Pubblichiamo un estratto di Terrore sovrano. Stato e jihad nell’era postliberale di Marina Calculli e Francesco Strazzari (Il Mulino 2017).
Le misure contro il terrorismo sono tipicamente giustificate, spesso lungo corsie preferenziali e in assenza di pubblico scrutinio, come una sperimentazione necessaria a gestire una fase di crisi acuta, un intermezzo che intende dare risposta alla «domanda di sicurezza» diffusa nella società prima che questa domanda imbocchi strade politicamente scivolose per la democrazia stessa. In questa struttura dell’argomentazione è evidente che gli effetti reali per quanto riguarda le organizzazioni terroristiche contano relativamente: il terrore vi appare come una macchina di cui, quali che siano le cause, vanno in primo luogo governati gli effetti. Nel tempo, si sostiene, tutto ciò che è eccezione andrà assestandosi: l’eccezione verrà riassorbita da un quadro normativo liberaldemocratico che storicamente si dimostra resiliente.
Uno sguardo non carico di aspettative teleologiche circa il destino dello stato e delle libertà, ma abbia contezza delle involuzioni di cui la Storia talvolta presenta il conto, non vede però ragione in grado di giustificare tale ottimismo, in Europa come in America o nel Medio Oriente. Metaterrorismo, sicurezza algoritmica, utilizzo non regolamentato dei droni appartengono al consolidarsi della quarta rivoluzione industriale, al mondo dell’informazione robotizzata e digitalizzata, in cui la giustificazione della guerra – da parte di leader politici di società complesse, impegnati a fare i conti con delicati meccanismi di consenso e fiducia espressi tanto da persone quanto da mercati – passa ormai o per meccanismi di selling the victim o di selling the threat. Non c’è dubbio che la «guerra al terrore» venda piuttosto bene su entrambi i versanti, e che il terrorista resti oggi pressoché l’unica forma di nemico davanti al quale evocare l’uso della forza porti consenso. Non v’è guerra oggi in cui il nemico non sia dipinto come terrorista.
Per corroborare l’ipotesi della stabilità del discorso sovranità-terrore rispetto all’ipotesi del rimedio temporaneo, si può per esempio notare come la proposta di nuove misure antiterrorismo solitamente tenda a eludere proprio la questione della valutazione degli effetti. È stato il caso, almeno nella fase di discussione preliminare, della Direttiva terrorismo dell’UE, il primo documento organico ad ampio raggio in materia di terrorismo dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Il disegno della Direttiva è stato aspramente criticato dalle principali ONG attive sul terreno dei diritti umani – da Amnesty International alla International Commission of Jurists, passando per la Open Society Justice Initiative. Le perplessità derivavano dalla vastità dell’impianto di criminalizzazione e dall’assenza – a monte come a valle – di una valutazione d’impatto. A fine 2016 Consiglio, Commissione e parlamento europei hanno trovato un accordo: la Risoluzione, dunque, dovrà essere implementata entro l’autunno del 2018 in tutti gli stati membri (esclusi Danimarca, Irlanda e Regno Unito), e una valutazione degli effetti è stata infine prevista: tuttavia, il fatto che in un terreno così delicato per le liberal-democrazie la valutazione passi tutto sommato in secondo piano dovrebbe far riflettere su come legge e sovranità, sotto i colpi del terrore, finiscano per fare appello ai medesimi sentimenti «di pancia» e di panico morale a cui si abbevera la paura fomentata dalla «transnazionale del terrore». Fondato sull’idea che l’Europa stia affrontando una migration crisis di cui l’offensiva terrorista è un effetto, invece che una causa, il modello di sicurezza emergente induce a dar credito all’ipotesi dell’”effetto ISIS” come intermezzo, suggerendo l’idea che i compromessi necessari a farvi fronte (per esempio sul piano delle libertà individuali) saranno temporanei e prontamente riassorbiti, e i danni collaterali resteranno episodici e contenuti.
Il dibattito pubblico sul terrorismo in Europa è stato calamitato nel 2016 da questioni come la proibizione del burkini sulle spiagge francesi, o la ricerca di riscontri relativi ai profili di rischio terrorismo tra i rifugiati in arrivo da guerre e disastri. Esso si è concentrato più su relazioni di parentela e nessi di camaraderie carceraria fra gli attentatori, che non sulle opzioni di politica estera (per esempio l’invasione dell’Iraq, gli errori compiuti dalle potenze occidentali e del Golfo in Libia, il rapporto con il regime egiziano e quello turco, la questione curda, la via d’uscita da un evento epocale come la guerra in Siria). Mentre il dibattito si incanala lungo i rivoli di questioni secondarie, i poteri di sorveglianza degli stati in Europa crescono in un modo e una misura che Amnesty International definisce «pericolosamente sproporzionati», e rispetto ai quali «sarà difficile tornare indietro». Dal Regno Unito all’Italia, i parlamenti nazionali faticano a difendere le proprie prerogative: il dibattito – ammesso che si svolga – diventa estremamente elusivo quando si tratta di temi sensibili quali l’impiego di droni nella proiezione della forza fra scenari di guerra e formazioni terroriste. Sfidata dall’instabilità libica, l’Italia rafforza il ruolo guida dell’intelligence in operazioni speciali. Per parte loro, nonostante il mutare della minaccia terroristica in questi anni, gli Stati Uniti hanno dispiegato operazioni di counterterrorism dall’Afghanistan alla Siria, passando per Pakistan, Somalia, Yemen e Libia, sempre sulla base della medesima autorizzazione all’uso della forza militare del 2001, all’indomani degli attacchi alle Torri Gemelle.
Le ripetute estensioni di un état d’urgence fatto di misure ad esclusivo vaglio e sindacato del potere esecutivo nella Francia a guida socialista fra il 2015 e il 2017 delineano uno scenario che inquieta chi ha a cuore le traiettorie della democrazia, e si riflette – per esplicita dichiarazione dello stesso presidente Erdogan – nell’estensione, nello stesso periodo, dello stato d’emergenza in Turchia, partner strategico di NATO e Unione europea, attraversato da violente fibrillazioni il cui epicentro sono i repentini riposizionamenti tattici di Ankara sui fronti di guerra siriani. Da una parte va registrato come la promulgazione dello stato d’emergenza non abbia acceso gli entusiasmi dell’Assemblée nationale francese, dove, fra astensioni e assenze, il provvedimento inizialmente passò col voto favorevole di una minoranza risicata.
È solo nel 2016 con l’ennesimo atto di propaganda stragista, il massacro di Nizza nel giorno della festa nazionale, che prende corpo un’ampia volontà a estendere di ulteriori sei mesi lo stato d’emergenza. In questo clima, il premier Valls si candida alla presidenza affermando che davanti a una minaccia terroristica che «durerà una generazione […] dobbiamo vivere in una forma di stato d’emergenza permanente. Ciò è del resto quanto desiderano i francesi».
D’altro canto, proprio a partire dalla vittoria sul tentato golpe consumatosi nei medesimi giorni ad Ankara, dovrebbero allarmare le modalità retoriche con cui il presidente Erdogan affronta la lunga sequenza di attentati che scuotono la Turchia, perché replicano lo schema del buio intermezzo di torbidi e sangue che è necessario guadare attraverso la disponibilità a fare qualsiasi cosa si riveli necessaria per combattere il terrore, in vista di un luminoso futuro. Prevedibilmente, mentre tale futuro viene forgiato, non c’è più avversario politico o nemico in armi che non sia additato come terrorista. Mentre la macchina della guerra al terrore procede su almeno quattro fronti (jihadismo, secessionismo curdo, cellule marxiste-leniniste e «cospirazione gulenista») si riaffacciano ombre dello «stato profondo», e non c’è indicatore che non segnali l’imbocco di una deriva sultanista, sovranista, autoritaria, in spregio ai diritti più fondamentali. La Turchia alle prese con il terrorismo nel 2016 è la pallida ombra del modello di «democrazia islamica» lodato da molti osservatori occidentali fino a pochi anni fa, tanto quanto l’Egitto dei generali che hanno incarcerato ogni dissidenza organizzata non è che l’ombra delle speranze popolari suscitate dalla rivoluzione nel 2011: per quanto il regime del generale al-Sisi si dipinga come pilastro imprescindibile della guerra al terrore, la messa al bando di ogni iniziativa di ricordo a piazza Tahrir, con sistematico corredo di arresti, desaparecidos e omicidi di stato (fra cui quello del ricercatore italiano Giulio Regeni), ne dà ampia prova.
In ultima analisi, il dibattito attorno a terrorismo e antiterrorismo in Europa è dominato da un convitato di pietra: il cosiddetto «modello Israele». Il genere mediatico metaterrorismo si nutre ormai di immagini e idee come «dobbiamo abituarci a convivere con il terrore» e «il terrorismo è il new normal», oltre che della continua speculazione attorno ad attacchi futuri ricorrendo al parere dell’«esperto israeliano», per esempio in materia di sicurezza delle infrastrutture. In altre parole, il conflitto Israele-Palestina, la cui brutalità sprofonda in secondo piano rispetto alle carneficine di Siria e Iraq, produce ed esporta modelli di governance della sicurezza, oltre che «soluzioni tecniche» legate all’innovazione tecnologica. A riprova dell’inclinazione del piano sul quale viene apparecchiato l’odierno dibattito sulla sicurezza, forse vale la pena ricordare che ogni anno, dal 1953, il parlamento israeliano rinnova lo stato d’emergenza, mentre la linea di condotta scelta dal governo Netanyahu rispetto alla carneficina in atto nella confinante Siria è stata di sempre più palese appoggio ai ribelli qaidisti.