Come era già successo per il Festival della Letteratura di Mantova abbiamo deciso di raccontarvi CaLibro, Festival di Lettura a Città di Castello in un TweetGlossario.
Tra il 26 e il 29 marzo una parte della redazione (Massimiliano Coviello, Maria Teresa Grillo, in compagnia di Serena Imperiale e Cecilia Cruccolini) si è recata in pellegrinaggio a Città di Castello per seguire CaLibro, festival di letture in una città dagli antichi e preziosi fasti tipografici. Ormai le luci del Teatro degli Illuminati sono state spente da qualche giorno ma noi, fedeli alla linea, abbiamo deciso di raccontarvi CaLibro con i nostri occhi e le nostre parole. A partire da spunti, interessi e suggestioni abbiamo scelto alcune parole chiave e le abbiamo organizzate in un TweetGlossario, un nuovo format narrativo che abbiamo introdotto per raccontare, attraverso Twitter e Storify, gli eventi, i festival e i seminari ai quali veniamo invitati a partecipare. Buona Lettura!
Adrée: è la destinataria della Lettera di una signorina a Parigi, il racconto di Cortazár in apertura del reading Componibile Cortázar della compagnia Barone-Chieli-Ferrari, in cui diversi racconti dello scrittore argentino vengono interpretati dall’attrice e dagli attori con vivace ironia e serietà, trasmettendo una sensazione di assurdo spaesamento: «Questa lettera gliela invio a causa dei coniglietti, mi sembra giusto che lei ne sia al corrente; e perché mi piace scrivere lettere, e forse perché piove». E ancora: «Di tanto in tanto mi capita di vomitare un coniglietto. Non è una buona ragione per non vivere in una qualsiasi casa, non è una buona ragione perché uno debba vergognarsi e restare isolato e continuare a tacere. […] Quando sento che sto per vomitare un coniglietto, mi ficco due dita in bocca come una pinza aperta, e aspetto di sentire nella gola la peluria tiepida che sale come un’effervescenza di sali di frutta. Tutto è veloce e igienico, avviene in un brevissimo istante».
Bimbi: tra gli spettatori di Calibro ci sono anche loro, e Bruno Testagrossa è stato uno dei personaggi più graditi. La sua storia, raccontata da Nadia Terranova e illustrata da Ofra Amit, ha trovato accoglienza presso il Laboratorio di Tela Umbra, ed è stata accompagnata dalle note di un violino e poi disegnata dai bambini. Terranova ha raccontato di amare Bruno Schulz e le sue Botteghe color cannella ancor prima di Kafka, proprio per questo ha deciso di scrivere una favola dedicata a lui per adulti e piccini, in cui Bruno, un bambino ebreo, si immedesima in oggetti, animali, persone. Ma non esulano dalla storia argomenti come l’arrivo del nazismo e la fucilazione dello stesso Bruno. Afferma Terranova: «Sono convinta che si debba parlare di tutto con i bambini. Quelle volte in cui qualcuno dice che quello non è un argomento per bambini, di solito quello è un argomento che va trattato».
Città: Francesco Pecoraro spiega che Ivo Brandani, il protagonista del suo libro La vita in tempo di pace, scorge il male (vedi: Malfatto) solo nella sua coscienza e nel sapere che le nostre città sono la forma fisica della corruzione: «La città sociale determina la città fisica». Da scrittore e architetto osserva infatti che nella nostra storia recente la democrazia ha fallito perché prestandosi alla corruzione ha devastato le città, mentre in una sorta di paradosso le città migliori sono nate durante i regimi totalitari. Vanni Santoni, che modera l’incontro, riscontra nell’elemento dell’abitazione un altro motivo che lega i romanzi dei tre autori presenti. Giorgio Falco conferma e prosegue l’associazione tra spazi e corruzione ricordando gli scatti di Lewis Baltz: «Nei luoghi vedo inscritti i segni del potere. Mi piace sguazzarci e subirli». E non a caso, nella Gemella H, Hinner è indebitato per la casa ma brama quella del vicino, la villetta dell’ebreo, mentre sul paesaggio italiano presente nel libro svettano desolanti le ciminiere del petrolchimico di Ravenna. In Cartongesso di Francesco Maino il titolo stesso denuncia una natura fasulla, posticcia. «Vivo da spaesato» dichiara l’autore, «i luoghi corrotti sono corrotti dalle parole. Tutto è retorico. I capannoni piovuti come le granate del ’45 nei luoghi usurati rappresentano il coro di questo libro, il grido dell’avvocato Tessari».
Disegni: sono quelli che illustrano le tre mini-conferenze di Giorgio Fontana, Davide Orecchio e Nicola Lagioia in Di libri di segni d’Italia, un riuscitissimo esperimento di riflessione letteraria illustrata. Le tavole videoproiettate accompagnano gli interventi degli autori riuscendo in un cortocircuito di senso potente e raro: nel buio della sala le parole, accompagnate, sottolineate e aggredite dalle immagini diventano la voce stessa del segno visibile. Gli acquerelli di Marcello Volpi, scenari cittadini dai colori gioiosi e contorni a penna, si legano a frammenti tratti da Morte di un uomo felice, facendo da contrappunto alla riflessione di Fontana sull’equivoco del romanzo civile. I disegni a matita di Silvia Checconi urlano sensualità e dramma, femminilità e tragedia, accompagnando l’intervento di Orecchio che a partire dal suo Stati di Grazia arriva alla dittatura Argentina e al dolore della perdita. I disegni di Gaetano Bigi hanno invece la stessa ferocia delle periferie metropolitane, la desolazione di certe notti crudeli e l’inquietudine delle belve in sogno: colori forti e contorni netti ci interrogano con Lagioia sulla nostra vicinanza allo stato di natura e sull’etologia come scienza dell’agire umano.
Esperienza: per Marco Peano, autore di L’invenzione della madre, la scrittura non è una forma di salvezza, ma la risposta alla necessità di oggettivare un’esperienza tragica come quella della perdita di una madre: «Non è vero che scrivere aiuta a vivere meglio. Frugare nei ricordi è dolorosissimo. Le parole sono diventate lo strumento per dare ordine, per gestire il caos. La perdita doveva diventare qualcos’altro, e poteva soltanto diventare qualcosa di oggettivato in un libro. Che è anche un modo per tenere in vita mia madre». Anche per Maino tutto parte da un’esperienza vissuta e dalla necessità di superarla: «Il mio libro è una specie di preghiera. L’ho scritto per salvarmi la vita. Cartongesso è l’unico atto di coraggio che ho fatto nella mia vita. Sono stato testimone di cose che non avrei dovuto vedere e di fronte alle quali non ho agito. Con questo libro ho cercato di uscire dal mio tranquillo riparo. Un atto politico di resistenza civile che chiunque può fare in un momento estremo di verità». Una prospettiva molto differente da quella di Fontana e Lagioia (vedi: Impegno). Per quest’ultimo il rapporto tra esperienza e letteratura è sì imprescindibile, ma passa attraverso l’immedesimazione più che attraverso la vita: «Un’esperienza, per raccontarla, non devi necessariamente averla vissuta: devi essertela meritata. Se io dovessi scrivere un romanzo in cui uno dei personaggi è ispirato a Brunetta, quello devo essere io. Se c’è un vigliacco, per renderlo credibile devo andare a cercare la parte vigliacca di me, che c’è, e renderla attiva».
Famiglia: da Le mani sulla città di Francesco Rosi (1963) a La speculazione edilizia di Italo Calvino (1963), passando per Il Boom (1963) di Vittorio De Sica e C’eravamo tanto amati (1974) di Rosi: il cinema e la letteratura italiana sono invasi da storie di famiglie ricche e corrotte, di arrivisti cementificatori, di palazzinari grotteschi al limite della deformazione fisica oltre che morale. Non è un caso se per costruire una genealogia della famiglia Salvemini, protagonista ne La Ferocia, Lagioia ricorra a film e romanzi usciti negli anni del boom, della rincorsa sfrenata verso un benessere tanto agognato quanto illusorio. Feroce è il desiderio dell’accumulo, accompagnato dalla paura nei confronti della povertà. Queste passioni vischiose ci tengono uniti in quella che Leopardi definì una “società stretta”, “muta” senza socialità, spazio vitale all’italiana in cui indisturbata accade «la perpetua e piena dissimulazione della vanità delle cose».
Giovinezza: autori e al contempo moderatori dell’incontro, Marco Peano e Nadia Terranova siedono su una panchina per la presentazione, felicemente anomala, dei loro romanzi. Lo scambio si fa presto torrenziale, talmente forti e inaspettate sono le suggestioni comuni. Al centro dei loro libri ci sono infatti storie di ragazzi che diventano adulti intercettati nelle fasi più importanti di questa evoluzione: in quella dei sogni e di nuovi doveri, e in quella che stabilisce cosa perderanno. Non a caso Peano dà il via al dialogo citando la frase che Don DeLillo pronunciò in occasione della morte di David Foster Wallace: «Questa è una storia di giovinezza e perdita. Entrambe innervano e attraversano i nostri romanzi, seppure con approcci differenti». In un rimando continuo al tema che conferma l’esattezza di quel presupposto, lo scrittore cita il libro di Terranova, «tutto passava, specialmente la gioventù», seguito dall’autrice messinese che a sua volta evoca il profetico titolo di Schwartz: «Nei sogni cominciano le responsabilità».
Impegno: Giorgio Fontana intitola il suo intervento L’equivoco del romanzo civile e un agrimensore alle porte del Castello: «Non voglio fare un canto del disimpegno a tutti i costi» sostiene, «ma è una questione distinta dalla mia attività di narratore: non voglio che i miei libri siano considerati dei mezzi, non li ho scritti per migliorare lo stato del Paese, o per dimostrare una tesi, né per essere una persona migliore. Io sono solo uno scrittore, non sono un prete, non sono uno storico, non sono un sociologo. Uno scrittore non dovrebbe intervenire in quanto tale». Eppure, Fontana lo sa bene, le conseguenze di un testo sfuggono al suo autore: «Finché le parole di uno scrittore esistono nel suo cervello egli rimane l’autorità insindacabile, mentre una volta che vengono pubblicate egli perde ogni autorità su di esse». Sull’impegno (o il suo opposto) in letteratura si pronuncia anche Nicola Lagioia: «Il mio romanzo non è un trattato di sociologia. Un romanzo deve limitarsi a raccontare storie. Negli ultimi anni, direi dopo l’uscita di Gomorra, c’è stato un mandato nei confronti degli scrittori che io restituisco al mittente. Non credo che la letteratura debba cambiare le cose: ha un compito più ambizioso e meno ambizioso allo stesso tempo. La montagna incantata di Thomas Mann non impedisce l’ascesa del Terzo Reich, né le poesie di Ungaretti impediscono la guerra. È però anche grazie a loro se siamo in grado di riconoscerci ancora come esseri umani, nonostante le catastrofi che abbiamo disseminato lungo il percorso».
Increati: nelle sale che tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso hanno ospitato gli essiccatoi per il tabacco e che, nel 1966, durante l’alluvione di Firenze, hanno accolto libri, giornali e altri documenti cartacei provenienti dalla Biblioteca nazionale invasa dall’acqua dell’Arno, risuona l’eco de Gli increati, l’ultimo, imponente, capitolo della trilogia in nove parti e tre libri di Antonio Moresco. Parole e suoni, contornate dalle opere di Alberto Burri – dal 1990 il complesso industriale ospita la Collezione – costruiscono uno spazio sacro, quello di una liturgia per “increarsi” da lettori e spettatori con i personaggi e le storie di Moresco.
Lavoro: Hanta lavora alla pressa compattatrice di carta, è un operaio solitario la cui vita si esaurisce nella sua mansione: un perpetuo affaccendarsi per caricare una macchina gigantesca, che lo porta a essere a contatto con libri di ogni sorta: dai manuali tecnici alle guide turistiche, dalle riviste alle enciclopedie filosofiche. Stando a contatto con questi testi Hanta, come per osmosi, interiorizza i contenuti di tutti i volumi: «Io» ripete più volte nello spettacolo teatrale della compagnia Medem Buongiorno signor Gaugin!, «contro la mia volontà sono istruito». E ancora: «Io sono un’enciclopedia vivente». Una sorta di processo tipografico al contrario: l’inchiostro dal libro torna “meccanicamente” all’uomo. Seguiamo l’attore – solo sulla scena – muoversi tra badili, forconi e parallelepipedi di carta pressata. Vediamo l’operaio – dipendente dal lavoro e dalla macchina – che, con lo scorrere della storia, una volta sottrattagli la sua unica ragione di vita, si ritrova solo e fallito. Lo spettacolo, tratto da Una solitudine troppo rumorosa di Bohumil Hrabal, è una dura quanto originale riflessione sul rapporto tra uomo e lavoro.
Pancia: quando Nadia Terranova chiede il perché di tante parentesi nel suo libro, Marco Peano risponde di averle volute riscattare. La parentesi è un segno grafico spesso bistrattato perché custode silenzioso di frasi meno importanti e di informazioni secondarie. Lo scrittore invece le affida la propria voce, aprendosi uno spazio privilegiato e personale, una finestra dalla quale affacciarsi per vedere cosa succede nella famiglia di Mattia, il protagonista dell’Invenzione della madre. «E poi la parentesi è una pancia. Mi è sembrata una cosa bellissima ritrovarne così tante in un libro che parla di una madre».
Pessimismo: a giudicare dalle recensioni presenti su Anobii, i tre libri di Falco, Maino e Pecoraro sarebbero considerati dai lettori come fortemente “pessimisti”. «Ma cosa vuol dire essere pessimisti?» chiede Vanni Santoni agli autori. «Non ho mai capito cosa significhi» risponde Pecoraro. «Forse che uno si aspetta il peggio? Ma che cosa deve andare bene esattamente? Come si fa a essere ottimisti? Dobbiamo mentire, mentire alla realtà? Francamente, nel mio libro non c’è posto per questo». Maino ammette di non aver neppure preso in considerazione le due categorie «anche se ho fatto dire a Tessari che sarebbe il caso che il sole finisse rapidamente l’idrogeno». «Non so se sono pessimista» conclude Pecoraro, «ma credo nei piccoli gesti di cura del mondo in un contesto che del mondo non ha cura».
Show: a chiudere i quattro giorni di Calibro è Christian Raimo, che sale sul palco del Teatro degli Illuminati con l’irriverenza dei cabarettisti e l’enfasi degli istrioni. Simile proprio a certe raccolte di racconti l’esibizione ha una struttura cangiante, fragile nel suo insieme e pure solida nelle sue parti. La parola scritta, esibita in scena, diventa a volte narrazione esagerata e poi sketch, rasenta il cabaret, ruba al varietà e si pone nel confine sottile che separa la lettura e lo spettacolo, la scenetta e l’improvvisazione. Raimo, accompagnato dalla batteria del musicista e attore Riccardo Bigotti, racconta, legge, mima e recita (bravissima l’attrice Alessia Martinelli che lo sostiene in un dialogo d’amore), per condurci nel terreno fragile dell’oggi, dinanzi all’instabilità della caduta, alla risata del nonsense e alla dignità del fallimento. Dalla platea ci guardiamo nel nostro sforzo disperato di cambiar forma, mutare pelle e resistere al giorno precario. Non è forse questo il nostro tentativo quotidiano, drammatico e insieme ridicolo di “tagliare l’albero più alto di questa foresta con un’aringa”?
Tifernate: la popolazione che abita quella che i romani chiamavano Tifernum Tiberinum sembra predestinata già dal nome a custodire una tradizione particolare. Pare infatti che sia difficile studiarne il dialetto, che risente della Toscana e delle Marche così vicine, perché privo di regole ortografiche: in una realtà così piccola sembra germogliare la ribellione più resistente. Forse Alberto Burri non poteva nascere altrove. E se pensiamo alle sue opere così materiche non si può non pensare alle tipografie di Città di Castello, nate dalla stessa vocazione artigianale. Date le premesse, CaLibro è per forza l’ultimo dei suoi figli ribelli.
Verso più lungo del mondo: mentre la “i” del nome deve rimanere minuscola, il concetto di pagina deve per forza aprirsi, dilatarsi. Al centro di queste curiose tensioni c’è ivan, street artist e poeta, impegnato in una fatica particolare: sta scrivendo il verso più lungo del mondo, a partire da corso Vittorio Emanuele fino a piazza Matteotti. Mentre lo si osserva, braccato da adulti e bambini, è difficile decidere se è lui a essersi appropriato della città o se è la sua poesia a essere così generosa. Indecisi, lo stiamo a guardare.