Ultimo miglio #1

Il reportage di un precario della logistica di Amazon.

reportage amazon 1

Ci lasciano fuori dal cancello. In agenzia avevano detto alle otto e mezza, loro dicono le nove, e ci attaccano il citofono in faccia. I lavoratori stanno fuori in silenzio. C’è un’aria da grande depressione. Ma non è il 29, è il 19. Il 2019, fine ottobre. La gente arriva nella zona industriale di Calenzano scaglionata. Arrivano da Firenze, da Campi, da Sesto. Dal Mugello. Studenti, disoccupati. Un nero, un polacco, un brasiliano. Una sola donna. Ammucchiati fuori dallo stabilimento di Amazon, in una strada della zona industriale, visti da lontano, potremmo sembrare l’inizio di uno sciopero. L’amore è nell’occhio di chi guarda. Ma una volta avvicinato, il nostro eventuale simpatizzante rimarrebbe deluso. Niente slogan o cartelli, niente entusiasmo. Il piccolo assembramento è silenzioso, quasi spaurito. Quelli che si sono conosciuti in agenzia pochi giorni prima scambiano poche parole tra loro. Nella maggioranza prevale il sonno, probabilmente l’ansia di un nuovo impiego. Temporaneo, ovvio. Un mese, e dopo un altro mese di proroga. Dopo pian piano la noia e il disagio sciolgono le lingue, la gente comincia a parlare. Tutti chiedono. Di venti persone pare abbiano detto a ognuno venti cose diverse. Avevano detto alle nove. Ma non era alle otto e mezza. Ma dovevamo portare le scarpe antinfortunistiche? Proviamo a suonare di nuovo? Nessuno ha le risposte. Nessuno suona. Qualcuno va a prendersi un caffè al bar in fondo alla strada. Per tutto il tempo passano furgoni bianchi, qualcuno blu. Escono dal cancello con le quattro frecce e partono come missili dalla parte del sottopasso, oppure si incolonnano sulla sinistra verso l’autostrada, bloccati dal semaforo, e parte una sinfonia di clacson, un coro di urla e bestemmie dai finestrini un po’ abbassati. Gli autisti spazientiti sui furgoni sono i nostri colleghi: ci hanno assunto per fare i corrieri di Amazon. Meglio: i corrieri per un’azienda che fa le consegne per Amazon. Ci aspettano due giorni di corso nella sede del colosso americano, poi due di affiancamento con dei colleghi esperti. Poi via, ci spediranno fuori coi furgoni, e saremmo noi a schizzare come i missili, a suonare il clacson al semaforo, e le bestemmie saranno le nostre. Alle nove e mezza qualcuno decide per la folla incerta che è venuto il tempo di suonare di nuovo. Stavolta neanche ci rispondono, il cancello di ferro si apre con un ronzio e uno scatto, entriamo nello stabilimento. 

Ormai anche i bambini, forse soprattutto loro, sanno cosa sia il Black Friday. Negli Stati Uniti indica il venerdì successivo al giorno del Ringraziamento, che cade nel quarto giovedì di novembre. In tempi di crisi è un ottimo volano per rilanciare i consumi e aprire le porte allo shopping natalizio. A me il nome è sempre suonato sinistro; mi sapeva di lutto, di funerale, di grande crisi del 29. E pensare che di nero mi vesto sempre, e ascolto musica non esattamente solare. Ma a quanto pare il concetto rende benone. Questo colpo di genio degli economisti, o questo ennesimo amo che il capitale getta ai poveri coglioni, se siete dell’altra parrocchia, si è diffuso di recente pure nel commercio fisico, reale, quello dello struscio nelle vie del centro e dei negozi, ma è legato a doppio filo col commercio on line perlomeno da quando questo esiste. Nella stagione che va dal Black Friday a Natale Amazon implementa gli affari, e le ditte esterne a cui affida le consegne dei pacchi, che in gergo sono chiamate ultimo miglio, assumono dei precari per fare fronte alla mole di lavoro aumentata. Dato che hanno bisogno di molto personale, molto in fretta e per un periodo limitato, si affidano alle agenzie di somministrazione di lavoro. Ed ecco che arrivano sul mercato le infornate dei natalini, che è come i corrieri fissi chiamano i loro colleghi precari che li affiancheranno fino al ventiquattro dicembre. Io sono uno di questi. 

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Sono pieno di dolori. Arrivo alla fine delle due giornate lavorative con gli occhi che mi bruciano e il sonno che mi spiomba sulle spalle. Non riesco mai a mangiare più di una barretta, a bere qualche sorso d’acqua, e nonostante questo sono costantemente in ritardo. Mi mandano sempre un aiuto, a volte due. La cosa ai veterani dà molto fastidio e hanno sempre da ridire. Non so che farci. Vedo uomini anche molto più vecchi di me, ragazzi giovanissimi e perfino ragazze che fanno questo mestiere a settimana intera da anni e rispettano i tempi, quasi sempre. Mi chiedo come facciano, non mi capacito. Ho ripreso a fumare. Quando dopo nove o dieci ore che guidi e consegni cominci a non ricordarti i nomi che hai appena letto sul device o sul pacco, quando ti confondi coi numeri, ti fermi un secondo e ti fumi una Chesterfield, ti massaggi le tempie. Riorganizzi le idee, raccogli le forze. Avevo smesso da più di dieci anni.

Da Mungherino di Larciano, in vetta al Monte Albano, di sera puoi vedere la spianata che da Pistoia arriva a Firenze passando da Prato. Non c’è soluzione di continuità. Sembra un’immensa metropoli illuminata. Ho finalmente finito le consegne, sono quasi le sette, il sole è tramontato da un pezzo, il vento mi passa il giubbotto e la felpa di pile e spazza via le nuvole di fumo che sbuffo. Mi viene in mente Los Angeles, in quel gran film di Lynch, Mulholland Drive, dove all’inizio si vede la città dalle colline. Ma qua le ville non sono degli attori di Hollywood, e io Los Angeles la vedrò solamente nei film, dato che ho paura degli aerei. Butto la sigaretta e riparto, devo farmi più di trenta chilometri da quassù fino alla sede di Amazon a Calenzano, sono stanco morto e ho paura che la strada geli.

Il corso Amazon sono due giorni di catechismo con discorsi da setta. Il catechista è un ragazzo sorridente, piuttosto giovane, che lavora in sede da tre anni. Le sue parole sono quelle di una multinazionale americana imbevuta di protestantesimo weberiano. Quello tra l’azienda e il cliente, ci spiega, non è un semplice contratto tra due contraenti: è una promessa. L’enfasi è quella del cristiano rinato. Non sta ripetendo in modo meccanico, questo è un dipendente fedele, ci crede davvero. Le razioni della platea di disoccupati vanno dallo sbigottito, all’annuire con gli occhi sgranati (ecco un altro potenziale vero credente), alle risatine dei più giovani, che sono perlopiù universitari o diplomati di fresco. Durante la pausa sigaretta chi ha già lavorato come corriere, magari proprio per Amazon, dice senza mezzi termini che tutta la parte pratica è falsa. Di più: è l’esatto contrario della realtà. Sì, i pacchi verranno lanciati eccome nei giardini, verranno lasciati di sicuro sulle cassette delle lettere dei condomini, li prenderanno dei minorenni soli in casa senza alcun problema e senza controllare alcun documento di identità. La maggior parte delle firme elettroniche sui device? Le mettono i corrieri, le metterete voi. Perché è sempre meglio consegnare che dover ripassare. Perché, siamo seri. I corrieri non metteranno le cinture, durante il lavoro, mai. Scordatevelo, non rispetterete il codice della strada: ci sarà da correre invece, e come dei dannati, per rispettare i tempi. La pausa pranzo, certo, verrà scalata, ma quasi nessuno riuscirà a farla. Almeno nessuno dei precari. Nessuno di noi nuovi spiccia parola. La pausa sigaretta finisce, e rientriamo nell’edificio, dove il catechista ci spiega che la maggior parte degli incidenti è dovuta al binomio Negazione più Distrazione, tremiladuecento morti all’anno, che dobbiamo andare piano, rispettare il codice della strada, affrontare l’imprevisto. Distrazione, negazione. I Negazione erano un gruppo hardcore punk di Torino, li ascoltavo da ragazzo. Com’è che faceva quella canzone? Operai, tanti soldi, una casa, un lavoro. Tutti pazzi, tutti pazzi, tutti morti.

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Il primo giorno di lavoro effettivo il punto di ritrovo non è la sede di Amazon, è il parcheggio dell’azienda di corrieri, poco lontano, sempre nella zona industriale di Calenzano, un recinto di terra battuta stipato di furgoni. Alla spicciolata arrivano veterani e natalini, fumano, vanno a gruppetti al bar là vicino a farsi un caffè. Ci salutiamo, tra noi precari, senza molto da dire. I veterani scherzano, ridono, si prendono in giro, parlano di calcio. L’atmosfera sembra rilassata, cameratesca. Io sono abituato alla formalità un po’ ingessata dei dipendenti degli alberghi, e il clima non mi dispiace. L’ufficio dove ci assegneranno le chiavi dei furgoni è al secondo piano della palazzina del parcheggio, ma ancora è chiuso, perché i capiservizio arrivano precisi all’orario stabilito. Prima, ci spiegano i veterani, sono in sede a limare i piani di lavoro, che sostanzialmente sono le rotte preparate dal famoso algoritmo di Amazon. Quando arriveranno assegneranno dei furgoni a noi novellini, mentre i veterani perlopiù si prenderanno il loro solito mezzo. Ma oggi, ci dicono, si partirà più tardi, perché l’azienda ha convocato una riunione. La cosa mi incuriosisce. Sono stato una decina d’anni delegato sindacale, le dinamiche delle riunioni mi sono abbastanza familiari, ma questo è tutt’altro settore, tutt’altro ambiente, tutta altra tipologia di lavoratori. Una berlina nera si fa largo tra il crocicchio di corrieri, due persone a bordo, e parcheggia dentro il recinto. Noi non possiamo, noi le macchine le abbiamo lasciate fuori. Questo fatto dei corrieri che parcheggiano dove capita sarà uno dei punti della discussione, non il più importante.

Dalla berlina scendono un caposervizio in abbigliamento tecnico come il nostro, solo con la pettorina arancione invece che azzurra, e un tipo che sembra aver fatto tardi in una discoteca: caviglie scoperte dai risvoltini dei jeans attillati, orecchini, barba da hipster scolpita, un quintale di gel sui capelli. Il tale, che è palesemente l’uomo della direzione, ha la faccia scura, e si vede lontano un miglio che ha le palle girate. Di colpo tira una brutta aria, i lavoratori smettono di cazzeggiare e si danno di gomito. Il capetto con l’aria da pierre scende li fa avvicinare con dei cenni, scuote la testa. Non ci siamo, non ci siamo proprio, dice con un marcato accento romano. Dice che il rendimento è calato, che Amazon è indispettita del fatto che si lamentano di continuo, e che come loro non ci mettono nulla a liberarsi dell’azienda l’azienda non ci metterà nulla a liberarsi di loro, perlomeno di alcuni di loro, perché si sa, per colpa di alcuni ci andranno di mezzo tutti, che non devono pensare di avere il culo parato da un contratto fisso, che a mandare i richiami disciplinari non ci vuole niente, che anzi ne sono già partiti una decina, e loro sanno benissimo a chi sono diretti, che a chi non sta bene è liberissimo di togliersi dai coglioni. Si scalda, urla, smanaccia, è rosso in viso. Noi precari ce ne stiamo in disparte, tra l’indifferente e il divertito, ma i fissi rumoreggiano, e rispondono, e rispondono urlando, urlano che la pausa pranzo viene scalata dalla paga ma non riescono a farla, che le rotte sono eccessivamente cariche e che fare i ripassi è impossibile. Io sono basito. In nessuna delle assemblee che ho passato negli alberghi avevo mai visto toni così accesi, neanche in quelle per la cassa integrazione, neanche nelle impugnazioni dei licenziamenti, mai. Uno dei fissi si allontana dal crocicchio, forse per rispondere a un messaggio, il capetto romano lo vede, si gira e gli fischia, come allo stadio, con due dita alla bocca. L’operaio sgrana gli occhi e parte al trotto verso il capetto, ma come cazzo ti permetti gli dice, vai a fischiare al tuo cazzo di cane, ma con chi credi di parlare, si prendono di petto, faccia contro faccia. Ora vengono alle mani, penso. Ma non lo fanno, li dividono, le urla si affievoliscono, si spengono, la discussione finisce. Uno dei fissi, uno dei più inveleniti, guarda noi precari. Non si deve brontolare davanti a quelli nuovi, dice, perché se no poi brontolano anche loro. Dice proprio così, brontolare. È un toscanismo, vuol dire mugugnare, protestare in maniera sommessa, ma soprattutto redarguire dei bambini che hanno commesso qualche marachella. Erano anni che non lo sentivo. L’assemblea si scioglie, ci assegnano i furgoni, si parte per il lavoro. 

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