Una lettura working class di “Selfie” di Agostino Ferrente.
In Italia sembra quasi impossibile parlare di alcuni argomenti in maniera lucida e fuori da luoghi comuni. Per esempio i quartieri di periferia sono sempre l’ambientazione di narrazioni distopiche in cui eserciti di criminali sottoproletari si muovono in scenari degradati e abbandonati a sé stessi, e gli adolescenti che li abitano sono imprigionati nella retorica della criminalità à la Gomorra. Immagini da cartolina dell’orrore che con rappresentazioni folkloristiche sembrano attribuire le cause di ogni male a devianze antropologiche. Agostino Ferrente, col documentario Selfie, dimostra invece che è possibile raccontare le periferie fuori dagli stereotipi. La sua maestria è farlo capovolgendo lo strumento egotista e solipsista per eccellenza dei nostri tempi, il selfie, volgendolo in autonarrazione emancipatoria e presa di parola.
Il film è girato dai protagonisti Pietro e Alessandro, attori non professionisti, con la camera di un cellulare costantemente rivolto verso loro stessi nella postura del selfie. Abitano nel rione Traiano, quartiere povero e periferico di Napoli, ed erano amici di Davide Bifolco, sedicenne incensurato ucciso nel 2014 da un colpo di pistola esploso da un carabiniere dopo un inseguimento iniziato perché, con altri due amici su di un motorino, non si era fermato all’alt. All’epoca delle riprese hanno sedici anni – la stessa età che aveva Davide – e dopo aver abbandonato la scuola passano le giornate lavorando come barista Alessandro, e cercando lavoro come barbiere Pietro. Girato nell’estate del 2017, in una calda desolazione urbana che rende ancora più tangibile lo scorrere delle settimane, è un racconto in presa diretta della routine fatta di noia, tempo vuoto e fatica, di chi nasce e cresce in un contesto urbano marginale.
Alessandro e Pietro lavorano, o provano a farlo, anche per sfuggire alla criminalità e allo spaccio come vie d’uscita a un’assenza di prospettive. Ma il loro non è un racconto di eroi esemplari e lieto fine. né di buoni selvaggi che danno l’esempio ma sanno restare al proprio posto. I due – che nonostante siano sempre stati seguiti da Ferrente hanno avuto carta bianca nello scegliere le scene con cui costruire la storia del loro territorio – esprimono una critica a un paese che, non avendo reale interesse a risolvere problematiche sociali, quando non può nascondere la marginalità non fa che stereotiparla per anestetizzarla.
Il film non manca di raccontare la complessità del rione (e attraverso di esso di periferie e province in generale) diversamente dalla retorica politica semplicistica sia della destra che della sinistra istituzionale – e del discorso giornalistico degli intellettuali vicini a quegli ambienti – la cui costruzione di immaginari degradati serve a creare confini con cui separare un “noi” fatto di civiltà, legalità e decoro, e un “loro” fatto di corruzione, criminalità, illegalità. Una divisione atta a giustificare una frattura presentata come culturale ma in realtà funzionale al nasconderne una più profonda e strutturale, di classe. La tendenza a dipingere le marginalità sociali solo come sacche di illegalità e devianza, da gestire con misure d’eccezione e interventi straordinari, ne nasconde le cause sistemiche, fortemente materiali: la mancata redistribuzione delle ricchezze (non solo fra centro e periferia ma tra le classi sociali); i tagli al welfare, ai trasporti e ai servizi pubblici (non ultima l’istruzione, di ogni ordine e grado); le speculazioni urbanistiche e il sacco delle città, viste come fonte principale di estrazione di profitto; la piena integrazione della criminalità organizzata negli ingranaggi del neoliberismo; le mancate politiche di inclusione.
Di volta in volta il discorso pubblico addita sempre nuove periferie, non più solo urbanistiche ma sociali: prima Napoli – o il sud in generale – dipinta come terra di conquista della criminalità; poi a Roma Tor Pignattara è la Molenbeek d’Italia covo di terroristi islamici, o Tor Bella Monaca l’incubatore del germe razzista; poi le periferie di Milano sono dure e turbolente fucine di trapper assetati di riscatto (ma anche di soldi, bei vestiti, sfarzo), e via di seguito. Un atteggiamento quasi coloniale con cui l’establishment politico può rassicurare il proprio elettorato di riferimento – le fasce sociali medio-alte e alte – di far parte del “noi”, veicolando l’idea che i problemi della società dei “loro” debbano essere trattati in maniera emergenziale, dall’alto, senza processi di partecipazione e inclusione. Interventi come il controllo militare del territorio che spesso portano a epiloghi come l’uccisione di Davide Bifolco.
La forza di Selfie sta nel mostrare invece la spiazzante normalità di chi abita questi luoghi e la loro piena facoltà di prendere parola. Il film è composto quasi interamente dalle riprese effettuate col telefono, con solo due tipi di eccezioni: alcune registrazioni delle telecamere di sicurezza che invadono sempre più le città, tra cui quella installata fuori la sala da biliardo frequentata da Davide e i suoi amici, che la sera della sua uccisione filma l’entrata nel locale di uno dei carabinieri della pattuglia; e alcune interviste a ragazzi e ragazze del quartiere che in una specie di casting raccontano le proprie vite come se dovessero convincere il regista a essere scritturati. Per il resto è lo schermo del cellulare a condurci per le strade, in un controcanto continuo tra le «cose belle» volute da Alessandro – per mostrare che c’è altro oltre alla narrazione criminale – e le «cose brutte» volute da Pietro – per denunciare la marginalità sociale –, su cui avranno modo di scontrarsi discutendo di cosa filmare.
Raccontando senza moralismi le storie degli abitanti di Traiano Selfie mostra una verità profonda su cosa vuol dire vivere in un quartiere povero della periferia di Napoli. Protagonista collettivo del film infatti è l’intero rione. Alessandro e Pietro vi si orientano come pesci nel mare e attraverso i loro occhi – traslati nella camera del telefono – ci mostrano con onestà non scevra di delicatezza situazioni quotidiane intrise tanto di difficoltà quanto di profondo affetto e solidarietà. Le «cose belle», come la scena in cui un padre uscito dal carcere regala una serenata in stile napoletano alla figlia poco meno che adolescente (una delle ragazze dei casting), felice e commossa; o andare a trovare la famiglia di Davide, parlare con loro di cosa successe quella notte ripercorrendo le ingiustizie subite.
E poi le «cose brutte». Alcune raccontate durante le scene dei casting: la ragazza col padre carcerato immagina che con molta probabilità anche il suo futuro compagno avrà la stessa sorte; il ragazzo appassionato di armi invece tesse le lodi delle sue pistole preferite. Altre mostrate nelle scene girate con l’iPhone, per esempio l’intervista a uno spacciatore di zona che con voce e volto camuffati spiega come lì vi siano solo i pesci piccoli mentre quelli grossi vivono in centro.
È in questa dialettica tra cosa Alessandro e Pietro vorrebbero mostrare, ora che ne hanno l’occasione e possono finalmente scegliere, che esplodono le contraddizioni. Selfie non si arroga il compito di dare risposte facili a problemi complicati ma mostra – senza nascondere né stereotipare – e problematizza. Soprattutto fa scegliere ai protagonisti stessi di quella complessità come rappresentarla: senza risorse materiali e servizi è difficile uscire dalla marginalità, ma al tempo stesso coloro che la abitano non sono semplici figure senza agency dal destino già segnato di sgherri della mafia.
Selfie è anche un film working class che parla della vita di chi non ha quasi niente e dei rapporti di amicizia con cui resistere. In una sequenza i due, dopo una giornata passata al mare a Posillipo, devono salire una lunga scalinata per andare a prendere l’autobus con cui tornare a casa. Pietro, affetto da diabete e problemi di peso, dopo un po’ arranca non riuscendo ad andare avanti e quando si ferma dicendo all’amico di continuare senza di lui, Alessandro gli risponde: «non li abbandono i compagni». Una volta affrontata la salita Pietro gli domanda se potranno mai vivere a Posillipo, e se non loro almeno i loro figli o nipoti. Non succederà mai, «è meglio che non ci pensi a quello che non hai», è la risposta. Potrebbe sembrare rassegnazione, è invece una lucida lettura materialistica. Nella consapevolezza che un garzone di bar e un aspirante barbiere non potranno mai permettersi una casa a Posillipo c’è la coscienza di una classe la cui forza non sta nei beni posseduti ma nella solidarietà di quel «non abbandonare i compagni».
I due attori presi dalla strada non si fanno illusioni e anche dopo il successo di critica ottenuto dal film continuano le loro vite. Per esempio – veniamo a sapere a distanza di mesi dalle parole di Ferrente – non partecipano ai festival quando non possono saltare turni al lavoro. Non è la lezione moralista dei ragazzi “con la testa a posto”, né il messaggio edificante che solo facendosi il culo si ha successo. È la consapevolezza di appartenere a un mondo pieno di problemi, dei motivi storici e sociali per cui si proviene proprio da lì, del perché e difficile uscirne e dei legami sociali per affrontarlo.
Selfie è un’opera fortemente politica e niente affatto didascalica. Nonostante l’espediente del cellulare non è un film senza scelte registiche. È costruito su numerose dicotome: basso/alto, poveri/ricchi, pubblico/privato; enfatizzate dal linguaggio cinematografico, dalle scelte tecniche, dalle inquadrature audaci, dal sapiente montaggio. Ribaltando la canonica prospettiva dell’inquadratura cinematografica Ferrente ottiene l’effetto straniante – ma dagli effetti simbolici espressi nelle gerarchie compositive delle immagini – per cui tutto ciò che è mostrato non avviene di fronte ma accade alle spalle – o al massimo a fianco – dei due protagonisti. Nella dialettica tra l’anoressia del selfie e la bulimia delle telecamere di sicurezza vi è la poetica di un regista che sceglie di fare un passo indietro lavorando in sordina, contrattando coi suoi attori-operatori ma rinunciando a ogni controllo sulla macchina da presa, valorizzando la loro presa di parola senza però abbandonarli mai.
Partendo dalla storia di Davide Bifolco, e con l’intuizione di raccontare i giovani e le periferie girando un film dal punto di vista del selfie, Ferrente demistifica la narrazione tossica degli adolescenti social e iperconnessi dando direttamente a loro la parola, mostrando senza alcuna retorica la natura di classe delle questioni economiche e sociali alla base dei problemi materiali delle periferie.