Per una memoria iconografica della Guerra civile spagnola

Un reportage narrativo attorno a un fondo documentale sulla Guerra civile spagnola che il regista Umberto Lenzi ha raccolto nel corso degli anni.

Non era la prima volta che lo sentivo parlare di storia. Lo scorso autunno avevo incontrato Umberto Lenzi a Massa Marittima, sopra le Fonti dell’Abbondanza, nello stesso luogo in cui lui sessant’anni fa si dedicava a un attivismo da giovane intellettuale di provincia, allestendo un cineclub per i minatori maremmani dell’epoca nel quadro delle attività di un ente cooperativistico degli operai delle miniere. Con la sua energia vulcanica e l’ironia dissacrante, Umberto oggi giustifica la propria presenza in quei locali dove è cominciato il suo percorso intellettuale dicendo che “l’assassino ritorna sempre sul luogo del delitto”.

Lì in effetti incontrò Bianciardi e Cassola (oltre a Pratolini, Germi e tanti altri registi e scrittori). E Bianciardi si ispirò a quell’esperienza massetana e la realizzò anche a Grosseto, trasponendola nel romanzo Il lavoro culturale. Per un’ora, intento a scattare una serie di ritratti dell’autore di Milano odia: la polizia non può sparare, mi sono sentito dentro a uno dei romanzi più importanti del novecento. Un’esperienza, quella di una provincia senza provincialismo, che purtroppo, scomparse certe condizioni politiche legate alla classe operaia, sembra oggi irrealizzabile.

Nel corso della conferenza massetana, Umberto dichiarò di aver fatto dono del suo archivio dedicato alla Guerra di Spagna (che non a torto definisce «la più importante rivoluzione dell’emisfero settentrionale») alla Biblioteca Comunale di Follonica. Quella biblioteca la conosco bene, perché da ragazzo ci ho quasi vissuto dentro e per chi si occupa dell’emigrazione antifascista negli anni del ventennio si tratta di una risorsa di estremo interesse. L’archivio di Lenzi viene riversato in un terreno già fertile, dove sono collocate migliaia di riviste di ogni campo dell’opposizione al fascismo.

Quanto al Fondo Lenzi, è stato costruito da Umberto nel corso degli anni, a partite dal 1963. In quell’anno lesse l’importante monografia dello storico Hugh Thomas sulla guerra di Spagna. La splendida biografia-corale dell’anarchico Durruti, La breve estate dell’anarchia, di Enzensberger era ancora là da venire quando il suo mestiere di regista lo portò a Barcellona per realizzare le riprese di un film. Lì su un muro fu colpito da una scritta anarchica. In seguito Lenzi conobbe diversi libertari sopravvissuti alla mattanza di Franco e cominciò a raccogliere volantini, giornali e documenti dai sopravvissuti, che ancora clandestinamente tenevano in piedi la centrale sindacalista anarchica, quella che un tempo era stata la poderosa CNT, maggioritaria in Catalogna. Sembra che in un’occasione per i suoi contatti Lenzi sia stato anche arrestato.

Sono riuscito a visitare l’archivio Lenzi a pochi giorni dall’arrivo dell’ultimo scatolone spedito da Roma e ho trovato i materiali già nel reparto di inventario, in corso di archiviazione in quella che è nota come la “biblioteca della ghisa” perché collocata all’interno delle vecchie ferriere granducali. Si tratta di un notevole esempio di archeologia industriale, di recente impreziosito dalla presenza del Museo Magma e dal recupero di due fonderie. La biblioteca occupa i locali della vecchia officina meccanica dell’acciaieria Ilva, ma in precedenza la struttura ospitava già dal XVI secolo il Forno Quadro, ossia uno dei primi altoforni italiani. E il luogo risuona ancora di fusioni e di memorie operaie.

Il Fondo Lenzi infatti si innesta su un patrimonio bibliografico dedicato alla memoria dell’antifascismo estremamente consistente. Colgo l’occasione per visitare il Fondo Virginia Gervasini, ricco di migliaia di volumi. Gervasini, trotzkista, figlia di un anarchico, è stata una miliziana del Poum, il piccolo partito comunista antistalinista reso famoso dallo splendido Omaggio in Catalogna di George Orwell e dal film Tierra y libertad di Ken Loach, che Umberto apprezza ma di cui rileva alcune incongruenze storiche (ad esempio, i militanti del Poum non portavano al collo i colori rossoneri degli anarchici della Fai). Un’altra donazione importante è quella del fondo Bernardino Fienga, un medico napoletano volontario anch’egli sul lato repubblicano della Guerra civile, nipote del rivoluzionario Carlo Pisacane. Pertanto l’emeroteca di Follonica contiene già importanti riviste di quella temperie storica, come le raccolte di Tierra y libertad o di Solidaridad Obrera e in aggiunta adesso rileva i cospicui materiali di Lenzi, già in corso di catalogazione.

Mentre salgo, con la reflex in spalla, le scale che mi portano al deposito bibliotecario, ho la sensazione di entrare in un luogo fuori dal tempo. Ordinatissimi e con le pareti colme di manifesti politici, i corridoi del piano superiore del Palazzo del Forno Quadro sembrano un mappamondo quadrangolare su cui si gira attorno con evoluzioni labirintiche. Ad ogni porta il perimetro si apre su una serie di fondi intestati a distinti donatori del patrimonio archivistico e lungo le pareti sfilano fotografie della Resistenza e dell’antifascismo, pagine della guerra di Spagna, documenti del Poum e frammenti iconografici di scioperi nelle locali acciaierie. È forse questo l’atlante delle memorie operaie sognato da Tronti, mi chiedo? L’odore di vecchi documenti entra gradevolmente nelle mie narici e il “secolo breve” di Hobsbawm sembra fondersi con l’atlante di Warburg declinato in chiave proletaria, a plasmare una sintesi concisa e penetrante di quei cento anni che ribollirono di utopie e catastrofi, di rivoluzioni e dittature, di esplosioni e lacrime.

Mi arrampico su una scala per passare in rassegna una parte dei faldoni del Fondo Lenzi. Altri sono in corso di catalogazione e più avanti avrò modo di visionare anche quel processo, assieme all’arrivo del timbro che stampiglierà la voce “Fondo Lenzi” su ognuna di quelle voci bibliografiche. Pure il timbro ha una sua storia, perché è stato realizzato da una tipografia locale che ha un percorso lungo alle spalle: in anni turbolenti dava alle stampe i periodici politici della zona, come «Il risveglio» o «Maremma proletaria». Dalla scala scatto fotografie, poi prelevo febbrilmente, ma con un rispetto quasi religioso, alcuni dei quaderni di ritagli che Umberto negli anni ha raccolto e organizzato. Li trasporto in una sala e mi siedo per sfogliarli.

Colpisce il peso dei ritagli di ambito cinematografico e la documentazione fotografica (con riproduzioni ma anche con alcuni originali) che propone scatti di diversi fotografi di guerra. Trovo articoli su questioni di storia della fotografia, come il dibattito attorno all’istantanea della morte del miliziano scattata da Robert Capa e altri articoli relativi all’incidente mortale della fotoreporter tedesca Gerda Taro. E poi gli scatti di David Seymour, di Kati Horna, di Agustí Centelles i Ossó. Mi sorprende il catalogo del fondo: costruito a mano da Lenzi, con forbici e colla, è il fiore all’occhiello dell’archivio e al tempo stesso ne rappresenta una mappa. Non è solo un repertorio di sintesi che permette di comprendere l’archivio: il catalogo è in realtà quasi un oggetto artistico, frutto del lavoro di una persona con una spiccata sensibilità estetica, un college surrealista virato al pop che ricorda i caratteri urlati e l’iconografia delle locandine del cinema di genere, mescolati con gli emblemi da fronte popolare dei manifesti dell’UGT o con quelli da Agit-prop in chiave libertaria del sindacato anarchico della CNT.

Mi imbatto anche in reperti che riguardano direttamente Umberto Lenzi, come la sceneggiatura di Grandesa adiós, un film poi non realizzato sulla Guerra di Spagna, o alcune fotografie scattate nella sua casa romana che documentano l’incontro col vecchio Abel Paz, alias di Diego Camacho, biografo del rivoluzionario anarchico Durruti e lui stesso Don Chisciotte dell’ideale, come combattente nella rivoluzione spagnola tra le file della Federación Anarquista Ibérica. Lenzi lo conobbe in un convegno a Roma, negli anni novanta. Una delle foto con Camacho è firmata con un’amichevole dedica di Paz. Oltre al biografo di Durruti, Umberto ha incontrato di persona un altro protagonista di quella lotta antifascista, Randolfo Pacciardi, a cui regalò un libro sulle Brigate Internazionali dove lui e la moglie apparivano in uniforme sul fronte di Madrid. Sfilano masse di miliziani anonimi e personaggi illustri che arrivavano da Hollywood o dalla Parigi del Fronte Popolare: Hemingway e la moglie, la reporter Marta Gellhorn, lo scrittore Dos Passos, l’attore Errol Flynn e la filosofa Simon Weil. E attorno a loro il popolo spagnolo in armi.

La mia immersione nella storia della Guerra Civile per oggi è finita. Esco dalla biblioteca della ghisa dopo aver riposto i quaderni di Umberto Lenzi negli scaffali di quello splendido atlante di lotte operaie. Attraversando il piazzale dell’ex Ilva, fabbrica che fu occupata dagli operai follonichesi durante il biennio rosso, penso ai cataclismi dei secoli, di quelli passati e di quelli a venire. Quelle storie e quelle memorie saranno solo echi di un secolo passato? O potranno un giorno tornare a vibrare in altre forme?

L’occasione per affrontare queste domande è arrivata nel corso di un dibattito in cui il Fondo Lenzi, qualche settimana fa, è stato presentato assieme al suo curatore.

Ascoltare Umberto Lenzi parlare della Guerra civile spagnola vuol dire poter vedere Madrid nel 1936. Entrare nell’Hotel Florida e sedersi accanto a Martha Gellhorn e Ernest Hemingway da un lato e Robert Capa e Gerda Taro dall’altro. Dialogare con lui nei locali della Biblioteca della ghisa di Follonica è un’esperienza che mi ha fatto sentire l’odore della trincea, più che quello della carta dei depositi librari. Lenzi ha dedicato lunghi anni alla raccolta di cospicui materiali documentali sulla Guerra civile spagnola, affascinato da quell’incredibile avventura libertaria, una rivoluzione che è stata una breve estate nel lungo e rigido inverno dei totalitarismi del novecento. Le sue parole risuonavano nella biblioteca e sembravano illuminarsi dal verso di Luis Cernuda: «Recuérdalo tu y recuérdalo a otros». Un esergo poetico che apre l’importante storia orale della guerra civile di Ronald Fraser, il libro che gli stava tra le mani mentre raccontava la genesi del suo fondo archivistico.

Tiene assieme gli scenari politici, le carte militari e gli aneddoti cinematografici, Umberto Lenzi, e con le sue parole riesce a farci vedere il documentarista olandese Joris Ivens mentre dialoga con Hemingway nella fase delle riprese di The Spanish Earth. Poi racconta, stavolta nei panni del regista, di aver girato per il film Contro quattro bandiere delle scene successive allo sbarco alleato in Normandia nella Casa de Campo di Madrid, una vasta estensione sovrastante la città e adibita a parco pubblico. Da quell’avamposto, occupato durante l’assedio della capitale repubblicana, le artiglierie pesanti franchiste bombardavano giorno e notte i quartieri centrali. Trasportare lo sbarco in Normandia nei pressi di Madrid mi sembra una sorta di nemesi storica libertaria compiuta ai danni del dittatore spagnolo. Tanto più che Lenzi sul set si aggirava e dava ordini indossando un “mono azul”, la tuta blu simbolo dei miliziani antifascisti, con tre stelle rosse da capitano.

Eppure il fascismo non è solo roba del passato. I fascismi mutano pelle ma conservano il loro cuore nero, mentre le masse si “nazionalizzano” sotto la pressione di leader populisti e le guerre si moltiplicano. Eppure, su latitudini che sorprendono sia gli storici che gli attivisti, gli ideali libertari tornano a risplendere. Le libertarie Mujeres libres non rivivono forse oggi nelle combattenti curde del Rojava? Mentre mi allontano dalla biblioteca, passando accanto a un albatro enorme e poi sotto una lunga colonna di pini, mi vengono in mente, contemplando delle macchine industriali in ghisa, le parole di un mémoire sulla guerra di Spagna di Kika Etchebéhère, rivoluzionaria argentina di origini russo-ebraiche, che ho sfogliato tra i volumi del Fondo Lenzi:

I miei passi non mi portano mai fino alle strade della città, che i carri blindati della Cnt-Fai riempiono con un frastuono assordante di ferraglia. Questi camion, promossi al rango di mezzi blindati in virtù di enormi lastre di lamiera ammassate sul tetto, sono di una ingenuità commovente.

Chissà che con bandoni di ferro come quelli forgiati nell’antico altoforno dove è custodito il Fondo Lenzi, qualcuno nella zona autonoma e libertaria del Rojava non stia corazzando dei blindati contro l’oscurantismo dell’Isis, letale quanto quello dei falangisti cristiani di Francisco Franco. Forse davvero la Guerra di Spagna non finisce mai.

Quest’articolo è una versione più estesa di un pezzo pubblicato sul numero 29 della rivista trimestrale «Il reportage».

 

Scheda informativa: i numeri del Fondo Lenzi

480 libri in varie lingue (italiano-spagnolo-catalano-esperanto-inglese-serbocroato-francese)

90 periodici

85 opuscoli ed estratti da pubblicazioni internazionali

12 album di ritagli dal 1931 al 2007

76 DVD con filmati dai vari fronti, immagini di attualità del periodo 1936-39, programmi tv a tema, documentari realizzati da corrispondenti di guerra russi, americani, francesi, italiani, spagnoli o da registi che hanno rielaborato successivamente materiale cinematografato nelle due zone

28 film di fiction sul tema della guerra civile spagnola

27 CD con centinaia di documenti visivi (foto, bolli, manifesti, banconote, carte topografiche), scritti (saggi, lettere, schede personali, recensioni, compendi di libri), sonori (canzoni, inni, discorsi, proclami, interviste).

20 giornali d’epoca originali

15 dischi di canzoni in formato LP

Alcune migliaia di illustrazioni fotografiche (alcune pubblicate in volume) con scatti dei maggiori fotografi che operarono sugli scenari della Guerra civile.

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