Un giorno e 29 anni a Bhopal (Prima parte)

A 29 anni dalla strage di Bhopal, una delle peggiori catastrofi industriali della storia, il reportage di Tommaso Sbriccoli e le foto di Daniela Neri ci raccontano la marcia delle vittime del gas.

Qui la seconda parte.

 

Nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1984, l’esplosione di un serbatoio contenente una sostanza utilizzata per la produzione di pesticidi, il MIC (isocianato di metile), nell’impianto di produzione di Bhopal della Union Carbide Corporation (UCC), causò una delle peggiori catastrofi industriali della storia. Il governo del Madhya Pradesh, stato indiano di cui Bhopal è capitale, ha stabilito in 3787 il numero ufficiale di morti collegate all’evento nei primi giorni.

Tuttavia, altre stime indipendenti parlano di una cifra che si aggira tra gli otto mila e i quindici mila morti. Le persone colpite ammontano invece a centinaia di migliaia. Il numero di decessi dovuti all’incidente negli anni successivi si aggira, secondo fonti indipendenti, attorno ai 30000. Circa 15000 per il governo del Madhya Pradesh, e solo 5295 per lo Stato Indiano. I risarcimenti, di poche centinaia di dollari, hanno raggiunto solo una parte delle persone effettivamente colpite dal MIC.

La fabbrica, circondata principalmente da quartieri e slum abitati da famiglie povere di operai e manovali immigrati dalle campagne, aveva dato da tempo avvisaglie di problemi strutturali e di sicurezza. Segnali che non sono stati ascoltati dalle autorità, la cui negligenza ha portato a una tragedia le cui conseguenze si fanno sentire ancora oggi.

A 29 anni di distanza, infatti, le persone continuano a morire, e chi è morto continua a rimanere senza giustizia. La seconda generazione di vittime, quelli nati da chi il gas lo ha respirato (“mangiato”, si dice qui), manifestano malattie e problemi fisici di ogni tipo, ed il tutto è aggravato dalla mancata bonifica del terreno dove l’incidente è avvenuto. Le sostanze tossiche fuoriuscite in “quella notte nera”, come la chiamano gli abitanti di Bhopal, si sono infatti infiltrate nella falda acquifera, continuando ad avvelenare nel tempo i residenti dei quartieri circostanti la fabbrica, centellinando morte da un serbatoio all’apparenza vuoto.

La mattina del 3 dicembre 2013, circa un mese fa, una folla di uomini e donne vittime del gas, attivisti, giornalisti e simpatizzanti si è data appuntamento davanti ad un cinema di Bhopal per ricordare, con una marcia per le strade della città, la tragedia di 29 anni fa e per chiedere giustizia e una vita dignitosa.

Ciò che segue è una cronaca della giornata, che cerca in parte di rendere conto, oltre che della marcia, anche delle rivendicazioni delle vittime e delle associazioni che le rappresentano, delle loro vite e di 29 anni di battaglie, vittorie e fallimenti. Lo fa viaggiando nel tempo, e spostandosi lateralmente verso le storie di alcune delle persone che marciavano assieme. Il tutto per mezzo di appunti personali, domande a vari partecipanti, storie di vita, e l’intervista a Satinath Sarangi, attivista e direttore della Sambhavna Trust Clinic, una delle organizzazioni più attive tra quelle che lavorano con e per le vittime dell’incidente della UCC.

3 Dicembre 2013. Ore 11.00. Davanti ad un cinema multisala di Bhopal. La partenza della marcia è prevista per le 11.30. Ancora quasi nessuno al concentramento. Solo una ventina di poliziotti.

Parlo con il loro responsabile, un “subinspector”, che mi offre un tè mentre mi racconta della sua carriera tra uccisioni di “banditi” e promozioni. C’è un furgoncino con casse e altoparlanti. Arrivano alcuni attivisti, che portano decine di piccoli cartelli con scritte in hindi e in inglese.

Incontro Rashida Bi, una delle due direttrici del Chingari Trust, un istituto che fornisce gratuitamente cure e terapie a bambini nati con deformazioni e malattie causate dall’incidente della UCC. Le dico che sul giornale di oggi c’erano molti articoli sull’anniversario della tragedia. Risponde che i giornalisti se ne occupano un giorno all’anno, poi se ne dimenticano. Se facessero il loro lavoro come si deve, forse il governo sarebbe costretto a rispondere alle loro richieste, inascoltate da 29 anni. Sulle elezioni appena avvenute, i cui risultati saranno resi pubblici l’8 dicembre, dice che non importa chi vince, i politici sono tutti ladri e finora i governi si sono alternati senza che nessuno facesse davvero qualcosa per loro.

Mentre parliamo arriva, issato su un carrello tirato da tre uomini, un pupazzo di carta pesta alto circa quattro metri, vestito da manager, con la coda e le corna da diavolo ed il corpo trafitto di chiodi. È destinato ad essere bruciato alla fine della manifestazione – come scritto nel programma della giornata distribuito nei giorni precedenti – proprio di fronte al muro di cinta di ciò che rimane della vecchia Union Carbide, acquisita nel 2001 dalla Multinazionale Dow Chemical Company (DOW). È verso quest’ultima, oltre che ai governi del Madhya Pradesh, dell’India e degli Stati Uniti, che sono ora dirette le rivendicazioni e le richieste di risarcimento delle associazioni delle vittime di Bhopal.

Satinath Sarangi: Quella di oggi è stata una manifestazione dei sopravvissuti al disastro di Bhopal e delle persone che ancora oggi stanno bevendo l’acqua di falda avvelenata senza sosta dagli scarti della UCC. La gente ha marciato nella città vecchia e alla fine ha bruciato il fantoccio della Dow Chemical, rappresentato in forma di diavolo delle multinazionali. Oltre a ciò, i sopravvissuti hanno presentato le loro richieste per il ventinovesimo anniversario, che riguardano il diritto ad avere giustizia e una vita dignitosa.

L’enorme figura è trafitta da chiodi come un cristo, ma su tutto il corpo come San Sebastiano ricoperto di frecce. Per la gente che ha marciato oggi esso rappresenta, a seconda di chi si interroga, ora Dow Bhai (fratello Dow), ora Warren Anderson.

Dow Bhai è un’espressione che si può riportare ad una sorta di inversione ironica del processo attraverso cui nell’India del nord una persona morta viene “divinizzata”. Mentre parenti defunti, infatti, possono ottenere un posto nel pantheon familiare, e vengono chiamati da quel momento in poi con termini specifici che indicano particolari categorie di spiriti (paliya, jhojhar, pari maji), in questo caso un’entità estranea e malvagia viene avvicinata e situata al proprio livello per mezzo dell’assegnazione di un attributo di familiarità (fratello), per poi poter essere eliminata.

Warren Anderson era invece il CEO della Union Carbide ai tempi della tragedia. Accusato di omicidio dalle autorità indiane, è fuggito dall’India dopo aver pagato una cauzione e non è più tornato. Mai presentatosi al processo che lo vede coinvolto come principale accusato della strage di Bhopal, su di lui pende una richiesta di estradizione, rigettata dagli Stati Uniti per “mancanza di prove”. È una delle persone più odiate dalle vittime di Bhopal, che vedono nella sua libertà e impunità la massima espressione della mancanza di giustizia che dall’inizio a oggi ha caratterizzato la loro vicenda esistenziale e giudiziaria. Uno degli slogan ripetuti durante la marcia era, ad esempio: “Cacciate la DOW dall’India, portateci Anderson a Bhopal”.

Satinath Sarangi: Il caso di Bhopal è come un’economia politica dell’India in bianco e nero. Se si guarda ai documenti, appare immediatamente chiaro come sia il governo dello stato che quello della federazione si siano mischiati in una sorta di “sacra collusione” con le multinazionali. Questa è essenzialmente la storia dell’India contemporanea, in cui i governi danno priorità agli investimenti stranieri, sacrificando la vita della gente comune. E tutto questo è molto chiaro alle persone, poiché fin dall’inizio hanno visto che il primo atto del governo non è stato quello di aiutare i sopravvissuti, ma quello di raccogliere i corpi dalle strade per trasportarli e gettarli di nascosto nel fiume Narmada, così da abbassare il conto totale delle morti. Fin dal primo giorno, quindi, le persone sono state testimoni di come i governi siano più interessati a difendere gli interessi delle multinazionali a scapito di quelli della gente. È stato un grande insegnamento politico, un’educazione che vale per ogni luogo.

Mentre per Satinath Sarangi i chiodi sul corpo del fantoccio rappresentavano le varie sconfitte che in questi anni la gente di Bhopal è riuscita a infliggere alla UCC e alla DOW, per molti dei partecipanti, sia che chiamassero il fantoccio Warren Anderson o Dow Bhai, essi stavano a indicare l’inizio di una violenza che doveva compiersi definitivamente alla fine della marcia, quando l’enorme effige sarebbe stata prima bruciata e quindi malmenata con i bastoni, oltre a passare attraverso una delle massime umiliazioni in India: essere schiaffeggiato con una scarpa.

Il diavolo era quindi una persona specifica (Anderson), o una multinazionale personificata e resa individuo (fratello Dow), che doveva passare attraverso una serie di atti di violenza che rappresentavano sia una punizione umana (schiaffi con la scarpa, bastonate), ma anche una punizione che solitamente si infligge al grande rappresentante trascendentale del male in India: il Rakshasa (demone) Ravan, nemico di Rama e da lui sconfitto, il cui fantoccio viene bruciato ogni anno nel giorno di Dussehra in migliaia di villaggi e città indiane.

Satinath Sarangi: Le persone chiedono che i funzionari della UCC vengano puniti, e che la DOW ripulisca l’acqua ed il terreno. Chiedono inoltre un adeguato risarcimento e adeguate cure mediche, oltre che progetti di reinserimento economico. I sopravvissuti ritengono responsabili del continuo disastro i governi dell’India e del Madhya Pradesh, ed anche quello degli Stati Uniti. Sostengono infatti che fu il governo degli Stati Uniti a finanziare la costruzione della fabbrica che è esplosa il 3 dicembre 1984. Al governo dell’India imputano la colpa di aver sottratto alle vittime un giusto risarcimento con il Bhopal Act. Quest’ultimo, infatti, ha stabilito che solo il governo indiano potesse fare causa alla compagnia chimica, ma dopo la sua approvazione il governo ha rivisto al ribasso il numero dei morti e delle persone colpite dal gas. Ad oggi, le persone hanno ottenuto solo 500 dollari di compensazione per gli effetti del gas, e 2000 dollari per la morte dei propri familiari.
Inoltre, ancora non viene fornito alle persone un adeguato trattamento medico, anche perché la UCC si rifiuta di fornire informazioni mediche che potrebbero servire ad identificare una cura appropriata. Oggi, molti sono malati anche a causa del fatto che assumono troppi medicinali, e ci sono ancora 150000 persone con malattie croniche. La cosa più preoccupante, poi, è che persino la generazione successiva all’incidente, le persone nate dai sopravvissuti, ha una lunga serie di problemi di salute, e ancora non sappiamo quando gli effetti del disastro causato dalla UCC si fermeranno.
Ciò che la gente di Bhopal sostiene, è che la lotta per la giustizia a Bhopal è la lotta contro i crimini delle multinazionali in tutto il mondo. È una lotta per la giustizia ovunque ci siano vittime dei crimini delle multinazionali e persone colpite dall’inquinamento industriale, che rovina la nostra salute e la nostra vita e colpisce in prospettiva le generazioni future. La lotta a Bhopal è la lotta per un mondo libero dai crimini delle multinazionali.

Payal – Marzo 2013

Dopo esserci fermati una mezz’ora ad osservare assieme ad una folla di indiani il combattimento violento di due tori (a detta di uno dei presenti a causa di una vacca), ci avviamo nella stradina che dai cancelli della UCC va verso il tempio e poi il passaggio a livello di Chola Road.

A metà del percorso, una bambina che aveva iniziato a seguire Daniela da un po’, lanciandole degli urlettini, riesce infine ad attirare la sua attenzione. Daniela la riconosce come una delle bambine del Chingari, che aveva anche fotografato e di cui avevamo la foto stampata nello zaino. Gliela diamo e lei si illumina, ride, ci indica casa sua. Le chiedo se vive là, se c’è sua madre, e sempre a gesti ci invita a seguirla. Corre, veloce, e si infila in una porta. All’interno un corridoio scuro. La seguiamo.

La casa è di quelle di poveri. Il corridoio è senza luce e sporco. Arriviamo all’ultima porta in fondo e dentro compare una stanza poco illuminata, piena di coperte e oggetti ammucchiati. Un letto mezzo occupato da panni. La madre ci invita ad accomodarci e mi presenta una sedia. Entriamo e ci sediamo, io sulla sedia, Daniela sul letto. Parlo con la donna.

La bambina si chiama Payal, ed è sorda e muta. Da due anni va al Chingari e sta migliorando, ha iniziato a dire alcune parole. Ha anche l’apparecchio acustico, e sembra che un poco le permetta di sentire. Ora non lo indossa perché tornata dall’istituto la madre glielo toglie per evitare che lo rovini giocando.

Daniela mostra a Payal tutte le foto dei bambini del Chingari che abbiamo con noi. Lei le guarda una ad una, talvolta sorride, altra volte gioisce nel riconoscere un’amica. Alla fine Daniela le fa altre foto dentro casa, lei abbraccia il fratello. Daniela a gesti cerca di farle capire che domani ci rivedremo al Chingari, lei risponde a gesti, sembra si capiscano, il fratello aiuta in questa comunicazione priva di parole. Ci alziamo per andare.

Mentre usciamo ci accorgiamo che la madre piange. Per la gioia forse, o per l’emozione di vedere la figlia che interagisce da sola con persone che vengono da fuori, che si capisce con gente con la quale anche lei ha difficoltà a farsi comprendere. O forse perché vede che altri le vogliono bene. Un pianto che ci lascia commossi.

Fuori facciamo altre foto, a Payal da sola, a lei con la madre, a lei con fratelli, sorelle e amici.

Un’altra donna mi avvicina. Il figlio di 4 anni non parla. Sente, ma non parla. Mi chiedono di visitarlo. Le spiego che non sono un dottore, ma che devono andare al Chingari dove, se hanno i requisiti, verranno ammessi.

Ovunque si vada si trovano in continuazione casi di bambini con problemi. Uno stillicidio di malattie, deformità, problemi sensoriali, una generazione ancora di vittime, totalmente innocenti, cui il gas è entrato nella vita ingannando il tempo, nascondendosi nei corpi delle persone più care, nell’acqua, nella terra in cui giocano e in cui avevano giocato anche i loro genitori.

Qui la seconda parte del reportage

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