Ulf Hannerz e la macroantropologia della cultura

Rivoluzioni e creolizzazione

di Tommaso Sbriccoli

In un articolo degli inizi di marzo sul “Corriere della Sera”, Piero Ostellino riprende una oscura profezia di Oriana Fallaci riguardo ad un incombente “suicidio dell’Europa” (anzi, secondo la giornalista, ormai “Eurabia”) per trattare della attuale situazione in Libia e negli altri paesi del Maghreb. Il giornalista fa propria l’idea di una «diversità antropologica» tra le due “civiltà”, quella ebraico-cristiana e quella islamica, sostenendo anche la posizione della Fallaci secondo cui la civiltà islamica «non conosce neanche il significato della parola libertà».

Sul fronte opposto, si ragiona invece sul come le rivoluzioni dei paesi del nord Africa e di altri Stati mediorientali siano spiazzanti esattamente perché la libertà, prima e al di là di ogni altra rivendicazione, sia il luogo centrale delle mobilitazioni di una generazione di giovani cresciuti a “metà” tra due mondi soprattutto grazie ai nuovi mezzi di comunicazione e ad una sempre maggiore permeabilità dei confini nazionali all’informazione. Sebbene la prima posizione sia il frutto impazzito, come sostenuto anche da Vermondo Brugnatelli in un intervento su “Alfabeta2”, di una moderna versione dell’orientalismo per come esso è stato descritto da Edward Said, anche la seconda posizione si lascia andare forse un po’ troppo semplicisticamente alla convinzione che democrazia, libertà, uguaglianza ed altri termini chiave dell’attuale dibattito politico mondiale, siano concetti universali, traducibili potenzialmente in ogni contesto al netto di qualche marginale aggiustamento (basterebbe trovare soggetti politici, che siano classi alla vecchia maniera o nuove forme delle stesse come la moltitudine, idonei a farsene portatori attivi).

Siamo in presenza di due riduzioni che, seppure da due fronti opposti e assolutamente non equivalenti (il primo è figlio di una concezione di origine razzista, che oggi predilige una veste “culturalista”, della differenza umana), rischiano di non cogliere la complessità e la posta in gioco di ciò che sta avvenendo sull’altra sponda del Mediterraneo. Da un lato si crede infatti che gli ideali, la conoscenza e le istituzioni dell’Occidente, una volta adottati da una qualche periferia globale (i paesi un tempo detti del “Terzo Mondo”), non possano che venir corrotti in forme che con quelli non hanno niente a che fare, dimostrando l’incapacità dell’Altro di misurarsi con le grandi conquiste della nostra Civiltà («l’Islam non conosce neanche il significato della parola libertà»). Dall’altro lato, invece, si pensa ad una globalizzazione che inevitabilmente (verso il bene o verso il male a seconda di come si riesca a dirigerne il percorso) condurrà ad una omogeneizzazione della cultura globale e delle sue forme politiche e sociali.

Da antropologo, sono abituato a misurarmi con una dimensione dei fenomeni sociali piuttosto minuta, con la necessità di ricucire in un unico tessuto una miriade di fili dispersi nel tentativo di fare apparire un qualche disegno, agendo a metà strada tra flussi di significato che si situano su differenti livelli e cercando di riconnetterli in una visione d’insieme. Lavorando altrove, all’incrocio tra visioni del mondo differenti e spesso faticosamente accessibili, mi è spesso capitato di dovermi confrontare con frammenti della “mia” storia inseriti in narrazioni altrui, misurandomi con l’inevitabile cortocircuito culturale (ad esempio, come ho scritto recentemente in un articolo [*], mi è successo di incontrare Garibaldi tra gli Adivasi delle montagne del Rajasthan, e di riconoscerlo solo in parte, o forse, piuttosto, di dover riconfigurare la mia rappresentazione del rivoluzionario Nizzardo. Di certo, d’ora in poi Garibaldi sarà per me anche un po’ indiano).

È a questo difficile lavoro intellettuale che Ulf Hannerz sottopone la complessità globale attuale, seppure sulla scala più ampia di ciò che egli definisce una “macroantropologia della cultura”. La sua proposta è di particolare interesse proprio perché offre una griglia per l’analisi dei fenomeni globali di flusso culturale in cui l’attenzione è rivolta non tanto al contenuto di ciò che transita da un luogo ad un altro, quanto alle modalità attraverso cui vengono costruiti nuovi orizzonti di senso attraverso la connessione. Ispirandosi alla teoria linguistica, l’antropologo svedese propone di leggere le dinamiche attuali di differenza e cambiamento culturale per mezzo della metafora della creolizzazione. Questa permette infatti, dal suo punto di vista, di indagare i rapporti globali attuali tra centro e periferie in termini che, mantenendo saldo il presupposto dello squilibrio tra i due poli (in termini politici ed economici), consentono tuttavia di superare la dicotomia presentata sopra tra un’inevitabile omologazione e uno scontro tra i valori intraducibili o incommensurabili di civiltà opposte. L’aspetto più interessante di questa proposta si situa infatti nell’individuare un continuum che corre dalla “metropoli” alla periferia lungo il quale la differenza culturale si produce perpetuamente all’incrocio di tre principali cornici organizzative: lo stato, il mercato e le forme di vita. L’ultima di queste cornici è di fondamentale importanza, dal momento che riprende l’idea di un “locale” – ovvero lo spazio fisicamente delimitato in cui avvengono le principali interazioni e la “socializzazione” degli individui – ampliandola oltre il suo ristretto referente territoriale con un’apertura verso altre modalità di costituzione dell’esperienza intersoggettiva. In questa direzione, i cosiddetti social network costituiscono oggi una porzione significativa della forma di vita per buona parte della popolazione mondiale. Così, per riallacciarmi anche ad alcuni interventi usciti sullo stesso “spazio virtuale” che ospita questo mio contributo, si può pensare che le nuove tecnologie abbiano agito in una doppia direzione in relazione alle rivolte nord africane e mediorientali. Da un lato come mezzi di trasmissione di idee, pratiche e strategie “esterne” ai contesti locali; dall’altro invece come luoghi di riconfigurazione delle stesse e di creazione di nuovi spazi di socializzazione del significato.

Su questo Ulf Hannerz può venirci incontro quando sostiene che “al cuore del concetto di creolizzazione sta una combinazione di diversità, interconnessione e innovazione nel contesto dei rapporti globali centro-periferia”. La libertà delle “rivoluzioni” tunisina, egiziana, siriana, libica e yemenita non è probabilmente quella che ho in mente io (di certo, e forse per fortuna, nemmeno quella che avevano in mente Oriana Fallaci o Piero Ostellino), ma è sicuramente qualcosa che ha a che fare con essa, in modi che al momento sono probabilmente assai difficili da comprendere a pieno. Ciò che sembra interessante nell’adottare la creolizzazione come strumento di lettura della complessità contemporanea consiste proprio, per dirla con Ulf Hannerz, nell’accettare il fatto che «il locale abbia una forza sufficientemente alta, sul suo terreno, per costringere la cultura espansionista del centro ad un compromesso». Non ci resta che aspettare di capire se la libertà dei giovani che vivono sull’altra sponda del Mediterraneo sia qualcosa che noi stessi potremo, in futuro, rivendicare di fronte ai nostri governi.

Naturalmente ridefinendola ulteriormente…

 

Playing Identities

Il progetto europeo “Playing Identities. Migrazione, Creolizzazione, Creazione”, all’interno delle cui iniziative si colloca la venuta a Siena del Prof. Ulf Hannerz, si pone il problema del cambiamento culturale dal punto di vista delle potenzialità creative dell’incontro tra differenti codici. In questa cornice teorica, i contesti di migrazione sono il luogo in cui più facilmente si può verificare una creolizzazione, dal momento che è qui che nasce con più urgenza la necessità di sviluppare strumenti condivisi per la comunicazione. In questo senso, i processi di creolizzazione sono esattamente l’opposto dei cosiddetti “processi di integrazione”. Questi ultimi, infatti, mirano al controllo dei fenomeni sociali di contatto: tentano di imporre una omologazione per creare equivalenza tra termini comparabili appartenenti a sistemi culturali differenti (lo scenario dell’omologazione globale descritto sopra). La creolizzazione, al contrario, si mostra in tutto ciò che produce la fatica della traducibilità, conservando i segni e le tracce delle distanze culturali e delle identità attraversate. Essa non ha un bersaglio definito, ma è il risultato di un continuo processo di interazione strategica. Indagando tale tipo di dinamiche anche nell’ambito della produzione artistica, il progetto prevede inoltre l’organizzazione di un ciclo di performance teatrali in cinque paesi europei nel quale artisti con formazioni culturali differenti siano costretti alla negoziazione di codici espressivi, pratiche e significati.

Proprio mettendo in parallelo le caratteristiche dei due processi di creazione – il primo inteso come un’elaborazione interdisciplinare di una metodologia analitica, il secondo come una costituzione interculturale dell’identità – il progetto mira infine ad indicare le potenzialità del concetto di creolizzazione come strumento per l’analisi delle contemporanee dinamiche culturali, sociali e politiche.

 

Riferimenti bibliografici

  • Hannerz, U., 1987, The World in Creolization, in “Africa: Journal of the International African Institute”, pp: 546-559
  • Hannerz, U., 1991, Scenarios for Peripheral Cultures, in Anthony D. King (ed.), Culture, Globalization and the World-System: Contemporary Conditions for the Representation of Identity, Department of Art and Art History, State University of New York at Binghamton, pp: 107-128
  • Hannerz, U., 1996, Transnational Connection. Culture, People, Places, London: Routledge [parzialmente tradotto in italiano con il titolo La diversità Culturale, Il Mulino, Bologna, 2001]

Note

[*] Sbriccoli T., Garibaldi e il Rajasthan, Toro Seduto e la Padania Antirazzista, in “Alfabeta2”, n. 7 (marzo 2011)

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