
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata molta, diverse le persone vicine a Vento e legate al film che ci hanno lasciato, dopo avermi manifestato apprezzamento e sostegno per l’iniziativa, dallo stesso Lizzani a Mino Argentieri, che aveva condiviso con Vento l’avventura della fondazione di Cinema 60, passando per il direttore della fotografia Aiace Parolin.
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Vento ci consegna con Il nero un messaggio in bottiglia che suona anzitutto come un appello a non considerare chiusi i giochi: chiusi, nel senso di determinati sulla base di appartenenze di «razza», di classe, di genere; ma anche chiusi, nel senso di pacificati, suturati, risolti. I traumi lasciati in eredità dal passato (colonialismo, fascismo, Seconda guerra mondiale) sono ancora lì, sotto la superficie di un presente di benessere ed edonismo, appena movimentato da una patina di spleen esistenziale, e le/i giovani – «italiani e stranieri, bianchi e neri» – sono le/gli uniche/unici a poter recuperare questa rabbia, questo dolore, questo bisogno di riscatto e a trasformarlo in energia positiva per cambiare radicalmente la società. Un epilogo, insomma, che suona come un nuovo inizio, una speranza di rivoluzione, per un film che forse, non essendo mai stato veramente visto, mantiene – fatta la tara alle incertezze e ai limiti, pure abbondantemente censiti – tutto il suo potenziale poetico di sovversione.
In quest’Italia impaurita dal Covid-19, dove essere nata/o qui da genitori stabilmente residenti o essersi formata/o in una scuola di Cremona, Trapani o L’Aquila non viene ancora considerato criterio sufficiente per vedersi riconosciuta la cittadinanza, e anche quando la si ottiene, se non si ha la «pelle giusta», si vive costantemente attenzionato/a da parte di forze dell’ordine, picchiatori del sabato sera e bulli da tastiera, e ci si continua a raccontare che l’Italia non è mai stato un paese razzista, grazie all’azione moderatrice della Chiesa, alla memoria dell’emigrazione verso l’estero, alla presenza del Partito Comunista più forte dell’Europa Occidentale, Il nero può rappresentare un’occasione importante per guardarsi indietro, prendere consapevolezza dei tanti appuntamenti mancati con la storia, delle tante sofferenze inflitte inutilmente a figlie/i dell’incontro transculturale ed eredi del colonialismo, e provare a voltar pagina.
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Le risate amare di Silvano, Mario e della piccola folla di giovani reclute che accompagnano insieme al tema di marcetta militare squillante e allucinato di Piero Umiliani l’epilogo de Il nero chiedono di poter risuonare in una sala buia, popolata dei volti dell’Italia plurale di oggi.
[Il 7 Luglio, all’interno del Festival TimVision Floating Theatre – Summer Fest di Roma, sarà proiettato Il nero di Giovanni Vento]