Intervista al sociologo Giovanni Semi, a cura di Radio Cantina.
Torino. Ci troviamo nella splendida cornice del Caffè Basaglia, a pochi metri dal Campus universitario e dalle acque fredde della Dora, e siamo in compagnia del professore Giovanni Semi, docente all’Università di Torino ed esperto di politiche urbane, per capire quali siano gli attori e i processi che caratterizzano una riqualificazione urbana.
Buongiorno professore, prendendola un po’ larga e partendo da un discorso generale, Le chiediamo, può darci una definizione di riqualificazione urbana e spiegare quali sono i fenomeni sociali che la caratterizzano?
Prendendola molto larga, diciamo che le città hanno continuamente bisogno di essere manutenute. La manutenzione contemporanea più nota si chiama riqualificazione. La parola stessa induce già a una riflessione e lascia sottintendere che ci sia un qualcosa che necessita di essere qualificato diversamente o nuovamente, come se ci fossero dei territori che si sono “squalificati” nel corso del tempo. Questa “squalificazione” può derivare da tanti fattori. A seconda dei periodi storici, la squalificazione può essere costituita da un vuoto urbano – ad esempio un’ex fabbrica che è rimasta abbandonata e che ha creato un cratere urbano – oppure può essere legata alla situazione di un quartiere che ha dei problemi e che necessita di essere trasformato. In questo senso il termine riqualificazione può avere diverse accezioni: può intendersi come riqualificazione fisica degli spazi, cioè ricostruisco laddove era crollato qualcosa, oppure può essere un tentativo più ambiguo di mettere mano su certi spazi sfruttando delle forme di vulnerabilità e precarietà della città.
Il termine riqualificazione può essere inteso con un’accezione non solo positiva, ma anche negativa?
Certamente le città hanno bisogno che l’attore pubblico si prenda cura di loro ed è normale che esse siano toccate dalla mano pubblica. Dopo, come questo viene fatto e qual è la direzione che prende questa manutenzione, dipende da diversi fattori. Se da una parte ci sono dei vuoti urbani da colmare e delle funzioni da attribuire all’attore pubblico, dall’altra ci sono degli elementi di criticità e di perplessità di cui discutere.
Analizzando questi processi urbani, quali sono i protagonisti?
Storicamente abbiamo pensato che l’attore principale dovesse essere quello pubblico, cioè lo Stato ai diversi livelli di competenza. Negli ultimi trent’anni si è fatta avanti una tendenza, che chiamiamo neoliberismo, secondo cui l’attore pubblico non è più attore principale dei meccanismi di riqualificazione, ma diminuisce il proprio ruolo e si fa solo facilitatore di iniziative di mercato. Ad esempio, l’attore pubblico compie delle opere di bonifica e di manutenzione degli spazi urbani perché poi possano prenderne possesso i diversi attori privati. Questo rappresenta una novità perché quando storicamente lo Stato investiva in infrastrutture lo faceva per poter collocare così i propri impianti. Ad oggi, lo Stato si limita ad attrezzare lo spazio urbano perché poi arrivi il mercato a occuparsene.
L’attore pubblico finisce per diventare un mero intermediario nel processo di riqualificazione e di mantenimento degli spazi urbani?
Il principale studioso contemporaneo di geografia urbana, David Harvey, ha descritto proprio il passaggio da una città manageriale, che quindi gestisce un budget e lo amministra, a una città imprenditoriale che prepara il tessuto urbano per iniziative imprenditoriali. La città così diventa imprenditrice. Non è più una città che semplicemente gestisce, ma che facilita e apre la strada ad altri attori.
Il passaggio da una città manageriale a una città imprenditoriale quali conseguenze può produrre e che impatto può avere nel tessuto urbano?
Diciamo che l’iniziativa privata non ha tra i suoi compiti quello di ridurre le diseguaglianze sociali, o di promuovere l’equità, oppure di garantire e ampliare il diritto alla città. Dunque, quando viene demandato alla galassia di attori privati il compito di riqualificazione, questi non fanno che fare quello per cui sono nati, cioè cercano di produrre in qualche misura uno sviluppo che, però, è parametrato ai loro interessi. Questo non fa del mercato un attore cattivo, semplicemente le logiche di mercato sono queste. Da questo punto di vista, il passaggio a una città imprenditoriale è molto problematico perché si tende a utilizzare, in maniera anche piuttosto cinica, gli attori privati per risolvere questioni che storicamente non competevano a loro: l’esempio è lampante. A Torino, stanno riqualificando un padiglione del mercato di Piazza della Repubblica perché l’Amministrazione si aspetta che gli imprenditori, che si stanno occupando e sostengono questa iniziativa, gestiscano poi anche tutta la parte esterna di pulizia e di controllo dello spazio. Così la risoluzione dei problemi di vulnerabilità viene demandata ai privati. Tuttavia, il privato non ha quelle competenze, non può avvalersi della forza pubblica e non può essere chiamato a risolvere determinate problematiche.
Non crede che le dinamiche che ha appena descritto offrano un parallelismo con quanto avvenuto in passato in altre aree della nostra città? Ad esempio, mi riferisco all’area del Valentino in cui l’Amministrazione – prima di disporre la chiusura dei molti locali storici presenti – ha demandato per anni ai privati la gestione delle problematiche di sicurezza e controllo degli spazi. Lei cosa ne pensa?
Direi che ci sono due livelli di questo parallelismo. Da un lato, è noto che una città piena di luci sulle strade, in particolare degli esercizi commerciali, diventi più sicura. Si crea un fattore di protezione e a questo sono favorevole. Tuttavia, ci sono delle criticità: non si può chiedere ai buttafuori di essere tutori dello spazio pubblico. Da questo punto di vista il parallelismo c’è ed è molto forte: non si può chiedere al privato di farsi carico di tutte le problematiche. È abusivo chiedere agli attori privati di fare ciò che dovrebbe fare il pubblico. Aggiungo una nota critica, perché qui mi sembra che il parallelismo sia anche politico: una delle persone che amministrava uno di quei locali al Valentino, in questo momento, è Assessore al Commercio del Comune di Torino. Direi che c’è anche una continuità politica tra quel modello e questo modello.
Nella nostra città si avverte una forte compenetrazione tra interesse pubblico e interesse privato?
Secondo me è proprio una debolezza della classe politica contemporanea che in certi casi, lo dico in maniera chiara, addirittura senza avere una volontà di esclusione sociale, cioè senza avere nemmeno quel tipo di prospettiva politico ideologica, senza nemmeno essere in maniera flagrante di destra, però persegue delle politiche, di fatto, di destra, o reazionarie, perché non è in grado di capire, o di riconoscere, che in realtà quello che sta facendo è una politica tradizionalmente reazionaria, cioè quella in cui si toglie potere per darlo ad altri che non ne avrebbero il diritto.
A Torino ci si è a lungo interrogati sui processi di gentrificazione urbana in atto. Dunque, che cosa si intende con il termine “gentrification”? Ė un sinonimo della parola riqualificazione o ne rappresenta un effetto?
Storicamente, per come si è presentata in Europa, la gentrification è sempre stata intesa come sinonimo di riqualificazione perché è sempre stata legata in maniera molto forte all’attore pubblico, sia quando questo era presente come promotore sia nella fase attuale in cui è diventato facilitatore. Infatti, mentre la gentrification nasce in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, tra il 1950 ed il 1960, come un fenomeno legato principalmente a un’ottica di mercato, oggi la gentrification europea ha una connotazione pubblica ed è portata avanti dall’attore pubblico. Non è un effetto, ma una politica voluta: troverete molti attori pubblici che lo dicono in maniera esplicita che è un fattore positivo, che va promosso, che significa un miglioramento del quadro abitativo residenziale e commerciale delle aree in cui interviene. Gli architetti, per definizione, ne parlano in maniera positiva.
Quali sono gli elementi negativi legati ai processi di gentricazione che fanno da contraltare ai fattori positivi da lei appena richiamati?
Si capisce molto bene questa questione analizzando la differenza tra un architetto e un sociologo. Non per portare acqua al mio mulino, ma noi guardiamo a due città diverse, anche se la città è esattamente la stessa. L’architetto, o l’urbanista, sta pensando a quel pezzo di quartiere che ha dei problemi dal punto di vista del costruito… quello che io vedo è un’altra cosa… Mi chiedo quali siano le condizioni materiali che possano consentire a chiunque di accedere alla città e mi chiedo chi è che paga sostanzialmente il costo della gentrification. Questo perché il fenomeno automatico – che è voluto – di queste riqualificazioni è quello di fare aumentare il valore degli immobili, delle case e dei palazzi… ma chi è che cattura questo aumento di valore? Lo catturano gli abitanti? Lo catturano i futuri utilizzatori? La questione è questa. Secondo me una città che aumenta i prezzi è una città che pone dei problemi. Se siamo in una fase – come quella di oggi – in cui non aumentano i redditi ma aumentano i prezzi, si apre una forbice. Qualcuno riesce a colmare quella forbice e allora vive in un quartiere bello, illuminato e sicuro. Però, per una persona che riesce a goderne vi sono tanti altri individui che invece sono esclusi. Ed è per questo che io mi allarmo e dico che c’è un problema.
Questo processo di gentrificazione potrebbe comportare anche il rischio di opere speculative da parte di altri attori?
Io non userei il condizionale, userei l’indicativo. Ė fatto apposta per poter fare speculazione. Adesso la parola speculazione non viene ancora usata in maniera aperta e libera, perché ha una valenza negativa. Però, sostanzialmente, quando si attua una politica per valorizzare il territorio si sta parlando esattamente di quello perché si sta dicendo: «investitore, se il palazzo lo compri adesso costa 100.000 euro, se lo compri fra cinque anni te ne costa 300.000. Lo compri adesso o lo compri tra cinque anni?» E l’investitore, giustamente, fa il suo mestiere, mette i suoi soldi, lo rimette a nuovo, lo rimette sul mercato con un extra, incassa quell’extra e si dilegua. Da questo punto di vista, quella che ho appena descritto è speculazione. Ed è assolutamente voluta e ricercata, anche da parte degli abitanti. Non è un fenomeno che agisce contro tutti gli abitanti. C’è una parte consistente di popolazione che è interessata a quel tipo di speculazione perché magari ha un immobile in quel quartiere, oppure perché ha dei soldi da investire, oppure perché gioca a fare il piccolo immobiliarista. È un fenomeno che coinvolge tutti. Certo l’attore privato, inteso come corporate, è quello che può muovere più capitali e guadagnare di più.
In una precedente intervista lei aveva detto che Torino «è una città strangolata dalle banche e che dipende dalla mano gentile delle fondazioni». Risulta una fotografia reale e oggettiva in grado di descrivere la nostra realtà cittadina?
La città non si è mai ripresa dal debito pubblico contratto per finanziare tutte le opere di rigenerazione degli anni 90. Quelle rigenerazioni sono state importanti perché era necessario mettere mano al piano regolatore generale ed era importante rimettere mano alla viabilità e, probabilmente, era anche importante mettere mano agli assi viari, in particolare quelli ferroviari, e quindi c’era bisogno di un gran numero di capitali. I capitali sono arrivati ma sono arrivati sotto forma di prestito. Finite le olimpiadi ci siamo trovati con un debito di circa 4 miliardi che ancora adesso facciamo fatica a ridurre. Perché in realtà come attore pubblico stiamo solo pagando gli interessi su quel debito. Lo abbiamo ridotto un po’… ma per pagarci una parte di quel debito degli anni 90 stiamo dismettendo le quote dei servizi pubblici più redditizi, penso ad I.R.E.N. che è un tema molto caldo in queste ore. Allora, chi è che detiene quel debito pubblico? Lo detengono le banche, che secondo la legge italiana hanno un istituto interessante che si chiama fondazione bancaria e che ha come compito quello di reinvestire parte degli utili di queste banche in attività legate al territorio. Compagnia di Sanpaolo e C.R.T. a Torino investono tantissimo sul territorio, lo fanno in maniera meritoria dal loro punto di vista, però la cosa implica, vista da fuori, che si sono sostituite di fatto all’attore pubblico nell’erogazione di una serie di servizi. Se domani la compagnia di Sanpaolo e C.R.T. decidessero di non investire più questi soldi in welfare, cultura e servizi essenziali della città… la città crollerebbe nel giro di poche settimane. Una buona parte delle attività di welfare, che a me stanno più a cuore, sono demandate alle fondazioni. Le fondazioni hanno così commissariato l’attore pubblico e si sono sostituite a esso, con la differenza che se noi l’attore pubblico in qualche misura lo eleggiamo, noi non eleggiamo le fondazioni quindi non siamo in grado di controllare quello che fanno. Fino ad adesso si sono comportate in maniera devo dire interessante e aperta, abbastanza ecumenica, ma se da domani cambiassero prospettiva?
Dipende cosa intendiamo per realtà dal basso. Se per realtà dal basso intendiamo i movimenti sociali, in questo momento storico, secondo me, hanno un ruolo molto importante che è quello di testimonianza e di istruire una voce pubblica di dissenso rispetto a quello che accade in città. Però, in un quadro in cui sono fortemente sottoposti a controlli politici e giudiziari, di fatto non hanno molto margine di azione e, soprattutto, non hanno un contatto con la città di mezzo che una volta era quella, in qualche misura, collegata alla politica tramite i corpi intermedi, partiti e sindacati tra tutti… le realtà dal basso sono importanti ma l’assenza di quei corpi intermedi ha indebolito pesantemente la polis. Esiste una fetta della popolazione che non ha più uno spazio pubblico e politico con cui confrontarsi… siamo in una fase politica, dal punto di vista democratico, lo dico senza peli sulla lingua, davvero pericolosa in cui c’è molta attività dal basso di testimonianza e di attivismo, però non c’è altro.
Lei ha parlato di corpi intermedi e tra questi si può annoverare certamente l’Università: questo attore che ruolo gioca nelle dinamiche di riqualificazione urbana?
L’università, secondo me, continua a fare quello che ha sempre fatto. In qualche misura sostiene qualche dibattito critico, lascia che i discorsi che non avrebbero sede in nessun altro luogo abbiano un luogo e, tutto sommato, tollera delle forme di dissenso e di critica sociale. Gli studenti sono la parte vitale dell’università e sono quelli che riescono a pungolare la maggior parte di noi e a riportarci su temi molto più pratici.. se non avessimo un rimando costante dai nostri studenti, rischieremmo poi di dimenticarci che abbiamo anche una vocazione intimamente politica. Sull’università avrei un’ultima battuta: noi lo pensiamo sempre come un attore disincantato, che fa politica perché al suo interno ci sono persone pagate per pensare o per fare ricerca, ma, in realtà, l’università è qualcosa di molto più complicato perché è anche un attore economico decisivo, nonché il secondo datore di lavoro pubblico in città. Inoltre, è anche un attore immobiliare molto potente perché fa delle politiche vere e proprie di spostamento di capitali fissi da una parte all’altra del territorio. L’università è una parte in gioco decisiva dei processi di sviluppo, di rigenerazione e di riqualificazione e in ultima analisi di gentrification. D’altra parte, io lo dico sempre ai miei studenti, ma una delle spinte più importanti al mutamento del quartiere di cui ci stiamo occupando e su cui stiamo facendo l’intervista in questo momento è stato il campus Einaudi. Questo rientra in una politica universitaria, non l’ha deciso il Comune, la Fiat o la Lavazza.
Il campus universitario Einaudi è stato il primo importante pedone nello scacchiere delle moderne opere di riqualificazione?
Sì, decisamente. Poi, insisto, secondo me è interessante la storia del Campus perché ci dice qualcosa sulla volontà politica di questi attori. Il progetto del campus risale molto indietro nel tempo ed è un progetto della metà degli anni 90 che ci ha messo tantissimo tempo a essere realizzato per mille ragioni, non connesse alla politica in senso stretto. Però, nel momento in cui è arrivato, ha catturato un’onda di sviluppo privato della zona e in qualche maniera lo ha convogliato. Il campus ha avuto una doppia funzione: da una parte, il progetto dell’architetto Foster con la posa di una “astronave” sul bordo della Dora a segnalare l’importanza dell’opera e a richiamare gli investitori, dall’altra, c’è un effetto che interviene quando la città di Torino, fino ad allora città molto debole, diventa molto interessante per le popolazioni studentesche. Diventa molto più interessante di quanto non lo fosse anche solo dieci anni prima. Il campus cattura un’onda di studenti che arrivano a Torino.
Che cosa ne pensa della recente apertura del Mercato Centrale all’interno dell’area di Porta Palazzo?
Io sono molto critico su questo intervento perché mi sembra un intervento, alla fin fine, culturalmente molto povero. In un’area che dal 1835 ospita il più importante mercato della città e della Regione, nonché il principale mercato aperto europeo, che ha una vocazione all’incontro fra culture diverse attraverso il cibo e che aveva un’offerta gastronomica impressionante da quasi due secoli, fare un padiglione distintivo che si pone di fare arrivare i turisti, in un mercato che è già noto a tutti, è come fare un’offesa a Porta Palazzo. Ė come se non si credesse che Porta Palazzo è già quel meccanismo generatore che si cerca di ricreare. Lo è sempre stato e non l’hanno scoperto adesso. C’è letteratura di Porta Palazzo dell’800. C’è cinema di Porta Palazzo. C’è una riflessione su Porta Palazzo da oltre due secoli, non c’è bisogno di riqualificarlo. Perché è come se si dicesse che quel posto non esiste o non funziona. È un modo per offendere le persone che, generazione dopo generazione, hanno fatto di quel mercato un posto eccezionale. Perché adesso dobbiamo stravolgere tutto?
Si è molto discusso del panino alla mortadella venduto all’interno di uno degli stand del Mercato Centrale al prezzo di otto euro. Lei ritiene lecito fare pagare così caro un panino con la mortazza?
C’è stata un po’ di discussione intorno a questo panino a otto euro ed i proprietari dello stand si sono difesi dicendo che era un panino molto grande e che c’era tanta mortadella al suo interno. Rappresenta un esempio di quello che dicevo prima, cioè un insulto al significato culturale e sociale che ha avuto la mortadella nel nostro paese, che è stato tradizionalmente il salume meno reputato e più economico e che in questo momento viene glorificato come se venisse fatto, oggi, in maniera completamente diversa. La mortadella è sempre la mortadella. Si autorizza il venditore a fare quei prezzi, ma il fruitore non è la classe popolare. Dal punto di vista culturale questa cosa è disastrosa e dal punto di vista politico è problematica.
Siamo alla fine, ha un’ultima riflessione che vuole condividere con noi?
Ci tengo a fare ancora una riflessione. Questi temi di cui stiamo parlando non riguardano solo Torino ma hanno una rilevanza a livello globale… buona parte delle questioni che dibattiamo oggi in Italia sono discusse in Francia, in Inghilterra e in tutto il mondo. Le risposte che danno questi dibattiti sono diverse, le risposte offerte dagli attori pubblici e privati sono diverse, ma il fulcro è comune. Dobbiamo deprovincializzarci e parlare con chi viene da fuori per vedere se non possiamo importare alcuni dibattiti o alcune riflessioni. Ci aiuterebbe a vedere il mondo con un’altra prospettiva.