Lo strappo nel tessuto sociale degli USA

Era la tarda mattina del 7 novembre 2020: tutti gli occhi erano puntati sullo Stato della Pennsylvania, giustamente soprannominato ‘The Keystone State’, quando le protratte elezioni statunitensi sono arrivate alla conclusione. Joe Biden, originario della Pennsylvania, e Kamala Harris, l’ex-senatrice della California, hanno sconfitto Trump. È stata una vittoria della democrazia. Enormi folle di sostenitori del duo Biden-Harris si sono radunate per festeggiare in tutte le grandi città americane: da New York, Philadelphia e Washington D.C. ad Atlanta, Los Angeles e San Francisco. Quando questo periodo di festa si affievolirà, il Paese dovrà però affrontare una brutta verità: oltre 71 milioni cittadini statunitensi hanno votato per Trump, quasi la metà di tutti gli elettori. Se non altro, le elezioni presidenziali del 2020 ci hanno indicato che il trumpismo è vivo e vegeto: nella scia di queste elezioni americane occorre riflettere su questa realtà ineludibile.
Le elezioni, pur essendo un breve momento da celebrare, rappresentano la netta divisione che esiste negli USA. Secondo i sondaggisti, Trump ha superato le aspettative: i suoi elettori si sono moltiplicati in tutti i cosiddetti swing states, cioè gli stati cruciali del sistema elettorale americano le cui inclinazioni politiche tendono ad oscillare ciclo per ciclo (come Pennsylvania, Wisconsin, Michigan, Florida e Ohio). Basta un breve sguardo alla mappa elettorale della Pennsylvania per afferrare questa intensa polarizzazione che affligge il paesaggio politico americano. Le zone metropolitane e periurbane tendono a essere democratiche mentre l’entroterra si lega fortemente al Partito Repubblicano: è quasi impossibile capirsi l’un l’altro dal di fuori. Ecco che si arriva allora alla domanda impellente a cui gli Stati Uniti devono trovare una risposta: perché la campagna di Trump è stata così attraente?
Durante il mandato presidenziale di Trump, coloro che hanno cercato di analizzare la politica particolare del 45.mo presidente degli Stati Uniti sono rimasti perplessi. I suoi scambi rauchi e il suo menefreghismo di questi ultimi quattro anni hanno lasciato anche gli opinionisti più informati a grattarsi la testa. Il suo modus operandi poco convenzionale viene visto come pionieristico agli occhi di un trumpet e ha dato una nuova vita al suo movimento MAGA: a questo giro, Trump ha incredibilmente proposto “Make America Great Again, Again” (sì, ha detto proprio così). La dinamicità del movimento, però, merita più attenzione poiché in essa sono incorporati due elementi notevoli, già descritti da Walter Benjamin negli anni ‘30:l’estetizzazione della politica e l’ornamento come massa. Secondo Benjamin, l’estetizzazione della politica è tipica del fascismo e presuppone un movimento verso l’estetica nel quale si verifica uno spettacolo. È attraverso questo spettacolo che due processi fondamentali si svolgono: le masse riescono a esprimersi e la borghesia consolida la sua autorità sui proletariati.
«Fiat ars – pereat mundus», dice il fascismo, e, come ammette Marinetti, si aspetta dalla guerra il soddisfacimento artistico della percezione sensoriale modificata dalla tecnica. È questo, evidentemente, il compimento dell’arte per l’arte. L’umanità, che in Omero era uno spettacolo per gli dèi dell’Olimpo, ora lo è diventata per se stessa. La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine. Questo è il senso dell’estetizzazione della politica che il fascismo persegue» [1]

Tenuti nei paesi piccoli degli Stati Uniti (come ad esempio a Montoursville in Pennsylvania o a Opa-Locka nella Florida), i vari raduni di Trump hanno tirato fuori dal nulla persone di ogni estrazione sociale (gli evangelici—ce ne sono oltre 80 milioni negli USA—hanno goduto lo spettacolo di Trump accanto ai suprematisti bianchi). Per gli americani dell’entroterra che si sentivano sottovalutati ed estraniati dall’esperienza metropolitana degli Stati Uniti, la piattaforma sfocata e l’estetica viscerale di “Make American Great Again” hanno fornito lo spazio in cui potevano proiettarsi. Il trumpismo è nato come movimento culturale piuttosto che politico, pertanto è stato così convincente: Trump non ha cercato di ragionare, si è presentato invece come una tabula rasa, accennando questi reclami morali e culturali (guns, pro-life, freedom, “America First”) a cui tenevano molti americani che poi gli hanno fatti diventare quello che volevano. Ma i raduni di Trump sono anche in relazione a un’altra idea espressa da un contemporaneo di Benjamin, Siegfried Kracauer: la massa come ornamento. I raduni di Trump definivano la massa come ornamento in quanto creavano momenti di vitalità, appartenenza e speranza per un gruppo a cui mancavano tutte e tre. Hilary Clinton ha lanciato un commento particolarmente amaro nel 2016 quando li ha denigrati con la frase “cestino dei deplorabili” (basket of deplorables).
Sia Benjamin sia Kracauer hanno sottolineato come gli sviluppi tecnologici (il cinema e la radio) fossero componenti fondamentali nel successo del fascismo. Allo stesso modo, il trumpismo ha preso una pagina dal manuale di tecniche pubblicitarie impiegando una strategia comunicativa assai efficace attraverso i nuovi mezzi del Web 2.0. Dalla twittersfera alle teorie di cospirazioni, la campagna di Trump ha sfruttato le menti più plasmabili degli Stati Uniti insinuando cose assurde, e l’ha fatto abilmente. In effetti, i sostenitori di Trump si convincono di ammirare il presidente in un gioco di autoinganno, di cospirazione e di associazione implicita. L’aspetto più nocivo sta nel fatto che la maggior parte dei suoi elettori indottrinati non riescono ad articolare i precisi motivi per cui sostengono Trump.
È utile rivolgerci all’arte per dare un senso alla vita, e forse per prepararsi per ciò che potrebbe accadere. Nel caso della vicenda di Trump, è incredibile quanto si avvicini a un film di Bernardo Bertolucci La strategia del ragno (1970), ispirato al racconto Il tema del traditore e dell’eroe (1944) di Jorge Luis Borges. Il film tratta della mitopoiesi del fascismo italiano, in particolare del mito di Athos Magnani (Giulio Brogi), un falso partigiano che ha orchestrato la sua morte per farsi passare per un martire antifascista. Anni dopo la sua presunta morte, avvenuta nel 1936, il suo omonimo figlio torna all’isolato paese di Tara per scoprire la verità sull’assassinio del padre. Durante un flashback, le parole di Athos padre consegnano uno squarcio che illumina anacronisticamente la situazione attuale degli Stati Uniti:
«Non mi ucciderete voi, un traditore è scomodo anche da morto: molto più utile un eroe. Un eroe sì, che la gente possa amare…io sarò assassinato da un fascista, vigliaccamente. Offriremo lo spettacolo di una morte drammatica, che si scolpisca nell’immaginazione popolare, perché si continui ad odiare, odiare, odiare sempre di più il fascismo. Sarà la morte leggendaria di un eroe: un grande spettacolo teatrale. Proveremo, proveremo come a teatro. Centinaia di attori, tutto il popolo di Tara vi parteciperà, senza sapere. Tutta Tara diventerà un grande teatro.» [2]
Nella citazione da Bertolucci l’anafora della parola ‘odiare’ mette in risalto la necessità di una riconciliazione. Dopo la caduta del fascismo, l’animosità sentita verso i fascisti ha costretto i fascisti a nascondersi invece di assumersi pubblicamente la responsabilità delle proprie azioni. Di conseguenza, una grande rimozione della storia fascista persisteva sino a poco tempo fa. Rimasti isolati proprio come gli abitanti di Tara, gli statunitensi dell’entroterra diventeranno solo più imbrigliati nelle ragnatele del trumpismo. Questa bipolarità è esattamente quello che cerca Trump per consolidare il suo controllo.Nell’odiarsi e nel rifiuto dell’altro, si perde di vista la radice del problema più grande: la disuguaglianza.

Così, la miriade di analogie che associano il trumpismo al fascismo risulta pericolosa. Trump non è un dittatore, al limite interpreta il ruolo del dittatore. In realtà, rappresenta qualcosa di ancora peggiore. Fra tutti gli esponenti del populismo di destra, Trump incarna la forza distruttiva del neoliberalismo globalizzato senza controllo. In tal modo, Trump non ha bisogno di scatenare una guerra, anzi non deve fare nient’altro che colpevolizzare i deboli. La figura di Trump giace in una via di mezzo, e viene sempre determinata da chi lo considera: è un traditore ma anche un eroe, un imprenditore potente però fallito, un maestro dell’inganno ma anche un pagliaccio. I democratici hanno molto lavoro da fare in questi prossimi quattro anni. Il partito dovrà ripensare il proprio approccio verso i sostenitori di Trump con il fine ultimo di smontare l’elettorato stabile di Trump, in particolare il suo esercito sempre crescente di accoliti evangelici. Senza rappacificazione, il ceppo del trumpismo che il mondo ha appena vissuto è solo un assaggio di quello che verrà. Se il 2020 ci ha insegnato una cosa, è che non basta più essere compiaciuti. È ora che il compito dei democratici sia trovare una via all’integrazione prima che le cuciture si strappino.
Opere citate:
- Walter W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica(Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, 1936), trad. di E. Filippini, Einaudi, Torino 2011, pp.38-39.
- La strategia del ragno (The Spider’s Strategem) di Bernardo Bertolucci, 1970, Rome: RAI, 2012. Film.