Note comparative tra il sisma emiliano e i terremoti in Italia Centrale (Qui la prima parte). A cinque anni dai terremoti che hanno colpito alcune zone dell’Emilia (20 e 29 maggio 2012), pubblichiamo una riflessione in due parti di Silvia Pitzalis sulla necessità di un cambio di paradigma nella gestione dei terremoti in Italia, a partire dall’analisi del carattere “ri-generativo dei disastri”, dall’Emilia all’Italia Centrale.

Il disastro rappresenta un momento fondamentale di presa di coscienza della propria condizione da parte dei cittadini (terremotati) e di messa in discussione di un sistema sociale che, in alcuni casi, attuando una determinata gestione del disastro, rende ancora più evidenti i suoi effetti anziché attenuarli. Sono momenti che possono far nascere risposte al disastro alternative, che potremmo definire “dal basso” perché nutrite e veicolate direttamente dalla solidarietà e dall’autorganizzazione dei cittadini, che si oppongono ad esempio a una certa gestione dell’emergenza da parte delle istituzioni. Pensiamo al lavoro delle già citate Brigate di solidarietà attiva (BSA), un gruppo di volontari che, prediligendo alcune pratiche, tentano di favorire “processi di autorganizzazione e aggregazione sociale, seguendo i principi di antirazzismo, anticapitalismo e antifascismo”1. Nate all’Aquila nel 2009, presenti in Emilia nel 2012, da agosto 2016 si trovano in Italia Centrale in supporto alle popolazioni terremotate non solo per soddisfare le esigenze primarie di sopravvivenza in condizioni avverse, ma anche per far emergere la presenza di criteri di intervento istituzionali contraddittori e confusi. Le BSA stanno avviando percorsi di protagonismo attivo degli stessi terremotati tramite azioni di coordinamento degli aiuti e volontari da tutta Italia ma anche grazie a dibattiti, discussioni e assemblee cittadine. Nello specifico il lavoro che ho potuto osservare in un breve periodo a fine settembre 2016 nel campo delle BSA a San Cipriano2 (frazione di Amatrice-Lazio), si compone di un variegato e complesso insieme di azioni che, partendo dall’ assistenza (pur presente con la distribuzione di generi di prima necessità) cerca di superarlo attraverso la riflessione critica sulla condizione dei terremotati, avviando percorsi di risposta attiva alle disposizioni e alle procedure di intervento istituzionali, promuovendo il coordinamento delle diverse realtà nate nel cratere e realizzando incontri di informazione e scambio tra i terremotati.
Quelli riportati sono solo alcuni esempi dei diversi fenomeni che un disastro può attivare; i quali, se analizzati tramite un approccio socio-culturale, ci aiutano a cogliere meglio il forte potere reattivo-rigenerativo e ci informano del carattere altamente politico della catastrofe. L’analisi critica di queste realtà è in grado di evidenziare uno specifico rapporto tra cittadinanza e istituzioni, il regime socio-economico e politico del contesto di impatto e il grado di disuguaglianza e ingiustizia insito nel sistema sociale coinvolto.

Generalmente il dibattito pubblico sulla gestione dei disastri verte sul forte disaccordo tra le necessità delle popolazioni colpite e la gestione del post-disastro da parte della classe politica al Governo, evidenziando dissapori, insoddisfazioni e critiche reciproche. L’1 settembre 2016 il Consiglio dei Ministri ha nominato Vasco Errani “Commissario straordinario del Governo per la ricostruzione del terremoto” in seguito al sisma che la notte del 24 agosto ha colpito il centro-Italia. La nomina è stata legittimata a livello mediatico sottolineando la sua enorme esperienza maturata durante il post-sisma emiliano; lo stesso giorno il neo-Commissario si è recato ad Amatrice, Accumoli e Arquata del Tronto, come rappresentante del “modello emiliano”, esempio di efficienza ed efficacia. Efficacia ulteriormente ribadita il 9 maggio 2017 dal Premier Gentiloni in visita a Crevalcore (Bo), per la commemorazione del terremoto di maggio 2012.
Al di là delle diverse strumentalizzazioni politiche, il post-terremoto emiliano, rivalutato mediaticamente dalle istituzioni come modello da seguire, ha dimostrato di essere ricco invece di criticità, negligenze e corruzione. Basti solo citare i ritardi della ricostruzione per la quale sono stati erogati finora solo 2,118 miliardi di euro su quasi 13 miliardi di euro di danni stimati e dei 6 miliardi messi a disposizione per la ricostruzione. In un recente resoconto della Regione si parla di 9.766 domande di contributo fino ad oggi presentate ai Comuni, suddivise in 19.815 abitazioni e 6.971 immobili ad uso commerciale. Sono 5.157 cantieri sono stati completati, con il ripristino di 12.342 prime e seconde case e 3.537 attività commerciali. I dati così riportati parlano di una ricostruzione volta quasi al termine con 9 terremotati su 10 tornati nelle loro case, senza però nessun dato che avvalori queste affermazioni3. Inoltre non tengono conto né delle prenotazioni che, a cinque anni dal sisma, non si sono ancora trasformate in domande di finanziamento, né delle abitazioni che non sono rientrate fin da subito nell’iter burocratico di richiesta del finanziamento4. Emerge quindi una divergenza narrativa tra la “ormai ultimata ricostruzione” secondo le stime e i dati istituzionali e la pesante situazione nella quale ancora gravano numerose persone, le stesse che a distanza di cinque anni non sono ancora riuscite a vedere accettata la propria domanda di finanziamento. Ammettendo il 50% della ricostruzione ultimata decantata dalle istituzioni locali e nazionali, rimane un dato importante: su 15 mila sfollati la metà dovrà aspettare ancora almeno altri 5 anni per poter rientrare nelle proprie case. Se questo accade per un terremoto il cui danno è stato stimato intorno ai 13 miliardi in una regione che produceva il 2% del PIL nazionale, per il terremoto in Italia centrale, con circa 23 miliardi di danni (quasi il doppio) e un territorio soggetto a spopolamento, cosa ci si deve aspettare?

Il modello Errani rappresenta pienamente la modalità italiana di risposta ai disastri che negli ultimi anni da destra a sinistra ha portato avanti strategie e pratiche di emergenza e ricostruzione del tutto fallaci. Tuttavia elevare il Commissario straordinario a unico “capro espiatorio” significherebbe essere miopi di fronte a un problema che è ben più radicato nella nostra società. Errori, mancanze e responsabilità vanno ricercate nella classe politica odierna che dall’Aquila – in cui il post-disastro era nelle mani del centrodestra di Berlusconi – passando per l’Emilia, fino ad oggi (in cui al governo è il Partito Democratico) non è stata in grado di ascoltare e rispondere alle esigenze delle popolazioni colpite, estromettendole dal percorso decisionale. È proprio questa incapacità a essere stata messa in evidenza da alcuni sindaci del centro Italia il 30 gennaio 2017, giornata in cui il Presidente della Repubblica Mattarella ha fatto visita alle zone terremotate senza volere aprire un tavolo di dialogo con le istituzioni locali.
Nella “seconda modernità”7, in cui azioni e comportamenti sono non unicamente il prodotto di scelte personali dei singoli, ma anche dettate da decisioni politiche con ripercussioni importanti sul tessuto sociale e culturale.
Se ammettiamo che i disastri siano il risultato della “mutualità” tra storia sociale e storia ambientale8, è proprio entro questo snodo che le persone, le loro costruzioni (materiali e immateriali) e le diverse soggettività in campo si incontrano9.
Il pericolo che un disastro accada, così come il suo verificarsi, trasforma in maniera irreversibile le modalità con cui le persone pensano se stesse, la propria società, la tecnologia e l’ambiente. Riguardo al disastro le conoscenze a disposizione s’intrecciano, inevitabilmente, con il ruolo ricoperto dalle istituzioni, alle quali i soggetti affidano il compito di prendere decisioni importanti su un ventaglio di scelte. La catastrofe, di conseguenza, è strettamente connesso alla cultura, alla politica, alla morale e all’etica di una determinata società. Sull’istituzione grava il peso della responsabilità, perché, se le scelte su un dato pericolo o su una specifica modalità di gestire il post-disastro si riveleranno sbagliate, la società dubiterà dell’istituzione da essa creata e si sentirà in diritto di metterla in discussione10. Emerge, così, una delle questioni fondamentali, ovvero quali siano i differenti esiti che specifiche politiche hanno sulla vita dei diversi attori. Risulta necessaria, dunque, un’attenta analisi della distribuzione del potere e delle modalità con cui i gruppi sociali mettono in discussione il ruolo delle istituzioni.
Un approccio socio-culturale all’analisi di questi fenomeni complessi permetterebbe di svelare queste dinamiche, consentirebbe una migliore e più approfondita comprensione del reale, facendo emergere non solo le responsabilità sociali e politiche ma anche questioni cruciali inerenti l’importanza della percezione del rischio, di una maggiore tutela e salvaguardia dell’ambiente, della costruzione di una “cultura del rischio” e di una più profonda conoscenza sociale e culturale del territorio. Solo in questo modo è possibile avviare la costruzione di una coscienza critica al cui centro stia il cittadino e non la norma.