Uccidere Spazi. Microanalisi della corrida

L’attenzione nei confronti della corrida è stata spesso viziata da uno sguardo parziale, da una propensione costante alla dimensione etica o alla relazione tra matador e animale, escludendo tutto il resto. Matteo Meschiari, antropologo del paesaggio e della contemporaneità, osserva e descrive non solo ciò che accade nel ruedo ma guarda anche al pubblico, terzo attore della corrida, soggetto plurale carico di umori, corpo collettivo che riempie uno spazio dove la narrazione prende forma.

La “micronalisi della corrida” procede dall’arena al web mettendo insieme dieci anni di ricerche condotte sul campo delle arene francesi e sul “terreno” dei blog, dei siti internet e delle pagine facebook. L’uso dei testi provenienti dalla rete permette di svolgere una vera e propria “netnografia taurina” e l’occhio dell’antropologo si ritrova da un lato a scrutare i dettagli e a raccontare “i fatti come un paesaggio”, dall’altro a creare un montaggio di scritti, stralci e citazioni ricavate dai blog o, ancora, dai social network. Il racconto della corrida diviene in questo modo più complesso grazie a diverse voci che, rivendicando molteplici punti di vista (a parlare sono toreri, scrittori anti-corrida, toreri pentiti, animalisti, blogger), sanciscono una dimensione corale divenendo il punto di incrocio di un’analisi che rivela originalità e rigore.

Il linguaggio utilizzato rifugge dagli accademismi per esplorare territori nuovi e la ricerca condotta sul piano della scrittura diventa uno degli aspetti preponderanti. Le descrizioni procedono dalla scena al corpo del matador, dal corpo agli arti, per coglierne micromovimenti e istantanee sequenziali. Ma l’analisi si espande e dai gesti si passa all’animale, agli spazi, al pubblico e al sistema di relazioni che configurano “la macchina della corrida”. Torero e toro esplorano dunque spazi e in maniera invisibile «calpestano confini, aprono e dispiegano zone» (p. 18) ridefinendo lo spazio dell’arena fino al momento della morte del toro quando lo spazio viene azzerato. All’interno dell’arena il racconto si costruisce sulla base «di una morfologia dello spazio, sull’intreccio di azioni e figure spaziali che agiscono come funzioni narrative» (p. 71).

Lo stesso torero è uno storyteller, un io che è allo stesso tempo autore e attore. La corrida costruisce una macchina retorica dove la ripetizione e l’enfasi sembrano ricalcare il mimo. Tuttavia sarà l’imprevisto, l’irruzione dell’inatteso a caricare i gesti e la scena creando un vasto orizzonte di attese. Siamo in presenza di “una fabula identica a se stessa” dove contano le varianti, dove la carica passionale si intensifica e dove alla fine il pubblico partecipa performativamente all’evento.

Il pubblico è visto come un corpo collettivo che, assistendo fisicamente all’evento, fa la corrida, con il suo flusso di umori e le sue aspettative attese e disattese.
L’embodiment è dunque centrale per la comprensione della macchina taurina perché all’interno della corrida si determina un «processo di reinvenzione epidermica del corpo che interessa il to(re)ro e, in un moto di segno inverso, anche lo spettatore» (p. 40).

Lo spazio viene inteso come performance «l’accadere coordinato di atti del corpo (pericorporei ed extracorporei, del toro, del torero, dello spettatore) che consentono l’interazione performativa degli attori» (p.59).

Grande importanza è data alla dimensione dell’animalità e dell’animismo. Al toro durante la corrida vengono attribuite caratteristiche umane, esso è considerato come portatore di una soggettività, di una coscienza e ancora di una facoltà comunicativa. L’appellativo che il torero dà al toro quando lo incita è proprio “hombre”. «Mettersi nella pelle del toro non significa adottare il suo punto di vista, ma prestargli quello umano, reinventare in termini umani la sua coscienza» (p. 47). Abitandolo mentalmente si immagina così che un fondo di intenzionalità e soggettività umana risieda anche nell’altro, il toro.

 

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