Nel chiuso dell’eremo di Spineto il Governo Letta si è ritrovato per esercitare quel rapporto tra potere politico e religiosità che caratterizza da tempo la nostra democrazia.
Col nome di Esercizi Spirituali si definisce una pratica religiosa introdotta da S. Ignazio di Loyola nei primi decenni del 1500.Ufficialmente approvata dalla Chiesa nel 1548, per la grande efficacia spirituale, essa fu subito adottata come mezzo di formazione di uomini del potere economico e politico.
(Elio Petri – Todo Modo)
Nel chiuso di un eremo, esponenti del potere politico ed economico si ritrovano per dedicarsi agli esercizi spirituali e fornire così al Paese un’immagine coesa e al contempo penitente, ascoltando le richieste di moralizzazione che sempre più insistentemente provengono dall’opinione pubblica. Non si tratta del weekend appena concluso, ma del 1974 e del 1976.
L’eremo è quello di Zafer, i protagonisti sono (presumibilmente) membri della Democrazia Cristiana e gli ideatori di questo ritiro sono Leonardo Sciascia ed Elio Petri. I due Todo Modo, romanzo e film, che in questi giorni stanno tornando argomento di dibattito, descrivono con insuperata maestria le strette interconnessioni tra l’esercizio del potere e il ricorso ad alcune tecniche di matrice cattolica.
Certamente, i quasi quarant’anni che ci separano da questi due testi impongono una valutazione aggiornata dell’effettiva efficacia delle pratiche fondate dalla pastorale cristiana per la costruzione di un immaginario quotidiano e di un universo valoriale di riferimento; eppure, alcune spie ed indizi sembrano concorrere a segnalare la prossimità tra il presente e quegli anni di messa in crisi della dinamiche governative ed amministrative basate sull’esplicito richiamo ai valori cattolici.
Con forse troppo esibito cinismo da parte di certi commentatori, la morte di Giulio Andreotti e la nascita di un governo che pare riempire lo spazio lasciato vuoto più di vent’anni fa dallo scioglimento della Democrazia Cristiana sono stati interpretati come un passaggio di consegne, la necessità di porre fine a una stagione politica a forte tinte entropiche che riporti l’ordine (più che altro simbolico) perduto.
Al di là delle contingenze e delle coincidenze, appare innegabile la serie di rotture con la normalità sociale che hanno caratterizzato i primi mesi del 2013, dall’abdicazione papale all’irruzione di un nuovo soggetto politico che rompe un bipolarismo di fatto sempre presente nella vita parlamentare – e ancor più nella visione del mondo – italiana: è comprensibile dunque come il ripristino di una struttura più consona alle consuetudini nazionali costituisca un obbiettivo per taluni improrogabile.
Di fronte alle difficoltà e alle divergenze, sarà sicuramente sembrato inevitabile al nuovo Presidente del Consiglio adottare degli accorgimenti per rafforzare l’esile coesione della sua eterogenea compagine: il ritiro con tutti i ministri nell’Abbazia di Spineto è, non casualmente, il primo di questi atti. Dietro all’espressione giovanilistico-sportiva “bisogna fare spogliatoio”, in linea con il decadimento del discorso politico della Seconda Repubblica, si affaccia una dinamica antica ed evidentemente mai sopita: il rapporto che intercorre tra teologia e politica.
All’interno delle teorie dello Stato, l’esistenza di una teologia politica è stata definita lapidariamente da Carl Schmitt con la famosa affermazione che «tutti i concetti decisivi della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati»[1].
Non si tratta, come da ultimo ricorda Massimo Cacciari, di una semplice permuta di nozioni che migrano da una sfera religiosa a una politica, ma più in profondità di una consustanziale dimensione politica e governamentale inscritta all’interno della teologia cristiana che rende effettive le diverse forme e pratiche di esercizio del potere nelle società occidentali[2].
L’ampiezza della definizione schmittiana può così essere compresa, sottolinea Giorgio Agamben, solo se si intende la secolarizzazione come una segnatura, ovvero come una trasmigrazione fra domini che mantiene però inalterate le caratteristiche originarie dell’ambito iniziale[3]: da questo punto di vista, l’influenza della Chiesa di Roma sulla vita quotidiana di una società secolarizzata come la nostra non dovrebbe destare il minimo stupore, dato che ne è una logica conseguenza.
L’attualità di tale paradigma teologico-politico all’opera nella contemporaneità è segnalato da crescenti pubblicazioni e dibattiti, che coinvolgono anche pensatori non immediatamente riconducibili a tale impostazione, si pensi al recente “Almanacco di Filosofia” della rivista Micromega che ospita uno scritto di Jürgen Habermas relativo a tale questione. Ma da un punto di vista più empirico, è sufficiente porre attenzione alla diffusione del momento confessionale nei programmi televisivi, modellato esattamente sul dispositivo di matrice cattolica, e più in generale al continuo richiamo ad un’etica del sé impostato su una verità interiore, il famigerato “essere (o rimanere) se stessi”, così come al rinvio a temi evangelici codificati per allestire uno scenario di senso intelligibile e ideologicamente orientato.
La particolarità degli esercizi spirituali, come il film di Petri si premunisce di dichiarare sin dal principio, consiste nella loro virtualmente infinita reiterabilità e trasmissibilità. Già le analisi di Roland Barthes avevano messo in luce la contemporanea presenza di quattro livelli di efficacia all’interno del manuale scritto da Ignazio di Loyola[4], ma la loro inclusione entro la sfera della gestione del potere determina una continuità immutabile che orienta la prassi di governo secondo una visione escatologica di ascendenza paolina, con tutte le conseguenze sulla concezione del tempo che tale filosofia della storia si porta appresso (qui una riconsiderazione del concetto di “minore dei mali possibili”).
Del resto, cosa indicano le parole di Giulio Andreotti sulla necessità del Male per perseguire il Bene che Paolo Sorrentino fa pronunciare a Toni Servillo nella famosa scena confessionale de Il Divo, se non l’indefinita dilatazione dell’elemento catecontico – il potere che trattiene – che ritarda il Giudizio finale?[5] «La trasformazione della visione del mondo e la metamorfosi dell’essere» che questi esercizi spirituali intendono realizzare, fornisce loro «un valore non solo morale, ma esistenziale»[6]: modellare la propria soggettività in conformità con una Verità interiore – benché non conosciuta aprioristicamente – diviene così il tratto precipuo della costituzione del soggetto nella tradizione cristiana, che apre ad un’ultima interessante conseguenza. Dilatazione del tempo dell’attesa, conoscenza delle soggettività individuali, reiterazione continua dell’insegnamento divino tramite pratiche codificate: la delineazione di quanto Michel Foucault ha chiamato “potere pastorale” si presenta con straordinaria chiarezza, integrandosi con la sua effettiva azione in bilico tra sfera religiosa e politica.
Identificazione analitica, assoggettamento, soggettivazione: ecco ciò che caratterizza le procedure di individualizzazione che saranno effettivamente messe in opera dal pastorato cristiano e dalle sue istituzioni. È tutta la storia delle procedure di individualizzazione umana in Occidente a essere mobilitata dalla storia del pastorato. Diciamo pure che è la storia del soggetto. […] Un soggetto assoggettato attraverso reti ininterrotte di obbedienza e soggettivato estraendo da lui stesso la verità che gli viene imposta. Mi sembra quindi che siamo di fronte alla costituzione del soggetto occidentale moderno, che rende senza dubbio il pastorato uno dei momenti decisivi nella storia del potere nelle società occidentali[7].
Indipendentemente dalla natura della figura posta a capo di un esecutivo, almeno in Italia, la sopravvivenza di un dispositivo teologico-politico si presenta come un dato – più che problematico – ineluttabile. La dimensione “pastorale” del potere ne diviene l’espressione compiuta, «primo incunabolo genealogico del biopotere»[8] che informa tanto quest’ultimo quanto il dispositivo di sovranità che, secondo alcune teorie politiche, ne dovrebbe costituire l’antitesi. Del resto, Alessandro Sallusti poteva solo qualche settimana fa accogliere con favore la proposta di candidare alla Presidenza della Repubblica Franco Marini, in quanto “pastore della politica”.
La scampagnata con pernottamento del Governo Letta tra le colline della Val d’Orcia si inserisce in una perfetta linea di continuità con questo quadro provato a delineare in termini molto succinti: come atto di (ri)fondazione di una nuova Democrazia Cristiana, non poteva essere più emblematico. Benché numerosi episodi degli anni passati siano riconducibili a tale schema interpretativo, la scelta di un luogo che fa della propria predisposizione ascetica una peculiarità costituisce un elemento dirimente per comprendere la specificità della riattivazione del circuito teologico-politico messo in opera da questa gita domenicale.
Eppure, dovremmo forse essere grati a Enrico Letta e la sua volontà di pacificazione, Benedetto XVI e il suo gesto epocale, i parlamentari PDL e la loro occupazione della scalinata del Tribunale di Milano: questa prima parte di 2013, infatti, ci ha ricordato ancora una volta la mirabile veggenza di cui dispone il cinema, la sua capacità di cogliere il senso del reale e al contempo donare senso alla realtà.
Note
[1] Carl Schmitt, Le categorie del «Politico», Il Mulino, Bologna 1972, p. 49.
[2] Massimo Cacciari, Il potere che frena, Adelphi, Milano 2013, p. 12.
[3] Giorgio Agamben, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo. Homo sacer. Vol 2/2, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 16.
[4] Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Einaudi, Torino, 2001.
[5] Su questo tema, cfr. i recenti libri di Giorgio Agamben, Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Laterza, Roma-Bari, 2013, e di Massimo Cacciari, Il potere che frena, cit.
[6] Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino, 2005, p. 70.
[7] Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France 1977-1978, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 141.
[8] Roberto Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004, p. 35.
[9] Giorgio Agamben, Il Regno e la Gloria, cit., p. 10, che a sua volta riprende Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo e La Società dello spettacolo, con una nota di Giorgio Agamben, SugarCo, Milano 1990. Si rimanda inoltre alle lungimiranti analisi di Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 2000, a proposito del rischio di un’estetizzazione della politica propria del fascismo. Sulla figura specifica di Silvio Berlusconi, cfr. Giuliana Parotto, a cura di, Sacra officina. La simbolica religiosa di Silvio Berlusconi, Franco Angeli, Milano, 2007.