Pubblichiamo degli estratti dall’ebook Topografia del Trauma. Valle del Belìce, Sicilia: un’indagine territoriale, una ricerca interdisciplinare a cura di Laura Cantarella e Lucia Giuliano (Landform).
Il progetto sulla Valle del Belìce è nato nel 2008 e si è configurato negli anni seguenti come una piattaforma con lo scopo di costruire “un atlante delle geografie informali della Valle del Belice” che possa rileggere e reinterpretare il territorio attraverso differenti linguaggi, a più di quarant’anni dal sisma. Un lavoro che ha già in parte dialogato con Sismografie e la cui recente pubblicazione online permette di acquisire strumenti nuovi per far luce sui doposismi recenti e fotografare i complessi topoi post-sismici.
L’ebook è scaricabile gratuitamente in pdf in italiano e in inglese.
Ringraziamo per la collaborazione il Centro TraMe.
Rosario Andrea Cristelli, Trauma sociale_Trauma architettonico (p.10)
In una Sicilia occidentale insolitamente innevata, il 14 gennaio 1968 un arrogante terremoto, dell’ottavo e nono grado della scala Mercalli, scompagina 280 000 ettari di territorio. Il «Trauma tettonico» colpisce tre province: Palermo, Trapani e Agrigento. Le distruzioni di maggiore entità si riscontrano lungo la valle del fiume Belìce. I paesi che risultano violentemente colpiti sono ben 14 e precisamente: Calatafimi, Camporeale, Contessa Entellina, Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Sambuca, Santa Margherita Belìce, Santa Ninfa, Vita.
La fragilità del costruito esistente contribuisce agli esiti catastrofici; era impensabile che misere costruzioni, con murature in pietrame informe o in conci più o meno squadrati e pareti con telai in canne e tufi potessero resistere a tali sollecitazioni. Al tragico epilogo tra le vittime si contano circa 400 morti, 600 feriti e 100 000 senza tetto. In pochi minuti i quattro paesi prossimi all’epicentro sono rasi al suolo: Gibellina, Montevago, Poggioreale, Salaparuta.
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Il «trauma tettonico» peggiora la situazione di una realtà meridionale che vive già un forte «trauma sociale» in fermento dai primi anni Sessanta. Una liberazione dal feudalesimo forse mai avvenuta, un persistente sfruttamento della manodopera nelle campagne, una gravante intermediazione parassitaria della mafia, l’assenza dell’acqua per irrigare i campi, le lotte di Danilo Dolci a Partinico e di Lorenzo Barbera a Partanna, la speranza delle dighe, dei consorzi agrari, delle nuove strade, il rimboschimento: a sperata bonifica della Valle del Belìce. Il cartellone d’apertura, alla storica Marcia della pace, già nel 1967 riportava una scritta sintetica ma nello stesso tempo largamente eloquente: «Il Belìce muore».
La Marcia per la Sicilia occidentale e per la pace del 6 marzo 1967 fu una manifestazione popolare non violenta che rivendicava i diritti al pane, al lavoro e alla democrazia. Partita da Partanna per raggiungere Palermo, passava per Castelvetrano, Menfi, Santa Margherita Belìce, Roccamena e Partinico, dedicando un giorno a ogni paese; aveva lo scopo di perseguire quindi speranza, pace e sviluppo socioeconomico per la Sicilia occidentale. Vi parteciparono, oltre ai sindaci e ai politici della valle con le popolazioni in massa, personaggi come Danilo Dolci, Bruno Zevi, Ernesto Treccani, Antonio Uccello, Lorenzo Barbera, Carlo Levi, Rosa Balistreri e l’icona vietnamita Vo Van Ai, eroe della resistenza del suo popolo contro i francesi, poeta e sociologo di indiscusso valore. A questa seguiva, nell’autunno del 1967, la «grande Marcia per la Pace Nazionale», con due cortei che, partendo da Palemo e da Milano, si riunivano a Roma il 30 novembre 1967, dopo trenta giorni di cammino.
Un’altra data memorabile nel processo di partecipazione della popolazione del Belìce rimane il 2 marzo 1969, quando in 1500 si accamparono per quattro giorni e quattro notti davanti a Montecitorio, circondati da una grandiosa solidarietà romana e nazionale. Questa manifestazione portò a un testo di legge per la ricostruzione e lo sviluppo della Valle del Belìce, dibattuto, adeguato e approvato in quei giorni, precisamente il 5 marzo, che vedeva sopiti gli animi ma presto deluse le aspettative. Sempre Ludovico Corrao affermava: «Il movimento tellurico era già interno alla società».
L’emigrazione era un fenomeno in atto da decenni; si muoveva verso il Sudamerica e poi l’Australia, la Germania e successivamente verso il Nord Italia.
Nella tragedia della distruzione si riesce paradossalmente a rintracciare l’occasione di una ricostruzione non solo tettonica ma anche sociale ed economica; non solo un potenziale notevole per tutta la Valle del Belìce bensì per tutta l’isola e in particolare per la Sicilia occidentale. L’industrializzazione dell’agricoltura, l’acqua democratica, i consorzi agricoli sono ancora l’utopia del Belìce.
F. Mazzucchelli, “La città verrà ricostruita all’alba”. (Ri)produzioni e (re)invenzioni di memorie urbana(p. 9)
E le tracce lasciate dagli eventi catastrofici, queste cicatrici urbane, possono diventare segni particolarmente potenti nell’economia semiotica della città: tracce a volte da cancellare, da occultare, segni sedimentati a volte da conservare, da esibire, da trasformare.
I modi in cui le politiche di ricostruzione trattano queste tracce (trasformandole, rimuovendole, ripristinandole, restaurandole, cancellandole, contraffacendole) stabiliscono una codificazione (valida nella «sintassi urbana», ma anche in quella della memoria della collettività) dell’evento catastrofico subito dalla città, determinando come (e se) deve essere ricordato, come (e se) deve far parte dell’identità urbana.
Ma ci sono altre modalità di inclusione della catastrofe nell’urbano, che riguardano,il pre- e il post- catastrofe. Il pre-, la previsione: la città è costretta a prevedere l’incidente (antropico o naturale), ad attrezzarsi contro di esso anche in sua assenza. La catastrofe è continuamente evocata nella pianificazione e nella programmazione della gestione dell’emergenza e della sicurezza, nelle strategie di controllo biopolitico della vita urbana. La previsione può divenire dunque, come ci suggerisce la parola stessa, una pre-figurazione, l’anticipazione di una visione catastrofica; quasi una self-fulfilling prophecy?
Del post-, abbiamo già detto, accennando alla ricostruzione. La ricostruzione post-catastrofe vive di un paradosso: solitamente si parte dal presupposto che l’evento distruttivo o l’azione urbicida, cancellando, producano una smemorizzazione del paesaggio urbano, una produzione di oblio, laddove il compito della ricostruzione sarebbe quello di ripristinare la memoria perduta, di (ri) produrre memoria. Ma la catastrofe e l’urbicidio, mentre distruggono e cancellano, producendo oblio, allo stesso tempo generano una loro memoria, sotto forma di tracce dell’evento distruttivo; al tempo stesso, la ricostruzione, mentre vuole riprodurre una memoria persa, rischia di generare oblio, cancellando le tracce dell’evento distruttivo. Compito della ricostruzione sarà allora anche quello di saper discernere (in certi casi, «reinventandolo») il valore, semantico ma non solo, assunto da queste tracce, valore che può variare molto a seconda del tipo di evento che le ha prodotte, ma che può essersi sedimentato nell’identità della città.
La ricostruzione diviene così una pratica non solo estetica ma anche etica, che può consentire una rielaborazione semiotica del trauma urbano.
Ferdinanda Vigliani, Alfredo Ronchetta, Cuciture. Memoria delle donne nella Valle del Belìce (pp. 39, 40)
L’insistenza sulla storia e la memoria delle donne parte da una consapevolezza che viene da lontano: sono almeno quarant’anni che le storiche si sono impegnate a colmare le lacune di una storia centrata sul soggetto maschile. Questa determinazione a cercare le tracce delle donne ha offerto prospettive inedite, nuove ricchezze. Se si sa che cosa cercare, nei racconti delle donne si trovano tesori nascosti.
La ricerca nella Valle del Belìce non ha deluso queste aspettative: le cinque interviste video che proponiamo offrono profili molto diversi fra loro, narrazioni che si integrano e che in alcuni punti convergono. Un’intellettuale, una contadina, una madre di famiglia un’ostetrica e una maestra Un’intellettuale, una contadina, una madre di famiglia un’ostetrica e una maestra raccontano il tempo del terremoto.
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Il senatore Ludovico Corrao, sindaco emerito di Gibellina e grande animatore della rinascita culturale e artistica della valle, ha spiegato che era tradizione che le proprietà immobiliari delle famiglie andassero in eredità alle figlie femmine. I maschi di solito ricevevano il mulo e la campagna. Dunque il legame delle donne con la casa era forte. Infatti furono le donne a recarsi a Roma per pretendere dal Parlamento una legge per la ricostruzione e furono sempre le donne a rifiutare che fosse un’unica impresa a costruire tutte le case di Gibellina Nuova. Vollero invece un finanziamento per farle autonomamente.
Il trauma dunque doveva essere guarito e per farlo ci voleva coraggio e senso di responsabilità; è questo un altro aspetto comune alle diverse interviste: «Ero giovane, ma per aiutare i miei genitori ho dovuto crescere tutto in una volta» ha detto una delle intervistate, la signora Filippa Mirlocca, incontrata a Vita nel pomeriggio del 18 settembre, che nel 1968 aveva appena 18 anni. Lei visita i luoghi della sua infanzia, oggi edifici in rovina, ma che ancora possono offrire un appiglio ai ricordi: il cortile dove giocava da bambina, la casa dove viveva sua nonna, la bottega del fabbro sull’angolo. La porta della casa in rovina è intatta: costruita in una pietra silicea che ha resistito al terremoto e al tempo. La stalla che un tempo ospitava le pecore del padre di lei è oggi invasa da rigogliosi rampicanti. Proprio di fronte c’è ancora la baracca dove la famiglia si era rifugiata subito dopo il sisma. Oggi è un deposito di attrezzi. La famiglia vive attualmente in una casa moderna e funzionale, ma il figlio, Filippo Marsala, ha fondato un’associazione: il Centro Studi Vitesi nel Mondo, che cerca di conservare la memoria di Vita come era un tempo. Lui e il padre hanno un hobby creativo: hanno realizzato un modello dell’antica chiesa di Vita, ricostruita sulla base delle fotografie e dei ricordi, proprio come era prima del sisma. La signora Filippa mostra anche il luogo dove sorgevano le baracche.
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Un altro aspetto comune alle cinque interviste, perché legato al ruolo femminile, è una realistica, pragmatica visione della catastrofe come opportunità. La scossa del terremoto aveva raggiunto anche certi vecchi pregiudizi, abbattuto delle ingiuste discriminazioni. La tradizionale segregazione delle ragazze siciliane in famiglia era diventata difficile da praticare vivendo nelle baracche, e l’intensa socialità che si era sviluppata non le escludeva, anzi. Ninetta Lombardino è un’insegnante di scuola materna. Al tempo del sisma era molto giovane. Il marito lavorava per il Comune di Gibellina ed è stato molto attivo nelle iniziative collegate alle Orestiadi. Nella casa sono conservate alcune piccole opere donate dagli artisti che a Gibellina hanno realizzato gli imponenti monumenti che danno alla città la sua caratteristica fisionomia di città punteggiata da opere d’arte. Parla della vita nelle baracche come di un momento di grandi relazioni sociali e anche di spensieratezza, di allegria: «Eravamo tutti giovani» dice, «e il terremoto aveva abbattuto insieme con le case, tante barriere invisibili». Ricorda di essere stata in quel periodo invitata a una festa a Palermo dove le ragazze e i giovanotti ballavano tra loro in due sale separate: qualcosa che a Gibellina sarebbe stato impensabile. Il terremoto dunque aveva portato anche un po’ di modernizzazione. In quel periodo, nel Belìce uscito dalla catastrofe, le ragazze veramente irrompono sulla scena, prendono la parola, agiscono politicamente, esprimono una nuova soggettività. Sono creative e combattive. Poi, quando incominciarono le grandi opere e le Orestiadi, questo spontaneismo che aveva caratterizzato i primi anni venne abbandonato e anche il ruolo innovatore che le donne avevano avuto cambiò, ritornando su binari più tradizionali.
Oggi ciò che avevano sperato e per cui avevano speso tanto impegno, energia, fantasia, in parte è stato raggiunto: adesso tutti hanno una casa. E la casa è importante. Ma un poco si rimpiange quella socialità così viva. Anche la lotta, il sentirsi insieme, quell’intreccio di relazioni che avevano costituito la guarigione dopo il trauma. «Le strade che corrono tra gli edifici antisismici di Gibellina sono così larghe…È diventato impossibile parlare da una finestra all’altra».