Molti dettagli del fallito golpe di venerdì 15 rimangono oscuri e probabilmente non saranno chiariti dai processi che seguiranno.
L’unilaterale condanna del movimento di Fethullah Gülen da parte del presidente Erdoğan e del suo partito sembrano anzi anticipare l’ulteriore diffusione di teorie cospirazioniste, già ampiamente circolanti nel paese. Al di là di tali aspetti, comunque, il tentato golpe del 15 luglio sembra rappresentare l’ultimo capitolo di una lotta per l’egemonia politica e culturale, ormai interamente collocata nel campo islamico.
La ricostruzione dei fatti e i dubbi che ne derivano
Clamoroso fallimento, o messinscena ancor più destabilizzante? I media locali e internazionali hanno mostrato le immagini dei (pochi) soldati e carri armati protagonisti del tentato golpe e diffuso la rivendicazione dello stesso da parte di un “Consiglio per la pace nel paese” (Yurtta Sulh Konseyi)[1], in nome della “protezione dei diritti umani” e del “ripristino della democrazia” – scelta retorica condivisa con i colpi di stato precedenti (1960, ’71, ’80 e golpe “postmoderno” del ‘97). Ogni altro dettaglio, invece, è apparso singolare o addirittura surreale. In primo luogo, la scelta di agire intorno alle dieci di sera in un venerdì estivo, quando presumbilmente molta gente era ancora fuori casa, o davanti agli schermi. Un tentato golpe prime time. Le forze di polizia e i civili scesi in strada hanno disarmato i golpisti e, fortunatamente, molti soldati non hanno opposto molta resistenza, cessando il fuoco sulla folla. Un commando ha raggiunto il resort in cui alloggiava Erdoğan ore dopo l’inizio delle operazioni. Infine – forse l’aspetto che lascia più perplessi – i golpisti non hanno bloccato la comunicazione via internet, permettendo al presidente d’inviare un messaggio via smartphone, diffuso dai canali televisivi privati, e hanno consentito ai civili scesi in strada di far circolare su twitter e facebook i video in cui mostravano la progressiva resa dei soldati.
Come dare un senso a tutto ciò e a molti altri insoliti particolari? Fra le tesi che circolano in questi giorni sembra abbastanza plausibile quella fondata sull’idea di un golpe raffazzonato, attuato in anticipo da uno sparuto gruppo di militari gülenisti dei ranghi più bassi. Da settimane, infatti, circola un’indiscrezione secondo cui in occasione del Consiglio Militare Supremo (YAŞ), in programma l’1 agosto, sarebbe stata realizzata una massiccia epurazione di ufficiali sospettati di simpatie güleniste. Coloro che immaginavano di essere nel mirino del governo, sentendo di non avere più molte opzioni, avrebbero quindi ordito il golpe. Le scarse adesioni e la sua sgangherata esecuzione deriverebbero dal scoperta del piano poco prima della sua prevista realizzazione; nello smarrimento e panico generale, molti avrebbero fatto un passo indietro e i pochi rimasti hanno tentato un golpe in prima serata. Da tale improvvisazione potrebbero essere derivati il ritardo nel tentato sequestro o arresto del presidente e l’incapacità d’interrompere le comunicazioni via internet e sui canali televisivi privati. Rimane da chiarire – limitandoci ai dettagli elencati sopra – la ragione per cui questi pochi e disorganizzati soldati hanno desistito dall’ attacare i civili, nel momento in cui sentivano di non avere più speranze di successo e presumibilmente immaginando cosa sarebbe accaduto loro dopo l’arresto. Il dato preliminare da cui partire è che l’esercito turco è oggi meno compatto, quindi meno facilmente manovrabile in vista di un golpe, rispetto al recente passato. Secondo gli esperti il movimento di Fehtullah Gülen è riuscito a penetrare nei suoi ranghi, un tempo tenacemente laico-nazionalisti, ma la sua presenza è comunque minoritaria e prevalentemente confinata ai livelli più bassi della gerarchia. Proprio la giovane età (sembra che alcuni fossero persino convinti di partecipare ad un’esercitazione) e il fatto di non essere così distanti sul piano culturale dalle folle inferocite che li fronteggiavano nelle strade, potrebbe aver distolto almeno alcuni soldati dall’idea di continuare a sparare sui civili. Ciò ha limitato il numero delle vittime, ma non ha impedito che numerosi “difensori della democrazia” si abbandonassero al linciaggio dei soldati.
Il movimento di Fehtullah Gülen e l’AKP: dalla collaborazione al conflitto
Fethullah Gülen – ex imam, predicatore e intellettuale – è oggi il colpevole predefinito dietro quasi ogni scandalo, fallimento o stato di difficoltà vissuto dall’AKP (Partito della Giustizia e Sviluppo) e dal presidente Recep Tayyip Erdoğan. Non è sempre stato così; al contrario, l’ascesa inarrestabile del partito nei primi anni duemila è stata resa possibile anche dal sostegno del movimento di Gülen, noto come Cemaat (“Comunità”, in senso religioso) o Hizmet (“Servizio”). Da un lato, l’AKP, sintetizzando efficacemente religione e apertura al mondo dell’imprenditoria, è riuscito a creare una nuova classe media islamica; dall’altro, la rete educativa e mediatica pianificata da Gülen – articolata in scuole private, dormitori universitari, quotidiani, canali televisivi – ha contribuito al diffondersi di orientamenti culturali integrabili nella linea del partito.
Oggi l’AKP, e in particolare Erdoğan, vedono in Hizmet un nemico. Poichè la delegittimazione parte da strategie di etichettamento, i termini utilizzati per riferirsi ad esso sono FETÖ (“Organizzazione terroristica di Fethullah”) e paralel örgüt (“organizzazione parallela”). Il primo ufficializza anche sul piano lessicale l’inserimento di Hizmet nella lista dei gruppi sovversivi che lo Stato turco intende combattere. Il secondo richiama alla mente il cosiddetto “stato profondo” (derin devlet)[2] ed evoca una minaccia alle istituzioni democratiche.
Divergenze più o meno ampie fra Gülen e Erdoğan sono emerse dal 2013, nel contesto di alcuni gravi casi di corruzione che hanno coninvolto esponenti dell’AKP e il loro familiari; secondo il partito del presidente si sarebbe trattato di un complotto organizzato proprio da Gülen e soci per indebolire il partito e insidiarne il ruolo. Un secondo terreno di scontro è emerso con la gestione delle proteste di Gezi, in occasione delle quali Gülen ha criticato gli eccessi di autoritarismo. Ulteriori conflitti sono sorti in relazione alla politica estera dell’AKP in Siria e all’atteggiamento avventuristico di Erdoğan verso il regime di Assad, scelte non condivise da Gülen. Da parte dell’AKP, e probabilmente di molti suoi sostenitori, non vi è alcuna difficoltà ad accostare le figure di Gülen e Bin Laden – entrambi terroristi e minacce per gli ordinamenti democratici – ma l’immediata e semplicistica attribuzione di responsabilità del fallito golpe al movimento di Gülen non sembra molto convincente agli occhi di un osservatore esterno. Perché un leader di fama internazionale, riconosciuto quale promotore del dialogo inter-religioso fra i “Popoli del Libro” dovrebbe rischiare di perdere tutto ciò che ha costruito nel corso di una vita – anche sotto il profilo economico – in un tentativo di golpe così maldestro? Un altro dubbio da aggiungere a quelli già menzionati.
Chi controlla il passato, controlla il futuro…
È significativo che Erdoğan abbia immediatamente identificato il nemico in Gülen, piuttosto che nel fronte kemalista e nel tradizionale “stato profondo”. Alla classica linea di frattura fra (ultra)nazionalisti e islamici si è sostituita dai primi anni del 2000 una lotta per l’egemonia giocata all’interno del campo islamico. Non solo l’establishment, ma le strutture sotterranee della società turca sono mutate, o sono in fase di ridefinizione.
Non solo negli scenari distopici orwelliani, ma anche nella Turchia di oggi, controllare la narrazione del passato è fondamentale per definire gli orizzonti futuri. La strategia dell’AKP è stata finora molto efficace. Se la creazione del consenso negli ultimi anni è passata attraverso i mezzi di comunicazione e l’intrattenimento di massa (vedi promozione di serie televisive e altri consumi culturali legati al periodo ottomano), l’esibizione del potere si sta manifestando essenzialmente nell’appropriazione e ridefinizione di alcuni luoghi altamente simbolici, come Piazza Taksim a Istanbul.
Situata nella parte europea della città, la piazza ha conservato per decenni una fisionomia priva di riferimenti religiosi e densa di richiami kemalisti, ovvero nazionalisti e secolarizzati. Oltre alle bandiere turche (onnipresenti) e agli alberghi di lusso, nella topografia mentale di abitanti e visitatori di Istanbul Piazza Taksim è stata tradizionalmente associata al Centro Culturale Atatürk (AKM) e al Parco Gezi, teatro delle note proteste del 2013. Nel rinnovato piano di riqualificazione promosso dall’AKP, invece, la piazza dovrà accogliere la riproduzione di una caserma ottomana, una grande moschea e – stando alle ultime dichiarazioni di Erdoğan – anche un enorme teatro lirico proprio sul sito dell’AKM. Se il progetto originario comprendeva un centro commerciale all’interno della caserma, la nuova versione prevede un museo – storico, o dedicato alla città. Non si tratta di un progetto di riqualificazione neutro. La caserma in questione nel 1909 è stata teatro di un ammutinamento d’ispirazione islamica contro il Comitato dell’Unione e Progresso, i riformatori nazionalisti dalle cui fila emergerà il futuro padre della nazione, Mustafa Kemal Atatürk. Dopo la fallita rivolta, la caserma fu sostituita da uno stadio, smantellato nel 1940 per far posto al parco Gezi. Fra l’attuale e la programmata fisionomia di piazza Taksim la contrapposizione non potrebbe essere più netta: da una parte, laa rivolta soffocata dai Giovani Turchi, la sostuituzione della caserma con spazi laici (stadio, parco) e simboli del nazionalismo ufficiale (bandiere, gigantografie del padre della nazione, il Centro culturale Atatürk); dall’altra, la volontà di ricordare i ribelli fedeli al sultano e all’Islam, la costruzione di una moschea, la possibile eliminazione del centro culturale dedicato a colui che ha imposto alla neonata repubblica turca un processo di modernizzazione e secolarizzazione dall’alto[3].
Accanto alla programmata de-kemalizzazione della piazza, in questi primi giorni post-golpe è emersa una presa di posizione inquadrabile nella lotta interna al fronte islamico. Erdoğan ha ripetutamente invitato il “popolo” (non i soli elettori dell’AKP) a presidiare Piazza Taksim, facendo sentire la propria presenza e ribadendo che Hakimiyet Milletindir (“La sovranità spetta alla nazione”)[4]. Sul lato del Centro Culturale Atatürk posto di fronte alla piazza è stato affisso un gigantesco striscione rivolto all’organizzazione di Gülen, che non lascia spazio ad equivoci: “FETÖ, cane di Satana, impiccheremo te e i tuoi cani ai vostri stessi collari. Col permesso di Allah, sventoleremo in cielo la bandiera della democrazia, (firmato) i giovani impavidi di questa santa nazione”. Accanto allo striscione sono state affisse foto di Erdoğan. Duplice presa di posizione, quindi: tradizionali gigantografie di Ataturk sostituite dall’immagine del presidente e demonizzazione del nemico della nazione. La circolarità del controllo di presente, passato e futuro si ripropone proprio nell’uso pubblico della memoria dei civili caduti nel tentato golpe, i giovani valorosi (yiğitler) cui fa riferimento lo striscione. È stato infatti deciso che il 15 luglio diventerà la “Festa della Democrazia”. Sull’identificazione dei civili che hanno perso la vita negli scontri coi soldati come “il popolo” – tout court, non semplicemente una parte di esso – e del movente del loro sacrificio nella “difesa della democrazia” si gioca l’ultimo punto che vorrei affrontare in questi appunti sul tentato golpe: l’idea di nazione e gli equilibri politici che saranno conseguenza del 15 luglio.
Stato di emergenza come catalizzatore politico
Le epurazioni e varie forme di repressione cui stiamo assistendo – sotto forma di arresti, licenziamenti, obbligo di dimissioni e affini – sono senza dubbio troppo estese per poter essere giustificate dalla sola difesa dell’ordine e unità del paese. La repressione post-golpe ha finora colpito in vario modo circa 60 mila persone, spaziando fra numerose categorie professionali – esercito, magistratura, insegnanti, docenti universitari, altri funzionari pubblici.
La dichiarazione dello stato di emergenza per tre mesi, la sospensione della Convenzione europea sui diritti umani, le prove di abusi da parte delle forze dell’ordine fornite Amnesty International sono segnali preoccupanti; non meno inquietante è stata la sensazione che vi fossero delle liste di proscrizione già pronte, immediatamente utilizzate a seguito del fallito golpe[5], e la possibilità che l’unica alternativa al vecchio regime a democrazia revocabile, posta sotto il controllo dei generali, sia un’altra versione di democrazia fra virgolette, esposta ai capricci di un leader dalle inclinazioni autoritarie.
I civili scesi in piazza contro i soldati rappresentano una porzione significativa del paese, ma certamente non esauriscono la “volontà popolare” e questa, a sua volta, non è incarnata dal solo presidente Erdoğan. Nella manifestazione multi-partitica per “la repubblica e la democrazia”, convocata domenica 24 in Piazza Taksim dal Partito Repubblicano[6], uno degli slogan più in vista è stato “No al golpe militare, no al golpe civile” (“Hem askeri darbeye hem sivil darbeye hayır”).
Il rischio, ormai evidente, è che il governo possa usare lo stato di emergenza come fase politica che trasforma i rapporti di forza e la loro espressione democratica in dittatura della maggioranza, una fase in cui ogni forma di dissenso rischia d’essere riconosciuta come minaccia allo Stato e alla nazione.
Note
[1] Il nome riprende una celebre massima, “Yurtta Sulh, Cihanda Sulh” (Pace a casa, pace nel mondo), usata da Atatürk nel 1931 per sintetizzare la linea che intendeva dare alla politica estera turca.
[2] Apparati segreti tradizionalmente formati da elementi dell’esercito, magistratura, amministrazione statale, insieme a militanti ultranazionalisti e mafia locale quali componenti operative. Idealmente il derin devlet preservava lo stato e la nazione dalle spinte disgregatrici imputate a gruppi islamici, minoranze etniche e politiche. Di fatto, però, la sua presenza e i suoi periodici interventi hanno svuotato dall’interno la democrazia turca, mantendendola per decenni in uno stato di perenne revocabilità.
[3] Sulla “modernizzazione autoritaria” nel processo di costruzione nazionale turca e iraniana, vedi Atabaki, T., The State and the Subaltern: Authoritarian Modernisation in Turkey and Iran, I.B. Tauris, 2007.
[4] La partecipazione dei cittadini è stata incentivata offrendo gratuitamente trasporto pubblico e traffico telefonico sui cellulari. Gli utenti hanno ricevuto un messaggio del presidente con l’invito a recarsi in piazza e manifestare la propria volontà di difendere la democrazia nei giorni successivi al golpe.
[5] Come sottolineato da Johannes Hahn, Commissario europeo per la politica di vicinato e i negoziati per l’allargamento, http://www.albawaba.com/news/eu-warns-turkey-over-crackdown-coup-suspects-863446 .
[6] È la principale forza di opposizione, depositaria dell’eredità kemalista.