In arrivo un oggetto narrativo di Wu Ming 1 che fermerà in tutte le stazioni delle nocività italiane: debito pubblico, privatizzazioni, repressione di Stato.
Ma che farà anche vibrare la poesia della resistenza, tra neocatari e operai valligiani, cattolici del dissenso e donne sulle barricate da una vita. Non sarà una lettura breve – a sarà düra! – ma dopo forse guarderete al reportage narrativo (e alle grandi opere inutili) con occhi diversi. Di seguito una segnalazione di “Un viaggio che non promettiamo breve. Venticinque anni di lotte no Tav” (Einaudi Stile Libero) nel giorno in cui esce in libreria, attraverso dei brevi commenti epistolari rivolti all’autore.
Ho ricevuto la nuova opera di Wu Ming 1 a tronconi, via via che lui finiva di dare ordine al suo zibaldone di appunti, strutturandolo in un testo narrativo. E mentre Wu Ming 1 plasmava il suo libro io, come altri lettori-cavia sparsi in tutta Italia, leggevo quelle pagine e gli inviavo rapidi feedback via mail. Col suo consenso, riporto alcuni dei miei commenti: estemporanee impressioni di lettura che non possono essere considerate un’analisi strutturata ma che spero vogliano mettere il lettore in viaggio verso un libro che può diventare una pietra miliare nei percorsi di ibridazione della narrativa.
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Compagno, ho finito ieri sera la prima parte che ho trovato superba. Inchiesta, narrativa, memoriale di lotta… sconfini pure nel fantasy con quella cosa dell’Entità che davvero è superlativa… funziona, funziona di brutto. L’Entità è il colpo che rovescia il banco. La prima analogia che mi è venuta in mente è Rulli di tamburo per Rancas di Manuel Scorza con la sua recinzione in perenne movimento montano… e dal realismo magico tracimi nel materialismo storico dell’analisi delle enclosures e dell’accumulazione originaria delle terre comuni.
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Oggi mi stampo la seconda parte, l’Ouverture l’avevo già letta… credo che sarà un libro che lascerà il segno, per quel che leggo finora. Non solo per la questione No Tav, che cammina anche senza le nostre parole, ma per la forma con cui hai raccontato un evento che altri chiuderebbero nella cronaca o nel saggio. Mi è venuta in mente anche l’opera che l’antropologo David Graeber ha scritto sul movimento Occupy WS. Ma tu tendi l’arco oltre l’etnografia del conflitto e il reportage testimoniale, ti proietti nel fantasy e nel weird e non ti danno le vertigini neanche certe costruzioni poetiche, ritmate, in cui la sostanza dell’espressione diventa l’espressione stessa, per dirla quasi alla maniera di Jakobson.
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Compagno, le tue pagine mi stanno smuovendo una serie di ricordi, come il piacere di ascoltare le canzoni del punk esistenzialista e montanaro dei Kina (Se ho vinto, se ho perso, splendido disco che conservo in vinile e che dà il titolo a un capitolo) o di leggere i libri di Chiara Sasso (notevole la sua inchiesta di storia orale sulle donne che lavoravano l’asbesto a Grugliasco, Digerire l’amianto).
Affascinante la ricostruzione della genealogia dei conflitti sociali in Valle, tra operaismo e cattolici del dissenso (e valdesi, e protestanti…). Una piccola controprova: ho vissuto anch’io, in Alta Maremma, in una zona di forte operaismo e con una piccola radicalizzazione di cattolici del dissenso e di attivisti della non violenza alla Capitini. Perché dalle mie parti non è mai uscito quasi nulla di rottura negli ultimi quarant’anni? Credo abbia senso quel che scrivi tu nell’ouverture citando soprattutto Simona Baldanzi: il vecchio Partito, istituzionalizzando le lotte, faceva da valvola di contenimento dei conflitti sociali. Queste pagine mi hanno molto colpito, bellissimo lo spoglio narrativo della rivista Dialogo in valle).
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Mi sono appuntato questa cosa che è molto forte. Cospirare: respirare assieme. Compagni: coloro che mangiano lo stesso pane. Etimologia della convivialità in lotta.
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L’incipit della terza parte è poetico. Mi piace come alterni e leghi le pagine di inchiesta, lo spoglio dei materiali bibliografici, le interviste. In particolare è forte il tuo debito con Luca Rastello, la cui scomparsa è terribile, per la qualità e la radicalità della sua scrittura. Scrivi sulle pagine di Rastello come le api costruiscono sui fogli cerei che l’apicoltore ha già preparato, le sue righe sono le matrici su cui inanelli le tue divagazioni, la dérive critica che demolisce il progetto dell’Alta Velocità.
Chiudi poi col tuo reportage da Reggio Emilia, che considero esemplare del tipo di lavoro narrativo che bisogna fare in futuro.
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Una riflessione che riguarda tutto quel che ho letto finora: non è un libro solista di un membro del collettivo Wu Ming. È ancora un libro collettivo, corale, polifonico, scritto assieme ai valligiani e ai Giapster. Hai tra le mani un mixer e di volta in volta apri il microfono a diversi interlocutori. Ti infili nella prospettiva del personaggio che è chiamato alla ribalta del racconto e tu come autore sembri rimanere sullo sfondo, umile tessitore di un progetto di scrittura corale costruito inanellando storie collettive nella cornice della narrazione. Questa è la forza del canone Wu Ming.
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Compagno, la lettura procede come un torrente di montagna, salta da una roccia all’altra senza momenti di stanchezza. Notevole l’escursione weird con Turi Vaccaro contro le tre bestie apocalittiche che fa venire in mente Bosch e proietta il libro oltre l’orbita della non fiction.
Quando affronti il caso De Luca, mi è venuta in mente l’etimologia della parola sabotaggio. Ne ho scritto in un articolo in cui prendevo posizione a sostegno dello scrittore napoletano a partire dal pamphlet sul sabotaggio di un anarcosindacalista francese del secolo scorso. Ecco: «Ad esempio, il termine sabotaggio può essere interpretato secondo la spiegazione di Pouget di “zoccolata”, denotazione che comunque non ha un valore necessariamente distruttivo e tanto meno terroristico. Ma l’etimo rimanda in realtà alla pratica degli operai francesi ̶ che spesso indossavano degli zoccoli tradizionali, chiamati sabot ̶ di infilare questi stessi zoccoli nelle macchine in funzione per bloccare la produzione o quanto meno rallentarla, di modo da riprendere fiato e lavorare con ritmi meno accelerati. Da questo sabot deriva il termine sabotaggio. Da uno zoccolo che si infila al contrario del meccanismo. Con un valore ostruttivo, più che distruttivo». Il resto è qui.
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Ho finito. Complimenti davvero, è un grande lavoro. Lunghi anni di fatica per questo libro, ma la talpa della tua critica scava meglio di quella meccanica dei demolitori delle montagne. E al contrario di quella, non distrugge gli ecosistemi; non alimenta il malaffare e gli intrallazzi ma li denuncia e li mette a nudo. Dovrò rileggerlo tutto d’un fiato, perché la lettura a tronconi ha l’inconveniente di sottrarre campo a una visione grandangolare. Eppure son certo che davvero nessuno ha scritto una cosa del genere sui No Tav. E rimarrà un esempio di come si possa fare inchiesta con oggetti narrativi del Quinto Tipo.
Chiudo allargando la prospettiva. Da qualche parte, in una tua mail, scrivevi:
«Io spero, col mio libro, di far capire quello che i valsusini sanno benissimo: di essere, se non tout court “la classe”, quantomeno eredi del movimento operaio, delle lotte di classe del XX secolo. Una delle tesi del libro è che il movimento No Tav sia “il movimento operaio a cielo aperto”».
Ecco. Volevo dirti questo: ci sei riuscito. E serve, servirà per il futuro, il tuo libro. Forse non serve in Val di Susa, dove sanno fare le cose benissimo anche senza di noi. Serve al di fuori della valle. C’è un bisogno enorme di riconoscersi come eredi del movimento operaio, forse l’ultimo movimento di opposizione di classe che ha vinto decenni fa qualcosa in Italia, per spingere le lotte in avanti, per ritrovare coscienza e consapevolezza, per percepirsi parte di un movimento che cerca di trasformare la realtà, di migliorare il mondo, di abolire le nocività del presente. La palla dai valsusini va adesso ai precari, al Quinto Stato di lavoratori sfruttati dei nostri tempi: dai ricercatori ai facchini della logistica, dalle partite iva simulate agli interinali dei lavori agricoli stagionali, dai voucheristi ai working poor. Non si può fare come in Val di Susa, l’hai spiegato bene. Ma si può imparare a tessere legami col passato e a evitare le spaccature tra buoni e cattivi, tra legali e illegali, tra cognitivi e manuali, tra italiani e stranieri. Per ripensare in forma conflittuale le vere divisioni: quelle della distribuzione della ricchezza e del lavoro. E da qui ripartire. Il capitale ci divide per confondere le acque, le lotte unificano. If the Kids are United…