A Thilafushi, nelle Maldive, ancor prima che un disastro ecologico si consuma un disastro umano. Un centinaio di lavoratori bengalesi hanno dovuto fare di questa discarica una casa.
A poppa del traghetto per Thilafushi alcuni operai maldiviani buttano una lenza in mare per pescare a traina. I bengalesi, il gruppo più numeroso a bordo, ascoltano distrattamente i vocalizzi nasali delle cantanti indiane che escono gracchiando dai telefonini. Altri hanno gli occhi fissi sullo smartphone, tanti dormono, sfiniti dal caldo e dall’umidità sudicia, inquinata e malsana di Male’.
Di Thilafushi, l’isola dei rifiuti, la discarica a cielo aperto che raccoglie l’immondizia dei resort di lusso delle Maldive, si parla già da tempo. È il grande retroscena – ormai neanche tanto segreto – che rende possibile l’idillio di tanti honeymooners arrivati qua da Gran Bretagna, Germania, Francia, Russia. Ma anche, e soprattutto, da Italia e Cina.
Questa discarica non è però solo un disastro ecologico, per altro quasi inevitabile. A Thilafushi termina una delle più tristi diramazioni di quella diaspora che ha caratterizzato il Bangladesh dagli anni Settanta in avanti, dopo la sanguinosa guerra civile di cui le fotografie di Rashid Talukder testimoniano l’orrore. Qua lavorano e vivono – questo è il dato più agghiacciante – più di un centinaio di bengalesi. Qua si incrociano storie come quella di Afzal, cinque figli e una moglie in Bangladesh, che da otto anni fa giornate di lavoro di undici ore, dalle sei del mattino alle sei di sera, con un’ora di pausa pranzo. Lavora, mangia, dorme, vive tra cumuli di rifiuti in fiamme. Con l’odore di plastica bruciata perennemente nelle narici. Si incontra Qaasim, che, anziché dormire nei quartieri messi a disposizione della compagnia che gestisce la discarica, torna a Male’, dove vive nella solitudine. Nella società isolana e frazionata delle Maldive, in cui dilagano discorsi xenofobi, l’integrazione è una storia lontanissima. E allora Qaasim la sera prende la sua bicicletta, si fa un giro per le trafficatissime strade della città e poi ritorna nella sua stanza. Così, solo per fare qualcosa.
L’area di Thilafushi in cui lavorano Qaasim e Afzal ha l’aspetto di uno scenario post-apocalittico. I rifiuti formano un paesaggio tutto loro. Nuvole di fumo irrespirabile che accarezzano montagne di immondizia trasformata ormai in una melma uniforme; ai loro piedi, spiagge di bottiglie incorniciano laghi di acqua salata completamente ricoperti di plastica. Stormi leggeri di sterne volano su detriti e scafi di navi divorati dalla ruggine.
Durante il periodo del monsone umido, le strade che collegano le diverse zone di Thilafushi diventano fiumi di fango. Durante la stagione secca, i solchi scavati dai mezzi durante le piogge si asciugano e rendono le strade quasi impercorribili. Gli operai vengono trasportati sui pianali senza sponde di vecchi camion indiani, in piedi, stringendosi l’un l’altro per non cadere ad ogni buca.
Thilafushi in realtà è solo una delle destinazioni dei lavoratori bengalesi alle Maldive. Tanti altri finiscono sparsi tra le centinaia di isole locali, a lavorare nei cantieri, molto spesso accontentandosi di avere un tetto sopra la testa e di non essere denunciati per mancanza di permesso di soggiorno, senza paga, senza diritti, senza neanche più la possibilità di tornare indietro. Secondo le stime del Department of Immigration and Emigration maldiviano sono circa cinquantamila, in larghissima maggioranza senza permesso di soggiorno regolare, in un Paese di poco più di trecentomila abitanti. Un dramma di cui si sono occupate diverse organizzazioni locali, come Blue Peace e Transparency Maldives, ma a cui ancora non è stata data alcuna risposta strutturale.
Verso sera, il dhoni si avvicina lentamente al molo. I lavoratori si accalcano disordinatamente per imbarcarsi, con quel vago senso di ressa che qui, quando non sei ospite di un resort a cinque stelle, ti accompagna ovunque. Ti appoggiano una mano sulla spalla, ti spostano e ti passano davanti. Senza prepotenza. È la voglia di scappare. E, forse, l’urgenza di trovare un posto a sedere, per evitare di trovarsi tra gli sventurati costretti ad addormentarsi in piedi, o tra gli audaci che si piazzano a prua, chiacchierando, fumando e ridendo in faccia al vento e alle onde.