Theory or not theory?

Prosegue il dibattito avviato con i testi di Fabio Dei e Pietro Saitta.  Valerio Romitelli si sofferma ancora sul ruolo delle teorie critiche e sulle visioni dello Stato offerte dalle scienze sociali e torna sull’articolo di Barbara Carnevali pubblicato su Le parole e le cose. 

 

Da quattro anni assieme a Luca Jourdan presso l’Università di Bologna tengo un seminario sul pensiero politico nell’ambito dell’insegnamento di Antropologia Politica. Si tratta di un seminario serale per gli studenti ma aperto a qualsiasi interessato. Il suo obiettivo è duplice. Da un lato, contrastare una tendenza molto in voga tra le discipline umanistiche: la tendenza che si potrebbe dire eclettica o peggio consumista e che consiste nel mescolare e confondere nozioni, categorie, concetti extrapolati a piacere da autori e opere, anche le più disparate tra loro, allo scopo di confezionare testi e discorsi facilmente riciclabili a livello comunicativo – ossia del semplice scambio delle opinioni. Dall’altro, avanzare l’idea che per fare ricerca in genere, e più in particolare per fare ricerca antropologica in ambito politico, occorre, ben più che lo scambio delle opinioni, il sapere pensare in modo pertinente, cioè una libera attività intellettuale svincolata dall’ansia del dovere comunicare, ma disciplinata nel perlustrare le frontiere tra il noto e l’incognito.

Grande è stato dunque il favore con cui ho notato ultimamente come preoccupazioni simili siano condivise da autori come Barbara Carnevali e Fabio Dei, la prima intervenendo in ambito filosofico, il secondo in ambito antropologico. In particolare, del primo intervento ho apprezzato alcuni punti. Anzitutto le varie definizioni che l’autrice offre di questa tendenza chiamata ora “simulacro della filosofia”, ora “scolastica post-moderna”, ora “filosofia sintetica low cost”, ora più semplicemente “Theory” – a seguito sopratutto dell’invenzione americana di etichette quali “French” e “Italian Theory”, sotto le quali vengono commercializzati, letti e discussi autori e opere in origine del tutto estranei a queste diciture. In secondo luogo, Carnevali bene identifica la lista degli ingredienti più spesso utilizzati dai cultori di questa tendenza quant’altra mai interdisciplinare: marxismo, psicanalisi, decostruzionismo, heideggerismo, cultural e post-colonial, gender e queer studies, ma anche Foucault, Derrida, Deleuze, Agamben, Said, Spivak, Butler, Žižek e così via. Ma ciò che trovo più interessante in questo intervento è il suo sottolineare l’origine essenzialmente statunitense di questo fenomeno, che viene giustamente equiparato a un fenomeno di marketing: come in un supermercato tarato su quella tipologia del consumatore americano al quale lo stesso pubblico europeo assomiglia sempre più anche in tema di “prodotti culturali”. Una critica ben mirata, questa, che si giova anche di riferimenti del bel libro di Cusset[1]  e che comunque non induce questa autrice ad alcun atteggiamento per così dire protezionistico: “i tentativi di difesa delle frontiere disciplinari” li ritiene infatti “pericolosi e anodini”, mentre si dichiara a favore del “dialogo aperto con altre forme di sapere” e non vede “nulla di sbagliato” in un’“attitudine generalista”. Il peggio della Theory per lei sta principalmente nell’“assenza di rigore”, “di chiarezza”, “di solidità definitoria, argomentativa”, nell’“anteporre risposte veloci alla fatica del dubbio e del concetto”, nel restringere a priori “il campo del pensabile e del dicibile”, nel “non oltrepassare la doxa”, ma anzi riprodurne un ulteriore strato a livello accademico.

Come dir meglio? Fin qui nulla da obiettare. Anzi. Anche se stupisce un po’ leggere accanto a tante rivendicazioni di rigore concettuale battute come quella con cui Carnevali en passant imputa alla stessa Theory di non porsi “domande fondamentali” quali quella che invece a me pare tanto banale quanto fuorviante riguardo a non meglio identificati “tratti autoritari” presenti ne Il Principe di Machiavelli.

Ma c’è un altro punto che mi ha ancora più stupito e contrariato. Il fatto di annoverare tra i difetti della Theory le sue implicazioni più “impegnate”, rivolte “a una considerazione critica del presente” (sic!). Ciò significherebbe dunque che questa tendenza attenuerebbe i suoi tanti difetti se si mantenesse a una considerazione a-critica, da benpensanti, del presente? Carnevali non giunge fino a una simile estrema conseguenza. Si limita ad accennare alla dimensione militante, radical, rivendicata dalla maggior parte dei cultori della Theory come se fosse rubricabile nella lista dei tanti loro vezzi arbitrari. Il perché di questo giudizio non viene chiarito. In fondo, come dice il titolo di questo suo breve e comunque penetrante intervento, non si tratta che di “una provocazione”.

Tuttavia su questo punto mi pare invece si giochi una questione cruciale a proposito di tutti i temi fin qui affrontati. Sì, perché se si vuol difendere il pensiero e il suo disciplinamento ai fini della ricerca, se li si vuol difendere contro gli imperativi della doxa, dell’opinione, della comunicazione, del facile consumo culturale, come si fa a vedere un difetto in una postura critica, radicale, anticapitalista rispetto al presente? La mia idea è in effetti esattamente contraria: che se ci fosse anche solo una cosa da accogliere e valorizzare della tendenza detta Theory, questa cosa sarebbe proprio la contestazione del mondo così com’è e va attualmente – contestazione che effettivamente accomuna gli autori più o meno etichettabili con questa dicitura.  E non si tratta solo di una questione di puro e semplice schieramento politico. Si tratta di una ben più profonda questione storica ed epistemologica. Lo dico nel modo più diretto possibile: chiunque studi in un modo o in un altro la “condizione umana”, come i filosofi, gli antropologi, i sociologi e così via, può forse relegare a questione secondaria la considerazione dello stato attuale di tale condizione? E se invece la considera prioritaria come si può non indignarsi di fronte a come sta andando il mondo?

Ecco allora che se un tale ordine di problemi è sollevato anche al solo livello d’opinione e di informazione, anche solo in modo confuso e euristicamente poco proficuo, ecco che se fosse anche solo questo che si fa sotto le insegne della Theory, ciò varrebbe comunque come attenuante, e non da poco, di tutti gli apprezzamenti non positivi che se ne possono giustamente dare. Trovo infatti che lo scandalo e l’indignazione per come è messa attualmente l’umanità sia il primo presupposto etico ed epistemologico necessario per studiarla in modo serio e appropriato, sotto qualunque aspetto e dimensione.

Di parere contrario è evidentemente Fabio Dei, il quale nel saggio pubblicato su il lavoro culturale fa propri l’approccio e le critiche di Carnevali alla Theory, ma con un cambio di registro notevole. Mentre, come visto, la filosofa denuncia questa tendenza soprattutto perché non spinge le sue elaborazioni “oltre” l’opinione comune, l’antropologo la critica invece anzitutto per il suo “non sapersi confrontare col linguaggio comune e il buon senso” (p. 10). Così, se nel primo caso la colpa maggiore starebbe in una sorta di miseria intellettuale, nel secondo starebbe nei caratteri autoreferenziali di una “élite intellettuale globalizzata e largamente chiusa su se stessa, per di più priva di rapporto con il mondo della politica reale” (p. 10). Le accuse di Dei si situano quindi su un piano discorsivo del tutto diverso, quasi opposto a quello della Carnevali, seppure non incompatibile con esso. Se questa giudica in nome anzitutto del pensiero speculativo, Dei giudica sul piano del buon senso e del realismo politico. Differenza questa che di per sé merita una riflessione. In effetti, se è vero che il nostro tempo e il nostro paese sono così impregnati di consumismo e comunicazione all’americana, se è vero che ovunque imperversa l’ingiustizia sociale, certo è legittimo aspirare a una più intensa vita intellettuale, ivi compreso in campo filosofico, nonché a un maggior disciplinamento del pensiero ai fini delle ricerche nei campi delle scienze sociali e delle dottrine politiche, ma si può essere altrettanto certi che ci vogliano anche più buon senso e più realismo politico?  O non sono proprio il buon senso e il realismo politico ad averci portati a subire l’egemonia culturale anglofona e tutte le connesse polarizzazioni delle differenze sociali?

Così evidentemente non la pensa Dei che si impegna, con le sue note competenze e maestria, a dimostrare come il peggio per l’antropologia stia proprio nel radicalismo tanto estremista quanto snob che per lui caratterizzerebbe tutti i cultori della Theory. Una tendenza che qui appare come una sorta di lobby accademica élitaria, comunque ben più globalmente dominante e coerente nelle sue perversioni di quanto non appaia nella Carnevali. Nell’attacco a questo supposto schieramento Dei comincia col prendersela con l’uso di due categorie tipiche del gergo invalso tra gli antropologi militanti: quelle di “forclusione” e “nuda vita”, dimostrando con grande scrupolo l’illegittimità etimologica della loro rielaborazione (da parte rispettivamente di Spivak e di Agamben) rispetto alle loro origini (rispettivamente nell’opera di Lacan e in quella di Benjamin). Ma qui come altrove le colpe imputate alla Theory sono sempre le stesse: un approccio totalizzante e una ripulsa di ogni potere visto come fondamentalmente repressivo, con scarsa o nulla attenzione alla sua dimensione costitutiva.

Tutto l’intervento di Dei consiste in effetti in una molteplice illustrazione dello schema argomentativo che consiste nello screditare la propensione totalizzante e antirepressiva imputata alla Theory per opporle un atteggiamento ben più moderato incentrato sullo studio delle complessità e delle ambivalenze della cultura. È questo l’atteggiamento che viene ritenuto più conveniente per l’antropologia come si deve. Così, ad esempio, Dei ammette sì l’importanza attuale delle “differenze” e delle “discriminazioni verso i soggetti subalterni”, ma lungi da attribuire un primato etico ed epistemologico a questo problema lo declassa a uno tra gli altri, sia pure “grandi”, che riguardano il nostro tempo. D’altra parte, egli tiene pure a sottolineare “il collasso delle distinzioni tra diverse posizioni politiche interne al ‘sistema’: quelle che alimentano disuguaglianze e discriminazioni e quelle che tentano di ridurle” (p. 13). Ove giustamente è usato il verbo “tentare”, visto il reiterato insuccesso di tali tentativi e il persistente trionfo di ciò che essi suppongono contrastare. Ma ciò non basta a convincere Dei dell’univocità delle politiche dominanti a questo riguardo da più di quarant’anni in qua. Ciò che più gli preme è prendersela con le denunce di questo fatto incontestabile.

Tema cruciale del suo saggio riguarda per altro il concetto e la funzione dello Stato. Qui sorprende quanto meno una semplificazione. Tra i pensatori inclini a ridurre lo Stato a figura essenzialmente totalitaria e repressiva si trova infatti annoverato persino il filosofo marxista Louis Althusser, ben diversamente noto per le sue critiche radicali al concetto di totalità e per un ripensamento dell’ideologia come dimensione inconscia, costitutiva (e non certo eminentemente inibente) della stessa soggettività. Senza entrare in queste sottigliezze, Dei si limita a opporre alla presunta visione statale di questo filosofo francese, quelle di Gramsci e Bourdieu, anch’esse più che mai riciclate nel calderone della Theory, ma che invece vengono altrimenti apprezzate da Dei come riferimenti necessari all’antropologia attenta soprattutto alla dimensione culturale. Dal momento che una tale dimensione non si presenta altrimenti che come un insieme indistinto di complessità e ambiguità comportamentali e simboliche ciò che Dei cerca in questi pensatori è una visione dello Stato come “principio ordinatore”. Un “principio ordinatore” così stringente che, laddove esiste, include “all’interno della sua storia” ogni vicenda sociale e politica, fino anche intellettuale (p. 11).

A seguire questo orientamento mi pare che le pur legittime obiezioni alla vacuità intellettuale della Theory, anziché diradare le nebbie e aprire nuove prospettive euristiche, incorrano in un rischio: quello di ripristinare una sorta di primato antropologico della figura dello Stato in quanto entità regolatrice la pluralità complessa e ambivalente della cultura. Un’opzione certo non meno “di parte”, militante, di quella criticata. Anzi, come Saitta ha ben indicato nel suo intervento, la stessa etichetta della Theory nel modo in cui viene ripresa da Dei appare assumere le sembianze di una “entità mitica”, di un bersaglio in realtà per lo più retorico e utile anzitutto per sostenere, a contrario, qualcosa di difficilmente difendibile in altro modo se non dichiarandolo minacciato: la figura dello Stato, appunto. E ancora ha ragione Saitta a notare come simile modo di intendere lo Stato come centro della realtà sociale perché anche garante dei diritti rischia di far recedere sullo sfondo i conflitti sociali e politici che portano alla conquista o alla perdita di tali diritti.

Certo è che in una simile visione a essere relegata nel retroscena è la stessa problematica politica, tant’è che Dei intitola un paragrafo del suo testo con la domanda “Tutta l’antropologia è antropologia politica?”, la cui risposta più o meno implicita mi pare sia che nessuna sua parte in fondo lo dovrebbe essere, dal momento che ogni politica dovrebbe essere letta antropologicamente come peripezia di Stato. Se così fosse il mio disaccordo sarebbe allora estremo, lavorando da anni, più o meno in riferimento alla filosofia di Alain Badiou, per una visione storica e antropologica per la quale la politica è un campo problematico a se stante e inclusivo anche della problematica dello Stato.

Concludendo, mi pare necessario sottolineare la proficuità di leggere insieme i due testi di Carnevali e Dei, proprio perché nella prima si vede segnalato un problema di cui nel secondo sono tratte alcune conseguenze più estreme. E il problema è proprio la disattenzione attualmente sofferta a livello mondiale e locale da parte del pensiero e della ricerca, specie in campo politico: una disattenzione che a fronte della crescente ingiustizia sociale porta o a teorie critiche opinabili o a similmente discutibili restauri del prestigio della figura dello Stato.  

[1] Cusset Francois, French Theory. Foucault, Derrida, Deleuze & Cie et les mutations de la vie intellectuelle aux Etats Unis, La Decouverte, Paris, 2003 (trad. it. Il saggiatore, Milano, 2013)

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