Tutti a scuola per la riforma organica

“Tutti a scuola! L’istruzione italiana nel Novecento” (Carocci, 2017) è un libro scritto da Monica Galfrè, già autrice di altre ricerche in questo campo come Il regime degli editori. Libri, scuola e fascismo [Laterza 2005] e Una riforma alla prova. La scuola media di Gentile e il fascismo [Franco Angeli 2000] e autrice di importanti contributi sulla storia della violenza politica di sinistra e della lotta armata in Italia, come  La lotta armata. Fonti, tempi, geografie, in S. Neri Serneri (a cura di), Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta, [Il Mulino 2012] e La guerra è finita, L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980-1987, [Laterza, 2014].

tutti a scuola

In un contesto come quello attuale in cui il dibattito pubblico, politico e mediatico a giorni alterni invoca il paradigma della crisi dell’istituzione scolastica e della sua autorità, in un periodo in cui la scuola italiana è attraversata da profondi cambiamenti e da sfide complesse legate a processi che stanno progressivamente contribuendo a modificare la forma scolastica tradizionale attraverso l’introduzione delle tecnologie digitali, dell’alternanza scuola-lavoro e della didattica per competenze, lo sguardo lungo della storia consente una presa di distanza prospettica per interpretare la genesi di alcuni nodi irrisolti e per dar conto della natura complessa e conflittuale dei processi di riforma.

Il volume scritto da Monica Galfrè, professore associato di storia contemporanea all’Università di Firenze, compie una documentata ricostruzione delle vicende e delle politiche scolastiche Italiane dall’inizio del secolo scorso fino al decreto sull’autonomia della fine degli anni Novanta. Tra i molti meriti di questo lavoro il principale a mio avviso è la sua capacità di intrecciare le vicende che hanno riguardato la scuola con quelle politiche e sociali che hanno attraversato l’Italia e le sue istituzioni nel corso del secolo. La scuola non è uno spazio separato, sottolinea l’autrice che, nel ricostruire le tre ondate dei processi di scolarizzazione individuate da Philip Brown, riesce a mostrare bene il modo attraverso cui si siano sviluppate a partire da tensioni e forze contrapposte provenienti da differenti porzioni dello spazio sociale e politico.

Provare a ripercorrere in questa sede le tappe, anche solo le principali, dell’evoluzione del sistema scolastico italiano e dei processi di scolarizzazione non è naturalmente possibile. Vorrei invece sottolineare alcune tematiche che attraversano il volume e che costituiscono a mio avviso uno dei suoi tratti distintivi nel panorama editoriale sulla storia dell’istruzione italiana. A partire dal “mito” della riforma organica, che attraversa tutto il Novecento per raggiungere i nostri giorni, il volume intreccia in modo proficuo l’analisi delle tensioni tra produzione normativa e scuola reale, il tema del ruolo giocato dall’editoria nella formazione e trasformazione della cultura scolastica, quello dei rapporti tra stato e chiesa e, infine, e quello degli insegnanti come motori di cambiamento o resistenza al cambiamento.  

A lungo invocata nell’età liberale e giolittiana in un contesto in cui alla scuola pubblica è stata attribuita una funzione di propulsiva nel processo di creazione di un’identità nazionale, la riforma Gentile ha impresso caratteristiche durature e tuttora riconoscibili al sistema scolastico italiano e ha continuato a incarnare, dopo il crollo del fascismo, il mito dell’intervento organico in grado di modellare lo stato e la società attraverso l’istruzione. In Gentile, esponente del neoidealismo italiano, il problema scolastico viene infatti inserito in una riflessione più ampia diventando un progetto politico. Tuttavia, il complesso rapporto tra la riforma del 1923 e il tema della fascistizzazione della scuola è affrontato dall’autrice mettendone in luce la complessità di un processo che si è realizzato non solo (e non tanto) attraverso le norme, ma attraverso le scelte e le pratiche dei singoli (presidi, insegnanti, ecc.) che hanno coinciso, supportato e realizzato il progetto del regime. In questo quadro, l’intera architettura del sistema di istruzione costituisce un’espressione e uno strumento – la struttura dei cicli, i ruoli istituzionali (si pensi quello del preside-duce), i programmi, il controllo sull’attività degli insegnanti – per far sì che la scuola diventi, nelle parole di Gentile, “specchio verace della rinnovato coscienza nazionale [in cui] debbono inculcarsi il rispetto della legge, l’ordine la disciplina, l’obbedienza illuminata sì, ma cordiale e devota all’’autorità statale” (p. 55). Ma è soprattutto nella vita quotidiana scolastica e nei meccanismi che ne hanno assicurato il controllo – dall’approvazione preventiva dei libri di testo alla dispensa per gli insegnanti – che emerge il legame strettissimo tra censura e autocensura e le sue ricadute sulla didattica. Ne è un esempio la parabola dei diari della vita della scuola che, introdotti da Lombardo Radice con l’intenzione di dare voce al bambino e al suo mondo, diventano luogo in cui il racconto di sé scompare a vantaggio della dimensione pubblica: la memoria della Grande guerra, il patriottismo, l’impero.

Se la riforma Gentile ha tuttavia contribuito a definire un’ideale di riforma organica che – pur nei limiti ben richiamati dall’autrice – ha ispirato il disegno delle politiche scolastiche successive, è a partire dal dopoguerra, e dal processo di de-fascistizzazione, che emerge l’incessante incompiutezza dei processi di riforma che l’hanno succeduta. Nella transizione alla democrazia, mette radici infatti quella che la storiografia ha chiamato “continuità dello Stato” dovuta al mantenimento di strutture, apparati, istituzioni che nell’ambito scolastico consente il prolungarsi dell’ombra del modello Gentiliano negli anni a venire. L’autrice ricostruisce così le tensioni politiche dell’immediato dopoguerra collocando il tema della continuità all’interno di un contesto in cui la DC, che si aggiudica subito il primo dicastero della Pubblica Istruzione della Repubblica, diviene l’interlocutore privilegiato degli Stati Uniti in funzione anticomunista.

Sottolinea Monica Galfrè che «la mancata riforma della scuola e la sostanziale conferma del modello gentiliano, insieme all’inserimento del Concordato nella Costituzione, sembrano contrapporsi all’idea stessa di un cambiamento» (p. 128). Esemplare da questo punto di vista, e con effetti duraturi nella definizione della politica scolastica successiva, è la discussione dei costituenti che, sottolinea l’autrice, sembra abbiano come punto di riferimento «quasi esclusivo la riforma Gentile e la sua concezione elitaria del sapere su cui fatica a radicarsi l’idea di una scuola che, in quanto democratica, sia davvero per tutti» (p. 144). Si pensi alle tensioni che emergono tra gli articoli 2 e 3 e gli articoli 33 e 34 che, di fatto, riducono il diritto all’istruzione al diritto dei soli “capaci” e “meritevoli”. Come fotografano i lavori della Commissione nazionale di inchiesta voluta dal ministro Gonnella, all’indomani della fine della guerra, l’Italia è un paese in cui oltre il 20% dei ragazzi tra i 6 e i 14 anni non assolve l’obbligo e solo il 10% di quelli tra i 14 e i 19 anni prosegue gli studi e in cui, nonostante ciò, la maggioranza degli insegnanti e delle famiglie si esprime a favore di esami di stato più selettivi, della necessità di una educazione della donna conforme alla tradizione religiosa e domestica e di un’istruzione secondaria elitaria, cittadina e maschile (p. 157). Del resto, il volume sottolinea con forza il ruolo dell’egemonia cattolica e la quasi ininterrotta serie di ministri democristiani, fino alla metà degli anni Novanta, come veicolo centrale di continuità con il passato, anche in chiave anti-comunista.

In questo quadro, segna certamente un punto di rottura rilevante la nascita della rivista “Riforma della Scuola” e la riflessione attorno ai Quaderni di Gramsci che da sinistra contribuirà alla formulazione di una politica scolastica e culturale differente che – attraverso un iter parlamentare complesso – porterà alla riforma della scuola media unica del 1962. I dibattiti, che precedono e succedono questa riforma,  attorno al tema della soppressione dell’insegnamento del latino costituiscono un’utile porta di ingresso per far emergere il disorientamento e i dilemmi nella società dell’epoca, ma come sappiamo ben presenti ancor oggi, tra una politica scolastica che mira a concepire la scuola come strumento di giustizia sociale e una scuola concepita come palestra delle classi dirigenti e che necessita di meccanismi di selezione per dirottare i ceti popolari nei canali tecnici e professionali. Già agli inizi del 1959, ricorda l’autrice, la decisione dell’allora ministro della Pubblica Istruzione Aldo Moro di abolire la versione dall’italiano al latino nell’esame di licenza media aveva suscitato reazioni violente e toni catastrofistici sui principali giornali del paese (p. 206).

I limiti dell’istituzione della scuola media unica – definita qualche anno dopo da Codignola come “un’isola riformata in mezzo a strutture antiquate” – sono evidenti nella generale impreparazione pedagogica degli insegnanti (e nelle loro resistenze ben documentate da Barbagli e Dei in Le vestali della classe media del 1969), negli elevati tassi di bocciature e nei programmi che appaiono ancora debitori di una concezione di scuola media come preparazione agli studi successivi piuttosto che come ciclo autonomo. È in questo quadro che esplodono le contestazioni degli studenti, numericamente in continua ascesa sia all’università che negli istituti secondari, che diventano protagonisti – assieme a una nutrita schiera di insegnanti di nuova leva – della vita scolastica soprattutto a partire dal 1968 e per tutti gli anni Settanta.

Il volume ha il merito di accompagnare il lettore dentro gli istituti medi superiori seguendo gli sviluppi delle agitazioni scolastiche con la progressiva affermazione della sinistra extraparlamentare e propone una ricostruzione delle vicende di alcune scuole a Roma, Firenze, Milano, cartina di tornasole per interpretare la complessità della società italiana del tempo, tra spinte rivoluzionarie e conservatrici. L’autrice ricostruisce l’arroventarsi di un clima in cui alle richieste per l’ottenimento del diritto di assemblea e della partecipazione degli studenti al governo della scuola, risponde in molti casi l’autoritarismo dei presidi, interventi della procura e un dibattito pubblico che mira a screditare le ambizioni di protagonismo dei giovani etichettandoli come spiritualmente e intellettualmente immaturi (p. 245). Il volume mostra accuratamente il modo in cui le agitazioni studentesche, e le sue derive talvolta violente, sono cruciali per comprendere il modo in cui il governo, le forze politiche e sociali, i sindacati, si muovono sul terreno della scuola. L’eliminazione dell’esame di licenza ginnasiale, la liberalizzazione degli accessi all’università, l’attenuazione della difficoltà dell’esame di maturità, l’introduzione degli anni integrativi per le scuole secondarie di durata inferiore ai cinque anni, e persino la scelta del tema per l’esame di maturità del 1969 – che sembra prefigurare un’apertura al dialogo in un’estate rovente e in cui si chiede di giudicare “la condizione dei giovani nella società contemporanea” – possono essere letti come una risposta al clima di quegli anni. Tuttavia, come l’autrice ricostruisce dettagliatamente nel capitolo 8, lo stato non riesce a guidare dall’alto i processi di riforma e la quanto mai necessaria riforma della scuola secondaria – invocata con forza a partire dai Dieci punti di Frascati – rimarrà incompiuta tra spinte parlamentari contrapposte.

In questo contesto, in cui il parlamento riesce tuttavia a legiferare su questioni cruciali come l’abolizione delle classi differenziali, le 150 ore, l’abolizione dei voti e degli esami di riparazione nella scuola media, l’introduzione del sostegno, è soprattutto la società ad acquisire autonomia. Come sottolinea l’autrice da un lato l’editoria si rivela uno strumento in grado di dar voce a esigenze nuove supplendo all’inerzia riformatrice della scuola italiana, dall’altro, soprattutto a partire dagli anni Ottanta e in un contesto di progressiva “dismissione dello Stato”, la rinuncia ad inseguire il mito della riforma organica cede il passo ad un cambiamento che si produce per via amministrativa e attraverso sperimentazioni che nel loro intrecciarsi, imitarsi, contaminarsi contribuiscono a modificare dall’interno il fare scuola nelle aule italiane. Meriterebbero certamente un accenno molti altri passaggi importanti, dalla riforma della scuola elementare (1985-1990) ai lavori della Commissione Brocca (pp. 309-314). Un ultimo cenno meritano però le questioni sollevate dalle riforme in materia di autonomia e parità scolastica degli anni Novanta perché più ricche di conseguenze per il futuro della scuola. Su questi punti è stato scritto naturalmente molto negli ultimi anni, tuttavia l’analisi storica consente in modo peculiare di far emergere con forza come queste riforme segnano «una discontinuità netta rispetto al sistema scolastico sancito dalla Costituzione e prima ancora dall’Unità, modificando nella sostanza il suo centralismo, la sua uniformità e anche il suo egualitarismo» (p. 316).

Appare evidente come si stia riconfigurando il ruolo dello Stato nel governo dei processi scolastici e, come sottolinea l’autrice, sembra che la scuola di Stato sia stata definitivamente messa in discussione. Forse però, conclude Monica Galfrè «il revisionismo e la crisi dell’antifascismo, il riemergere di vecchi e nuovi nemici dell’unità nazionale hanno attaccato, ma non travolto, i fondamenti stessi del patto costituzionale e del modello di scuola ad esso legato […]. È ancora molto forte il legame che gli italiani hanno con la scuola, intesa come istituzione dello Stato. Perché è lì che si costruisce il sentimento di appartenenza che ci lega gli uni agli altri e che si diventa quello che siamo, come individui e come collettività» (p. 317).

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