Venerdì scorso, nell’auditorium della Scuola Superiore Santa Chiara ha avuto luogo un incontro dal titolo Un baule pieno di gente, organizzato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia di Siena.
Il professore di letterature portoghese e brasiliana Roberto Francavilla ha svolto il ruolo di moderatore tra Antonio Melis, Antonio Prete, Maurizio Bettini e Mario Specchio. Tutti e cinque sono accomunati da una lunga e profonda amicizia e dal rapporto lavorativo con Antonio Tabucchi, morto il 25 marzo. Il titolo dell’incontro è anche il titolo di un libro del 1990 dello scrittore che in questa giornata è stato commemorato e celebrato. Antonio Tabucchi è stato professore ordinario di letteratura portoghese all’Università di Siena fino all’anno accademico 2004/2005, oltre che scrittore di fama mondiale. Ha vissuto un amore viscerale per l’ autore che gli ha suggerito il titolo di un suo libro e anche della sua stessa commemorazione, e Fernando Antonio Nogueira Pessoa, ancora una volta, è riuscito comunque a far parlare di sé, ad esistere, mentre il funerale non era il suo ma di un suo amico, quasi a burlarsene, quasi a dirgli “guarda che non riesci a liberarti di me”. Definire Fernando Pessoa uno scrittore camaleontico sarebbe sostanzialmente sbagliato, perché Pessoa è realmente stato altre persone, oltre che lui stesso. Pessoa non cangiava, era. In lui erano i suoi numerosi eteronimi che nascevano dal nulla del sonno, apparivano e venivano buttati con un gesto annoiato da cestinatore abitudinario in un vecchio baule di un appartamento di Lisbona. È buffo e quantomeno singolare che un uomo che si chiama Pessoa di cognome – in italiano la parola si tradurrebbe con persona – sia stato in realtà tanti uomini, ed abbia fondato sulla persona – sull’osservazione della persona, sull’analisi e la psicoanalisi della persona – gran parte della sua scrittura. Forse Pessoa è stato anche Tabucchi. È invece fuori di dubbio che Tabucchi sia stato anche Pessoa. Anche chi scrive, non ha fatto in tempo ad accorgersi che, prima di recarsi all’incontro, lo sguardo alla libreria è caduto inevitabilmente su due autori.
Per non concedere troppa soddisfazione al lisboneta però, l’incontro non ha mai smesso di essere un ritrovo di amici e familiari dello scrittore e professore di Vecchiano, vicino Pisa. Per carità, date le circostanze non si è mai smesso di parlare della sua opera – Octavio Paz scrisse che la biografia di uno scrittore è solo ciò che ha scritto –, ma quando qualcuno muore si tirano le somme di quello che è stato, con commozione, solennità, simpatia e risate di ricordi e ricordi di risate. L’auditorium era pieno di gente e l’impressione che è scaturita da questo ritrovo di amici è stata come quella di una coperta sulle spalle mentre si guarda un film.
È stato un dovere ricordare il suo forte impegno politico, termine che Mario Specchio ha migliorato in “civile”, perché si intuisce dalla persona e dall’opera che Antonio Tabucchi non aveva per niente voglia di essere Indifferente, sia per la militanza pubblica degli articoli sui vari periodici europei su problematiche di ampia portata e su macrotemi, che nella scrittura dei suoi libri, dove l’impegno, la lotta e la resistenza si fanno più intime, come una piccola piazza, dove ogni fatterello o personaggio possiede le sue peculiarità o le sue fisime, poi crescono fino a pervadere il racconto, vengono descritti in tutta la loro località. Antonio Tabucchi si candida alle elezioni per il Parlamento Europeo nelle file del Bloque de Izquierda ed estorce un racconto ad un pescatore ordinando vino di cheiro. Antonio Tabucchi si preoccupa delle “emergenze democratiche” in Italia durante i governi Berlusconi e scrive le pene di un partigiano morente, oppure La testa perduta di Damasceno Monteiro, che ha tutte le sembianze di un poliziesco immaginario ma, traendo spunto da un fatto di cronaca per denunciare la faccia violenta del potere ed i suoi organi, finisce con una verità fattuale, quasi divinatoria dato che la soluzione del giallo è anche la verità della confessione di un alto grado della polizia portoghese.
È stato un piacere ricordare che Antonio Tabucchi era un infaticabile viaggiatore, come quando il suo sorriso morbido e sornione sfoggiava le conoscenze del passeggiatore incallito, quello a cui piacciono le microstorie dei piccoli uomini da osteria e che conosce molto bene la Storia ed i suoi luoghi. Donna di Porto Pim o Viaggi o altri viaggi sono tra le più belle favole sul tema del viaggio del panorama letterario italiano.
È stato un piacere ricordare che Antonio Tabucchi non è stato il genio della scrittura, ma il lavoratore appassionato della scrittura – per quanto lui sostenesse che il lavoro di scrittore era più che altro una necessità, qualcosa che coinvolge i desideri. Ha insegnato a studenti, amici e colleghi che la scrittura è anche e soprattutto rigore, dedizione e talvolta sofferenza. Era un signore che alle tre del mattino si permetteva di esaminare una traduzione dal tedesco dell’Uomo senza qualità e telefonare ad un collega per avere un riscontro esatto. Già scrittore di fama si è definito un filologo, quasi a voler sottolineare che la tecnica e gli strumenti del talento venturo si forgiano con un mestiere che, in un immaginario collettivo molto romantico, rievoca la schiena curva sui libri e le ore passate a sfrigolare la penna sul foglio di carta.
Al contempo, con lo stesso sorriso, si compiaceva quasi segretamente quando a lezione capiva che di fronte a lui si rimaneva esterrefatti per un volo pindarico perfettamente riuscito, o una citazione che aveva del teatrale, come una meritata uscita dal sipario, a testa alta. D’altronde ha scritto l’inverosimile: sui partigiani, sulle balene, sugli assassini ed i loro compagni investigatori, sui dittatori, sui filosofi, sui cantanti di fado, sulle notti insonni e sui giorni da sogno di qualcun altro, su un uomo morente o due innamorati. Ha ambientato i suoi scritti nelle memorie di Vecchiano, di Lisbona, di Parigi, delle taverne delle isole Azzorre, delle strade indiane, dei libri che aveva letto. E ha chiaramente attinto dalla “sua disponibilità alla menzogna” [1]. Quel patto sulla sospensione dell’incredulità che ancora prima del lettore si deve concedere lo scrittore. Essere disponibili al non-credibile significa confortarsi nell’eventualità che non tutto è vero, che si può vivere ogni tanto di non-realtà, mettendo in conto che si deve rischiare di rimanere coinvolti nella vicenda che pare immaginaria. Sia per chi scrive, sia per chi legge, pensava forse Antonio Tabucchi quando si confidava nelle sue prefazioni per niente metodologiche ma piuttosto sentimentali: “E il Servo? E il Traditore? E il Gigione? E il Vanesio? E il Voltagabbana? E il Barattiere? E il Ladro? E il Corrotto? E il Tartufo? E il Ruffiano? Davvero vi resta difficile dare un volto ai singoli attori che oggi interpretano questi ruoli nella commedia umana che la Storia ci racconta da sempre? Non esitate, fate le vostre scelte. È questo il bello della letteratura: è uno spazio di libertà.” [2].
È stata meno bella la sensazione che il film si stava avviando ai titoli di coda quando, ricordando i tempi del famoso pianerottolo incassato nel palazzo di San Galgano dove gran parte dei relatori presenti aveva il suo studio – compreso Tabucchi ovviamente –, ci si è resi tutti conto che tra i pensionamenti, pre-pensionamenti, trasferimenti, mancati rinnovi di contratto, mancato ricambio generazionale, leggi scellerate, quel pianerottolo che per tanti è stato un gran pezzo di cielo non aveva più senso se non nei ricordi, perché il dipartimento di letteratura portoghese nonché gli studi ispanoamericani non esistono più, così come non esiste il corso di laurea in lingue e letterature straniere. Difficile da accettare forse anche per Tabucchi, dato che una delle sue patrie è stata la lingua portoghese. Meno male che questo è un altro capitolo e lui, forse purtroppo forse no, ha fatto in tempo a perderselo. Di sicuro qualche riga l’avrebbe scritta.
Boa viagem
Note
[1] Antonio Tabucchi, Donna di Porto Pim, Sellerio, Palermo, 1983.
[2] Antonio Tabucchi, L’oca al passo, Feltrinelli, Milano, 2006.