di Marco Mongelli [*]
Il terzo libro del non ancora trentenne Giovanni Montanaro, uscito pochi giorni fa per Feltrinelli, si intitola Tutti i colori del mondo e ha sulla copertina il volto di un uomo in cui riconosciamo i tratti di Vincent Van Gogh. Siamo pertanto subito invitati a credere, non a torto, che il romanzo che ci accingiamo a leggere abbia a che fare con i colori, i quadri e gli artisti. Quello che la copertina non dice è lo spaesamento che la lettura alla fine provocherà, nonostante (o proprio per) la “semplicità” del dettato verbale. Non si esce da questo romanzo solo con la sensazione di aver goduto di una bella storia, ma con la sensazione che qualcosa di inaspettato e di nuovo sia stato raccontato anche su di noi. E questo perché il “colpo di scena” che retrospettivamente fa ripensare con inquietudine alle pagine già lette costringe anche a riconsiderare la propria posizione nei confronti del narratore e nei confronti di se stessi. Ma facciamo un po’ d’ordine.
La storia di Tutti i colori del mondo è raccontata in prima persona da una ragazza ventiseienne che, attraverso una lettera lunga e tormentata, si rivolge a Van Gogh conosciuto dieci anni prima in Belgio. Gheel è uno strano paese dove i matti vivono insieme alla gente “normale” e nessuna cella, nessuna camicia di forza li imprigiona e li separa dagli altri ma in cui questa apparente indistinzione nasconde più di un rovescio inquietante.
Teresa Senzasogni, la narratrice e la protagonista del romanzo, è figlia di una pazza di Gheel, che fra lo stupore di tutti aveva partorito dietro una chiesa, morendone. Accertato il sesso del neonato (“Poi mi ha presa […] e ha guardato in mezzo alle gambe; ha visto una fessura rosa che non gli ha lasciato dubbi: una femmina”) il prete la affida prima alla famiglia De Goos e poi, alla loro morte, a una ricca coppia di tutori, i Vanheim. Per avere il sussidio statale di mantenimento, decidono, con il suo assenso, di farla dichiarare “matta”, anche se Teresa matta non è. Diventata adolescente un giorno conosce Van Gogh che, arrivato a Gheel da chissà dove per le campagne, sembra sperduto e alla ricerca di una direzione per la sua vita.
Questo incontro è decisivo per entrambi anche se non è dato al lettore sapere cosa mai risponderà Van Gogh alla ragazzina e alla sua lettera (Inviata? Solo immaginata?). Teresa sa che Vincent diventerà un pittore, lo sprona a disegnare e, soprattutto, a colorare le sue immagini. L’intero romanzo, come i quadri dell’olandese, è caratterizzato dalla presenza ossessionante dei colori: misteriosi (“a cosa servono così tanti colori?”), definitori (“Anche la morte ha un suo colore”), ineluttabili (“Ogni cosa ha un suo colore.”). Dopo l’iniziazione alla pittura, tremenda e spaventevole come ogni rito di passaggio, Van Gogh, scosso e malato, fugge da Gheel cambiando per sempre anche la vita di Teresa. La lettera che scrive, dunque, e di cui sempre torna a spiegare le ragioni, le serve innanzitutto per raccontare la propria storia, per ricordarsi di essere stata un’altra lì a Gheel, per capire, col senso della fine, qual è il suo destino. D’altronde dare una storia a quelli che la Storia non considera è da sempre il compito del genere “romanzo”. E leggendo le parole di Teresa (“Non ci sono solo i re e le regine, le prime ballerine e i proprietari dei giornali, i grandi ammiragli e i comandanti degli eserciti; per i mondo sono più importanti i seminatori, i tessitori, i minatori, quelli che bruciano le stoppie, quelli che macinano il grano, gli operai, le prostitute, le donne che passeggiano tra le siepi di pruno, i cipressi che si incendiano al tramonto. Sono quelli che fanno il mondo. Che lo rendono meraviglioso e un po’ triste”) non si può non pensare anche ai quadri di Van Gogh.
Nel corso della narrazione Teresa si descrive sempre come iper-percettiva. Per tutto il romanzo sente, avverte, percepisce le cose che accadono in mezzo allo scorrere della sua infanzia, mentre aspetta di diventare donna, di “perdere il sangue” e dormire con un uomo. Prima desidera Icarus, come una ragazzina senza padre desidera qualcuno che la protegga; poi, definitivamente, desidera Vincent, e questa volta come una donna. Di nascosto si tocca, con la paura di essere pazza come la madre, di non essere mai felice. La pazzia, la malattia, la sanità, sono al centro del libro e gli girano intorno senza mai vanificarne la qualità affabulatrice e squisitamente narrativa. Se in filigrana si possono intravedere i discorsi filosofici novecenteschi intorno a questi temi (“Teresa è arrivata a me dopo la lettura di Michel Foucault, dopo averne inteso la dolcezza e il dramma”, dichiara l’autore nella sua Nota finale), quello che colpisce e che si impone alla mente sono proprio la dolcezza di Teresa e il dramma della sua esistenza.
La semplicità è la cifra stilistica e la chiave retorica attraverso cui il romanzo esplica le proprie strategie discorsive. Se il dettato sintattico e lessicale è effettivamente privo di difficoltà o involuzioni, il tessuto figurale è talmente ricco da non essere solo “suggestivo”, evocatore di immagini e di emozioni a basso sforzo. Al contrario, proprio attraverso una proliferazione immaginifica costante, il romanzo precocemente abbandona il territorio canonizzato della fiaba, seppur dolorosa, per entrare in un mondo ben più rischioso, attraversando romanzescamente, e quindi finzionalmente, le viscere dei luoghi più remoti e al contempo necessari di ogni essere umano. La “semplicità” dunque è solo apparente, quando non ingannevole, perché fa adagiare il lettore prima di sferrargli, nell’ultimo capitolo, il più proverbiale dei pugni allo stomaco.
La consueta dialettica romanzesca tra pressione del mondo esterno e realizzazione personale passa in questo libro attraverso la preliminare e capitale definizione di sé. La scrittura riesce a dire con sensibilità e senza facili semplificazioni tutto il dolore di Teresa, facendo in modo che la compassione che proviamo, etimologicamente, non diventi mai consolazione.
Segue un estratto del libro:
Avete cominciato. Avete fatto un po’ di viola, con il blu e il rosso, e un po’ di verde, con il blu e il giallo. Poi, sfumature: corallo, porpora, ambra, prugna, pervinca. E presto avete messo giù il pennello, e con un polpastrello avete preso del verde e l’avete lasciato in rilievo sulla tela, proprio un grumo di colore. “Non mi importa che il colore sia esattamente lo stesso che vedo,” dicevate piano, “purché sia bello sulla tela, tanto bello quanto è in natura.”
Ma su quella tela c’eravate voi, non solo il mondo che ci stava intorno. Dentro quella tavolozza abitava il signor Van Gogh. E quando sceglievate un arancio era il colore dei capelli di vostro fratello, e il verde era un coleottero che avevate inseguito e tenuto stretto tra le dita, azzurro-verde lo sguardo di vostra madre, grigio il viso di un minatore dentro la miniera, blu la notte che vi siete alzato dal letto per venire a Gheel, nera la chiesa in cui vostro padre teneva il suo sermone, bianca la camicia di vostro fratello il giorno in cui è stato assunto, e scura la Senna torbida, chiara la sera in cui vi siete innamorato la prima volta, gialla la vostra cerata. Poi avete visto che non bastava …
Per leggere tutto l’estratto:
TUTTI I COLORI DEL MONDO, I Narratori / Feltrinelli, pp. 144 Giovanni Montanaro (1983) è uno scrittore e avvocato veneziano. Ha scritto racconti e testi per il teatro, e ha pubblicato La croce Honninfjord (Marsilio 2007) e Le conseguenze (Marsilio 2009)
Note
[*] della redazione di 404 – File not Found