Tra Santi e Bianciardi

De-formazioni letterarie

di Lorenzo Mecozzi [*]

«Tra Bianciardi, Fantozzi e Arturo Bandini. Fulvio Sant è l’evoluzione targata Terzo Millennio dell’intellettuale della vita agra del noto libro di Bianciardi». È quanto si legge sulla quarta di copertina diAspetta primavera, Lucky, terzo romanzo di Flavio Santi, pubblicato dalle Edizioni Socrates, ad inaugurare la collana Luminol. Evidentemente, è già il paratesto a giustificare l’attenzione che intendiamo dedicare al romanzo di Santi in una serie di articoli dedicati all’autore de La vita agra e deIl lavoro culturale, in vista del convegno e dello spettacolo teatrale Non leggete i libri, fateveli raccontare. Se, infatti, un riferimento esplicito è il richiamo alla prima opera di John Fante, Aspetta primavera, Bandini, che come il libro di Santi narra una vicenda che si articola tutta lungo un inverno che si preannuncia interminabile, il “Lucky” del titolo è proprio quel Luciano Lucky Bianciardi che abita, quasi fosse un fantasma, l’intero romanzo.

Antefatti

L’opera narra le vicende di Fulvio Sant, alter ego dell’autore e voce narrante. Traduttore, romanziere, poeta e libero docente universitario costantemente sul lastrico, il protagonista vive in un perenne tentativo di arrivare alla fine del mese attraverso il proprio lavoro nell’editoria e nell’accademia. Dopo una laurea a pieni voti all’Università di Povia (una delle tante trasfigurazioni onomastiche presenti nel libro, in questo caso si tratta della città di Pavia), il protagonista rinuncia ad un dottorato alla Scuola Normale di Pisa, nel timore che l’ambiente accademico possa soffocare quello che «allora chiamavo romanticamente talento […] la mia anima ‘artistica’» (pagg. 50-51). Continua poi gli studi a Povia e finito il dottorato entra nel mondo dell’editoria come traduttore a contratto; si sposa con Giulia (che però tradisce con Sveva, mettendo in scena la più letteraria delle dicotomie amorose: la donna angelica e la femme fatale); insegna a contratto all’università la sua “Storia paracula della letteratura” e finisce con l’abbandonare il sogno di diventare un grande scrittore. Fulvio si trova consì invischiato in un’esistenza economicamente precaria e priva di soddisfazioni lavorative e personali. L’ennesima pubblicazione dell’ennesima traduzione ben fatta è salutata senza entusiasmo. Nonostante il protagonista abbia dedicato gran parte della propria esistenza allo studio e all’acquisizione di «competenze altamente specificate», ad interessarlo non è il fatto di avere il suo «bel nome stampigliato sotto quello dell’autore», quanto piuttosto la possibilità di pagare le bollette («mi rigiro tra le mani questo librone di quattrocento e passa pagine calcolando quanti mesi di respiro mi darà» pag. 14). La sua vita è scandita dalla presenza dei manoscritti da tradurre, dalle pagine che mancano per raggiungere la quota mensile minima per la sopravvivenza materiale. I libri, nella mente del protagonista, perdono titolo e autore, si trasformano in puri oggetti, quantificabili attraverso il numero di pagine che li compongono, che finisce per identificarli: «non li chiamo nemmeno per titolo o per autore. Il Centosettanta e il Duecento, così li chiamo, come fosse una cilindrata o un tonnellaggio, o il numero di un tram da prendere al volo, desinazione capolinea Un po’ di tranquillità. Quella del protagonista è la solita vita insomma, la testa sotto terra come uno struzzo e lavurà» (pagg. 16-17).

Affinità e divergenze tra due “io”

Queste poche informazioni sulla trama del libro aiutano a comprendere quanto forte sia il richiamo a Bianciardi. Anche La vita agra, infatti, narra le vicende di un “io” alle prese con il mondo editoriale, con il lavoro di traduttore, con la letteratura e con le proprie speranze frustrate con l’arrivo nella capitale del lavoro culturale, Milano (città in cui è ambientata l’opera di Bianciardi e che è presente, in modo significateivamente differente, come meta irraggiungibile, desiderata nonostante tutto, anche nel romanzo di Santi). Se le affinità tra i due libri sono evidenti (ma se non bastassero, si possono cercare in Aspetta la primavera, Lucky i richiami espliciti dell’autore: «intendiamoci, a me Luciano Bianciardi mi fa una pippa» o «il più che Bianciardi del nuovo millennio, chiamatelo anche SuperBianciardi o ExtraBianciardi o UltraBianciardi o Di-a-da-in-con-su-per-tra-fra-Bianciardi […] o forse più semplicemente un Fantozzi plurititolato ma plurisfigato»), più interessanti possono risultare le divergenze, gli scarti, gli allontanamenti dal testo assunto come modello. Prendiamo in considerazione l’opera di Bianciardi pubblicata nel 1962. Il protagonista di La vita agra, innanzitutto, compie un viaggio. L’intreccio inizia quando lui è già a Milano, ma la vicenda parte da più lontano, dal suo paese di origine, dalla provincia toscana verso la grande città. Il trasferimento a Milano avviene in risposta ad un altro “spostamento”, quello di un’azienda mineraria che dalla città lombarda scende nella piana di Montemasi con i suoi piani industriali per scavare le viscere della terra alla ricerca della lignite; ricerca che costerà la vita a quarantatrè minatori, morti in un’esplosione. Attraverso la costruzione dell’intreccio narrativo, però, il lettore viene a conoscenza innanzitutto delle aspirazioni letterarie del protagonista. Tra pagina 26 e pagina 28 si estende un lungo brano in cui il narratore esplicita le proprie ambizioni letterarie: «datemi il tempo, datemi i mezzi, ed io farò questo e altro», oppure «vi darò la narrativa integrale – ma la definizione, attenti, è provvisoria – dove il narratore è coinvolto nel suo narrare proprio in quanto narratore», e ancora «proverò a riscrivere tutta la vita non dico lo stesso libro, ma la stessa pagina, scavando come un tarlo scava una zampa di tavolino». Solo a pagina 31 si legge «la missione mia era ben altra», mentre a pagina 41 «la missione mia, era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi [della sede milanese dell’industria mineraria] e, in ipotesi secondaria, occuparli, sbattere fuori le circa duemila persone che ci lavoravano». Il protagonista, dunque, parte con l’intento di vendicare la sorte dei lavoratori del suo paese, andando a colpire quello che ritiene essere il centro nevralgico del sistema di poteri che ne ha decretato la sorte. In questo senso, l’intera vicenda si può anche leggere come il percorso di un io che inizia con una paradossale (o paranoica) investitura collettiva e si conclude in una finale dissoluzione dell’individualità. Se, infatti, il narratore ci informa che poco prima di partire «veramente nessuno venne a dirmi che questa era la mia missione», afferma anche che «del resto bastava come mi guardarono, gli altri, salutandomi prima della partenza». L’arrivo a Milano, invece, condiziona la vita del protagonista fino al punto da far passare in secondo piano le motivazioni iniziali della partenza e da farne emergere la dimensione individuale. Con i primi problemi di sussistenza ed il confronto con i valori in gioco nella vita metropolitana, il soggetto inizia un percorso di autodefinizione che lo porta ad abbandonare le proprie velleità da bombarolo di provincia costringendolo ad affrontare la quotidianità della vita agra. Si realizza quasi quella “narrativa integrale” dove il «narratore è coinvolto nel suo narrare». L’ “io” che appare sin dalla prima frase del testo («Tutto sommato io darei ragione…») si forma ed affronta la propria esistenza attraverso la ricerca di un proprio posto all’interno della brulicante Milano, trovando nelle traduzioni, e nel lavorio sulle parole che queste comportano, la propria dimensione. Con il proseguire della narrazione, però, il lavoro di traduzione sembra prendere il sopravvento, e le parole tanto amate, i brani da tradurre, iniziano quasi ad ossessionare il protagonista. Il finale del libro, in special modo gli ultimi due capitoli (come vedremo) raccontano il crollo definitivo dell’io. Quella che può apparire la «storia di una nevrosi» (pag.156, penultimo capitolo) viene definita dalla voce narrante niente di più di una «storia mediana e mediocre», e questa presa di coscienza dà il via alla parte finale del libro. Gli ultimi due capitoli, scritti al presente alla luce dei primi nove in cui i tempi verbali predominanti sono l’imperfetto e il passato remoto della narrazione, rappresentano l’atto di denuncia mosso dal narratore alla nevrosi collettiva che sembra aver colto l’Italia dei suoi anni: l’entusiasmo per il miracolo italiano. La sconfitta dell’io è definitiva: l’atto di accusa ormai domina sulla narrazione, e le vicende del protagonista si assottigliano su un presente sempre più misero preparando il capoverso finale in cui, coricato sul letto, sopraffatto dalle questioni di traduzione, l’io si abbandona alla resa finale: «dunque quel plopped va bene così, no? Poi il sonno è già arrivato e per sei ore io non ci sono più». Lavita agra dunque è anche la storia di un cedimento, oltre che individuale, narrativo. La vicenda che si sviluppa durante la maggior parte del libro nel finale lascia il posto alle riflessioni e alle asserzioni del narratore; l’ultima azione compiuta dal protagonista è abbandonarsi al sonno, ad una, seppur parziale, non esistenza. Aspetta primavera, Lucky sembra prendere idealmente le mosse proprio dagli ultimi due capitoli dell’opera di Bianciardi. L’intero libro, infatti, assume quasi la forma del pamphlet (come viene definito pure il bianciardano Il lavoro culturale) contro l’Italia dei nostri anni. Gli obiettivi polemici in realtà sono molteplici: si va dal mondo televisivo a quello della politica, dall’ambiente accademico giudicato asfittico e privo di aperture al cambiamento del sistema editoriale governato da logiche esclusivamente mercantilistiche e corporative, dove regnano rapporti costruiti su favori e competenze puramente relazionali. Il tempo predominante del racconto (come nel finale di La vita agra) è il presente che consente alla voce narrante di sottomettere la narrazione alla riflessione, e di costruire scene che possano funzionare come exempla a sostegno del suo atto d’accusa.

Aspettando ossessivamente primavera

In Aspetta primavera, Lucky è lo stesso narratore a rivolgersi spesso al lettore, in modo da attirarne l’attenzione sulle varie storture che intende denunciare. L’intero testo si presenta di fatto come un lungo sfogo, nevrotico, isterico, egocentrico. Invece di costruire attraverso il racconto delle proprie vicende biografiche un persorso dell’io, il narratore assume esclusivamente la funzione giudicante nei confronti della realtà storica in cui vive. Anche in Bianciardi la realtà si manifesta prima di tutto sul piano storico-sociale, spingendo il protagonista ad assumere una funzione giudicante; successivamente, però, la stessa realtà diviene il luogo in cui l’io fa esperienza di sé come soggetto individuale finché, essendone oppresso, non cerca di fuggirla. In Santi la realtà esterna sembra poter essere ormai solo l’oggetto di un giudizio da parte del protagonista. Non viene narrata la presa di coscienza del mondo, ne viene solo rappresentato l’atto di accusa. La complessità della vicenda di La vita agra, con i suoi traumi e le sue nevrosi, nel libro di Santi sembra risuonare, invece che nella storia del protagonista, nella vicenda di Simone Cattaneo, poeta amico del protagonista morto suicida. È a lui che si rivolge nell’ultimo capitolo il narratore, a colui che non c’è più (come l’io di Bianciardi alla fine del suo romanzo), evidenziando in questo modo l’ineluttabilità dell’esserci del protagonista. Il momento più drammatico dell’opera di Bianciardi, l’esaurimento nervoso del protagonista di fronte al miracolo italiano, alle sue contraddizioni non percepite dalla società in cui si manifesta, si ripresenta a distanza di cinquant’anni nelle vicende di Fulvio Sant, nel suo inverno che sembra non voler finire. Un inverno che sembra non avere sviluppo, che sembra un eterno presente dal quale non è più possibile fuggire, ma che nelle ultime pagine del libro lascia spazio ad un clima più mite, che dona la forza al protagonista per un ultimo gesto (scrivere un’e-mail all’amico morto, una richiesta di dialogo destinata a rimanere frustrata) che testimonia la necessità di resistere all’ineluttabilità di essere nati nel proprio tempo.

Note

[*] della redazione di 404 – File not Found

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