“Tolo Tolo” di Checco Zalone, o del coinvolgimento occidentale in Africa.
Il primo film da regista di Luca Medici alias Checco Zalone è più complesso e politico degli altri quattro di cui era protagonista, Cado dalle nubi (2009), Che bella giornata (2011), Sole a catinelle (2013) e Quo vado? (2016). È la storia di un improbabile imprenditore che dopo essersi indebitato ed aver indebitato la famiglia per costruire un lussuoso ristorante “Murgia&Sushi” a Spinazzola (naturalmente in Puglia, terra d’origine del comico) decide di scappare in Africa a rifarsi una vita lavorando nel villaggio turistico di Saint-Jacques, che per il regista è «immaginato vicino al Senegal, dove inizia il viaggio dei migranti» ma è stato girato in Kenya. Ritroviamo il cameriere Zalone a suo agio che consiglia ricchi italiani su investimenti e su come evadere meglio le tasse, mentre il suo amico Oumar (Souleymane Sylla) – colto e appassionato di cose italiane, personaggio tanto fastidiosamente stereotipato quanto funzionale – sogna l’Italia non per scappare dalla povertà ma piuttosto perché è la terra del neorealismo. L’idillio viene rotto da un’innominata guerra in questo innominato Paese, che spingono Zalone e il suo amico prima a nascondersi nel villaggio di quest’ultimo e poi a intraprendere il lungo viaggio verso l’Europa.
Quasi didascalicamente, il film è una grande metafora del coinvolgimento occidentale in Africa, dell’incapacità di provare a comprendere dinamiche complesse e stratificate, della pretesa di saperne sempre e comunque di più. Il personaggio Zalone semplifica, riduce, incasella, ma soprattutto riconduce tutto ai propri problemi. Quando scoppia la guerra Zalone non vuole chiamare casa per rassicurare la madre, perché così facendo si renderebbe raggiungibile dalle temute ex mogli oltre che da creditori vari: la vera tragedia è la sua, argomenta a Oumar, di certo non la guerra. L’intera esperienza africana si muove sì sulla linea del paradosso e dell’ironia, ma i problemi affrontati sono reali, e anche la posizione che l’attore pugliese prende è chiara.
Le scene in Africa sono veicolate da una cifra stravolgente: arrivati al villaggio di Oumar i bambini sono stupiti dalla bianchezza di Zalone e lo toccano divertiti, e lui prova goffamente a incarnare la condizione di altro. La familiarizzazione, lo scambio e l’incontro avvengono nella ricerca costante di un terreno comune, per provare a far emergere, ribaltandola, la propria superiorità. Come quando esclama, sollevato, «Ah, c’è il maschilismo anche qua», o quando mette tutti nei guai e poi si prende meriti di aver risolto la situazione mentre l’ha solo complicata (decenni e decenni di coinvolgimento europeo in Africa, tra colonialismo e post, sono così mobilitati).
Non c’è buonismo nel film: il personaggio di Oumar, colto, cresciuto guardando i grandi film italiani (due quelli citati esplicitamente, Roma città aperta e Mamma Roma), che legge Cesare Pavese (Il carcere) nelle pause del viaggio, che prova ad aiutare Zalone a orientarsi nel marasma africano, è poi quello che lo tradisce vendendo lui e i compagni di viaggio a guerriglieri libici – questi invece esplicitamente connotati. La protagonista femminile, Idjaba (Manda Touré) è lontanissima dall’immagine della femme fatale o anche dallo stereotipo colonialista e razzista della venere nera, e lontanissima pure dal presunto immaginario tette e culi dei cinepanettoni: è infatti una guerrigliera in incognito.
Solo un uomo bianco poteva fare un film così, perché l’obiettivo naturalmente non è capire l’altro, interrogarsi sulle potenzialità della rappresentazione, ma mettere a nudo il colonialismo e il fascismo intrinseco dell’occidente, del nostro sguardo. È una buona cartina di tornasole quindi andarsi a vedere cosa ne hanno scritto gli eredi di colonialismo e fascismo. Basta farsi un giro tra i commenti su Twitter di quell’area politica per trovarvi un ex ministro ed ex MSI dire che il film è scarso e noioso, il leader di una famosa organizzazione politica di fascisti di questo millennio impelagarsi in bizzarre spiegazioni sul fatto che la cicogna non ci fa nascere per caso in vari posti del mondo ma «ognuno di noi invece è nato in un determinato luogo e appartiene ad un determinato popolo, per infinite SCELTE precise fatte dai suoi genitori, dai suoi nonni e da tutti i suoi avi», proprio così, maiuscole incluse. Per il Giornale invece il film è terzomondista, e hanno ragione, anche se probabilmente è una critica, la loro.
Ci sono in questo senso momenti simbolici anche molto forti, che vanno adeguatamente letti e interpretati. Appena capisce che tutti i suoi debiti sarebbero estinti qualora egli stesso si estinguesse, Zalone strappa il passaporto in una piazza africana, assumendo simbolicamente la condizione di apolide, diventando clandestino – o meglio, «clandestine», come lui stesso dice, mischiando lingue. Il secondo passaggio è liberarsi delle proprie vesti – abiti firmati di Dolce e Gabbana, Louis Vuitton (chiamato Luigi), Giorgio Armani e scarpe firmate – che svende (21 dollari) per poi ritrovarli in barca addosso all’immigrato del famoso video. A quel punto, immerso e spogliato, non più italiano, a Zalone non rimane che intraprendere il grande viaggio verso l’Europa come tutti gli altri. Esplicito o implicito che sia, il richiamo è ad uno dei grandi classici del cinema sulle migrazioni, Lamerica di Gianni Amelio (1994), dove il personaggio interpretato da Enrico Lo Verso perde tutto e si imbarca con gli altri albanesi. Una scena con camion stracolmo di gente che attraversa il deserto ricorda anche visivamente l’ormai seminale scena del film di Amelio, il pullman che attraversa le montagne albanesi con i viaggianti che cantano tutti insieme L’italiano di Toto Cutugno.
Gli attacchi di fascismo sono i momenti più espliciti, politicamente, del film. Questo, a guardar bene senza fermarsi alle apparenze, era chiaro anche dal trailer-video musicale che tante polemiche ha suscitato, quando si vede Zalone che mima Mussolini. Nei momenti in cui la situazione esterna lo sopraffà si trasforma infatti in Mussolini nelle pose e nelle parole, sentendo voci che lo spingono a ripetere le parole del duce. Esplicitamente gli dicono «non ti preoccupare: ce l’abbiamo tutti dentro il fascismo, è che col caldo e lo stress viene fuori, come la candida». Non basta una pomata però e, se dopo uno dei primi attacchi si sostiene che l’unico modo per combattere il fascismo è l’amore, nel corso di Tolo Tolo si passa a qualcosa di molto più complesso e profondo: quando “gli esce il fascismo”, l’unico che riesce a fermarlo – facendogli invece uscir fuori una versione monca e ribaltata di Kennedy, senza che nessuno gli dica però “bel discorso Zalone, tu parevi Kennedy” – è proprio il bambino nero che viaggia con loro e che si stabilirà in Italia per renderla un po’ meno bianca. Insomma, anche in questo caso, schematicamente, il senso è chiaro: le nuove generazioni di italiani non bianchi possono fermare il fascismo insito dentro di noi. È un messaggio banale? Forse, ma sicuramente non razzista. E del resto questo è chiaro anche nel momento politicamente più forte del film, quando con Mino Reitano in sottofondo che canta Italia Zalone e Idjaba attraversano una serie di città e luoghi tipici dell’italianità riletti in versione totalmente nera, con la nazionale di calcio, unico vero vettore di italianità in questo Paese, composta adesso soltanto da giocatori non bianchi. L’incubo dei razzisti.
Un ruolo altamente simbolico è incarnato anche dal personaggio di Alexandre Lemaitre (Alexis Michalik), un giornalista e scrittore francese che viaggia nei Paesi che soffrono, che Zalone e i suoi compagni di viaggio incontrano in mezzo al nulla nel deserto. Innamorato di sé stesso, tutto il resto è un mero prisma attraverso il quale trasmettere la sua immagine, e per estensione quello di una Francia coloniale e orientalista. Si immerge nella realtà africana dormendo in lussuosissimi hotel e guidando macchine costose, mantenendo costantemente un filtro tra sé (il vero obiettivo dei reportage) e il resto del mondo. Possiamo anche vedere in questo personaggio i vari youtuber di oggi che prendono soldi da sponsor vari per viaggiare in giro per il mondo, senza mai immergersi nella realtà locale e mettendosi costantemente al centro dell’attenzione. Zalone e il giornalista francese sono legati da una crema idratante per mantenere la propria pelle (bianca) pulita e giovane, uno degli oggetti chiave del film. Zalone non la trova più da comprare in Africa, prova nella farmacia locale dove naturalmente non la vendono, e sarà soltanto Lemaitre (sponsorizzato per i suoi viaggi della crema stessa) a dargliela. Non è un caso che lo sbiancante passa dalle mani dei due uomini bianchi protagonisti del film, lo stolto italiano e il francese armato di finto-buoni sentimenti.
Vedendo il video di promozione del film in molti, incluso l’ex ministro degli interni Salvini, si erano immaginati qualcosa di diverso. Immigrato infatti, canzone che nel film ritroviamo soltanto nei titoli di coda, gioca sugli stereotipi anche in maniera molto marcata, sfociando apertamente in passaggi che si possono interpretare come razzisti. Non si trova traccia di quasi niente di tutto questo in Tolo Tolo. Insomma, siamo di fronte a un cavallo di Troia, un’esca per attirare spettatori che poi troveranno altro: un personaggio sì razzista (“un po’ di xenofobia me la sono guadagnata sul campo”), ma un film che non lo è. Ma a guardare questo video con attenzione alcuni segni si trovavano già. Se da una parte mobilitava i peggiori istinti razzisti e omofobi, dall’altra mostrava già il personaggio di Zalone trasformarsi in Mussolini, c’era già la parodia dello slogan “prima gli italiani” (che ritroviamo nel film in un talk show), il tutto ambientato nel palazzo di un film che mette esplicitamente alla berlina la stupidità del fascismo, Una giornata particolare di Ettore Scola (1977) – regista anche di Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968), film che diversi commentatori hanno citato.
E il cavallo di Troia lo vediamo anche nella cifra favolistica, per bambini, che emerge in alcune scene musicali, come quella onirica che sembra richiamare Nuovomondo (Emanuele Crialese, 2006) con i migranti che nuotano in mare, o il cartone finale con la cicogna che sbanda e ogni tanto porta i bambini in Africa: ancora, didascalicamente, Zalone mette in risalto il privilegio di essere nati dalla parte più ricca del mondo, e lo fa rivolgendosi direttamente ai bambini.
Non mancano come in tutti i film di Zalone i momenti in cui demistifica e detronizza, facendosi beffa dell’elitismo culturale, parodiando i cinefili («Lì hanno fatto il tè nel deserto» «Ah, e lo fanno ancora?» «Ma no, Bertolucci» «Qualunque marca va bene»), i festival etnici dove si suona la pizzica africana (nella scena finale), e persino l’animalismo, con la maglietta che Zalone porta nella seconda parte del film, quando il mondo gli crolla addosso, dell’associazione chiamata Saving the whales. Ma le scene ambientate sulla nave della ONG spagnola che li sta portando in Italia, che rimandano alle troppe situazioni a cui siamo ormai abituati dalla Sea Watch alla Open Arms, sono immensamente rispettose nei confronti dei migranti e critiche verso le scelte politiche sulle migrazioni. Il tutto reso più efficace dal tono comico tipico di Zalone, con i migranti che vengono smistati nei vari paesi europei (Liechtenstein incluso, dove il protagonista vuole andare perché non si pagano le tasse) un tanto al chilo con una roulette che ricorda i giochi a premi Mediaset.
Soltanto nelle ultime scene si capisce che il film è prima di tutto una storia su un ricongiungimento famigliare, tema quanto mai attuale e altro grattacapo per razzisti italiani e non. Scopriamo che il vero scopo del viaggio per Idjaba è accompagnare in Italia il bambino che viaggia con loro, Doudou, che Zalone e gli spettatori credevano suo figlio ma che è in realtà il figlio di una sua compagna di lotta. Il padre è infatti in Italia, e Zalone, appena sbarcato, va a Trieste a cercarlo. È un pittore, e il piccolo Doudou riconosce Idjaba (chiamandola mamma) in uno dei suoi quadri, e così si ritroveranno. Il bambino si ricongiunge al padre, grazie a una madre putativa arriva in un luogo che diventerà casa sua.