Anamnesi di un sogno come fake news.
Il sogno diceva che David Lynch stava girando un film su Matteo Salvini. Impossibile ricordare di più. Solo questo rimane, come un lancio ANSA: “il maestro del cinema statunitense sta girando un film biografico sull’attuale Ministro degli interni”. Preso il caffè, si può iniziare a ragionare, si passa il sogno al setaccio, sperando di guadagnare la veglia.
Ma restiamo alla matrice onirica dei fatti, e proviamo a produrre un’anamnesi. È davvero possibile che Lynch voglia fare un film su Salvini? Forse ha letto l’articolo su Roberto Saviano pubblicato a inizio settembre sul New York Times ed è venuto a conoscenza di epiteti come “ministro della malavita” e “ministro dell’inferno”.
Solo allora, Lynch deve essersi incuriosito e deve aver pensato di farci qualcosa. Il suo è del resto un cinema che conosce bene il sentimento della paura e si muove nella malavita, nella mostruosità più spaventosa e capillare che c’è, cercando sempre di risalire, recuperare una sorta di “ragione” che non è comunque mai facilmente identificabile. Quantomeno, non dai protagonisti e dagli spettatori.
Ogni uomo di potere e ogni stagione politica hanno ricevuto una qualche forma di trattamento nel campo delle arti e della comunicazione visiva. Ma cosa farci con l’immagine di Matteo Salvini e con la forma specifica di gloria mediatica che, insieme ai responsabili del marketing della Lega, è stato capace di generare in pochissimi mesi? Come produrre effetti di straniamento a partire dalla sua figura, come invitare gli spettatori della gabbia mediatica a osservarlo altrimenti? A quale trattamento narrativo, figurativo, plastico sottoporla affinché possa avere luogo qualcosa di simile a una decostruzione del suo regime di efficacia? Come fare tutto questo all’interno di un dispositivo della comunicazione nel quale operano correntemente strategie capaci di incorporare a proprio vantaggio anche i venti opposti?
Del resto, lo sanno tutti, lo ripetono tutti: criticare Salvini sui social network e sulla scena mediatica è come dilettarsi nel lancio del boomerang.
Ecco allora che David Lynch entra in scena e decide di fare un film sull’attuale situazione politica italiana. Deve aver capito che c’è qualcosa nella figura politica di Salvini e nell’ideologia del Movimento 5 stelle che tocca molte corde della sua poetica cinematografica. In un certo senso, deve essersi detto, è come se l’intera XVIII legislatura si reggesse su basi lynchiane.
A Luigi Di Maio e a chi lo segue con convinzione, il mondo si esprime in forme tendenzialmente incomprensibili e comunque esoteriche, che vengono assunte come tracce manifeste di un complotto in atto da tempo e che si deve a tutti i costi smascherare. Tale atteggiamento, che caratterizza il Movimento fondato da Grillo e Casaleggio, sembra esprimere da principio una fascinazione metafisica – il mistero della “creazione” e l’impossibilità da parte della scienza di tenergli testa – che tuttavia si reifica in una caccia al colpevole e in una mitizzazione della funzione di vigilanza assunta da parte dei singoli utenti del Web: come se bastasse piantonare la società per realizzare la giustizia e come se fosse sufficiente tenere aperti gli occhi notte e giorno per poter penetrare il “mistero”.
In tale postura, Lynch deve aver riconosciuto lo slancio genuino e l’ingenuità profonda che anima i detective – con o senza stella sul petto – dei suoi film: Velluto Blu (1986), INLAND EMPIRE (2006) e, soprattutto, Twin Peaks (1990-2017). Si pensi all’incompatibilità tra una concezione del mondo improntata allo scetticismo radicale – che si può rinvenire, almeno al livello retorico, in alcune opere fondative del Movimento 5 Stelle – e la tentazione di adottare sempre e comunque tecniche poliziesche o interpretative alla Sherlock Holmes 3.0; oppure, l’illusione che la vastità del mistero (sul quale pure affonda almeno in parte le proprie basi il Movimento) possa essere riconcepito e circoscritto nei termini di un segreto al quale l’intelligenza collettiva del Web potrebbe trovare soluzione. Si tratta insomma di una battaglia tra superficie e profondità, dove mentre la prima cerca di misurare, controllare e ripartire gli spazi, la seconda provoca continui smottamenti, vuoti inaspettati, repentini cambi di paradigma.
In tutto questo, il momento che forse David Lynch aspetta con maggiore ironia e cinismo è quello in cui – a fine serata o in qualche vuoto d’aria della giornata – l’ormai esausto Capo politico del Movimento si concede il lusso di una cesta di donut, seduto a capotavola nella decision room del Ministero del lavoro.
Tutt’altra cosa è l’interesse di Lynch nei confronti di Salvini. Nonostante il ministero che occupa, la sua non è un’attitudine investigativa, né esprime funzioni di controllo. Quanto alla dimensione misterica del mondo che spinge i Pentastellati a osservare incantati l’immagine della Via Lattea sul desktop del Mac, Salvini se ne infischia. I vecchi riti celtici ereditati da Umberto Bossi sono abbandonati a se stessi, folklore pre-digitale.
Quella che si esprime nella sua immagine mediatica è una forza paradossale: tanto creativa quanto profondamente reattiva. L’idea di Nazione che pretende di amministrare e “difendere” non trova corrispondenza in nessun dato antropologico, sociologico o più genericamente scientifico. I problemi ai quali offre energicamente e violentemente risposta non emergono con altrettanta evidenza dalle inchieste giornalistiche indipendenti dedicate agli stessi argomenti. La sua determinazione e i suoi atti in relazione a specifiche cause – assunte a garanzia del “bene nazionale” – si pongono in conflitto con le pertinenze di altri ministeri e trovano smentita da parte di altri poteri dello Stato. I rapporti di causa effetto che stabilisce tra eventi distinti e distanti e sui quali fonda la sua legittimazione – es. l’immigrazione e la disoccupazione – sono tutt’altro che riscontrabili. In nome di tali caratteristiche, l’immagine di Salvini sembra determinarsi all’insegna della creatività: ministro degli interni che garantisce l’ordine di una realtà interamente corrispondente a una sua costruzione.
Il binomio, che è stato da più parti rilevato nel dibattito giornalistico, tra la figura Salvini e il sentimento della paura si determina dunque in primo luogo nella sua capacità di “federare paure”, stabilendo legami di continuità o causa effetto tra fatti o fatticci in buona parte sconnessi tra loro, proponendosi come colui che solo può rispondere a ciò che, di fatto, ma implicitamente, ha generato. L’attuale fase del suo successo costituisce in tal senso la migliore realizzazione concreta della teoria della paura sviluppata in un recente libro di Marc Augè, dove si sostiene l’esaurimento della funzione antropologica della paura, a causa della sua strumentalizzazione politica.
Ma ciò che più interessa a Lynch di Salvini pare essere il carattere profondamente reattivo della sua immagine mediatica. È vero, il Ministro degli interni mette insieme pezzi, costruisce mondi mostruosi e si adopera per ricompattare, riformattare il reale, ricondurlo a un (per il momento implicito, ma non inespresso) principio d’ordine. Ma in tanto muoversi, in tanta dinamica di ruspe in azione, mascelle in movimento alle sagre del verace e bacioni ai rosiconi, il Ministro degli interni si caratterizza per una potenza di saturazione dei canali di comunicazione senza pari.
Certo, già la figura di Berlusconi si era caratterizzata per l’iper-esposizione e il trasformismo mediatico, ma Salvini è prima di tutto interessato a saturare il discorso e lo fa affrontando il paradosso di tenere insieme i contrari: incarna lo spirito di deterritorializzazione (sfiorando l’ubiquità nel selfie) e rivendica la territorializzazione come radicamento e primato (lo stock di magliette con scritto qualsiasi toponimo della Penisola).
Di fronte alla propaganda politica nostrana, David Lynch si spinge dove i registi italiani sembrano avere, per il momento, poche chances di arrivare. Non si limita a smascherare il fatto che la popolarità di Salvini si basa sull’utilizzo strategico del sentimento della paura (per quello non servirebbe neppure scomodare qualche regista, basterebbe una trasmissione di Santoro). Lynch mostra a tutti che Salvini stesso – e non un altro – è il volto stesso di quella paura che provano: Salvini – beninteso – in quanto figura politica, pacchetto comunicativo multipiattaforma e non in quanto “uomo”. È del resto questo il punto in cui scivolano e non attecchiscono i tentativi di attaccare il leader della Lega e Ministro degli interni attraverso appelli come “Se questo è un uomo”.
Il regista americano è forse l’unico ad aver capito che il dispositivo di comunicazione di Matteo Salvini – la cosiddetta “Bestia”, della quale da giorni si parla in continuazione sul Web – non è una semplice variante degradante delle forme comunicative degli uomini politici che lo hanno preceduto. Salvini non si accontenta di immettere sul Web e sui media una quantità enorme di contenuti corrispondenti alla sua immagine, ma vuole danneggiare le condizioni di circolazione stessa delle informazioni. Siamo qui vicini a qualcosa di simile a ciò che Richard Grusin, riferendosi alla comunicazione di Donald Trump, ha definito “mediazione malvagia”. Come scrive lo studioso americano, per comprendere tale livello di azione della comunicazione politica occorre «Concentrarci non sul contenuto rappresentazionale delle sue molteplici mediazioni, ma sui meccanismi infrastrutturali della mediazione stessa». E, ancora, prosegue, l’espressione «“Media malvagi” non intende riferirsi alla cattiveria morale, sociale o politica di cui i media sono spesso strumento, ma all’agentività distruttiva insita nei media».
Forse, il film di Lynch su Salvini si rivelerà una fake news (comunque troppo passeggera la gloria del leader della Lega per meritare veramente l’attenzione di un maestro del cinema e delle arti contemporanee). Eppure è bello immaginare per un’ultima volta il regista americano seduto nel suo studio: disegna l’immagine del leader della Lega sul foglio bianco e ne rielabora l’immagine con Photoshop e After Effects: lo scontorna male e lo sovraespone, oltre la sua stessa saturazione. Ci vuole la sensibilità triviale di Lynch per buttare fuori carreggiata la trivialità della “Bestia”. Vedendolo così – un’immagine elettronica e immonda, un paccotto – salta agli occhi in maniera lampante il suo legame con Killer BOB, l’antagonista di Twin Peaks. Killer BOB, non soltanto un uomo cattivo, privo di scrupoli morali e trasformista, letteralmente resistente a tutto. Ma anche e soprattutto una figura di transito, capace di attraversare le reti infrastrutturali e i formati dell’immagine per insinuare il terrore fin dentro la casa dello spettatore, come un germe che attacca il linguaggio e le altre forme di relazione sociale. Dal punto di vista di Lynch, “la Bestia” non si limita a alimentare e rilaciare false notizie ma, anche attraverso di esse, vuole possedere il canale.
Alla fine della fiera, saremo almeno capaci di realizzare che i sogni sono le uniche fake news alle quali vale la pena di non rinunciare?