Al terremoto come alla guerra: il terremoto della Marsica del 1915

Ricorre il centesimo anniversario del terremoto della Marsica, avvenuto il 13 gennaio 1915, che causò circa trentamila morti e devastò molti paesi in Abruzzo e nel Lazio. Stefano Ventura lo racconta ripercorrendo alcune notizie, contributi letterari e testimonianze di quel sisma.

Il 13 gennaio 1915 un devastante terremoto colpiva la piana del Fucino devastando Avezzano, Sora e altri borghi appenninici dell’Abruzzo e del Lazio.

La violenta scossa ebbe luogo alle 7.53 e raggiunse una magnitudo di 7 gradi, pari all’ XI grado della scala Mercalli. Le vittime avrebbero raggiunto, secondo alcune stime, il numero di 30.519, secondo le informazioni fornite dalle schede storiche sui terremoti del passato dell’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia.

La scossa fu avvertita in molte zone dell’Italia centrale, Roma compresa, e questo sisma rappresenta uno dei più violenti della storia sismica italiana del Novecento, superato solo dal terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908. Inoltre, bisogna sottolineare la congiuntura storica in cui il disastro avvenne: in Italia, in Europa e nel mondo erano mesi di tempesta, a causa dello scoppio del primo conflitto mondiale. L’Italia ancora non era scesa in guerra e le posizioni interventiste e neutraliste si affrontavano in una tenzone dialettica continua e accesa, che non risparmiò nemmeno le operazioni di emergenza e di soccorso seguite al terremoto.

Gli interventisti, attraverso la penna di Scipio Slataper, intervennero il 18 gennaio per affermare che «il disastro non è tale che possa avere una qualsiasi importanza nella vita nazionale… Mentre tutta l’Europa è un campo di battaglia, noi non possiamo fermarci per settimane e settimane a deplorare la nostra maligna sorte». Coloro che erano contrari all’intervento, invece, interpretavano il terremoto come «un avviso salutare che la Provvidenza divina dà agli sconsigliati che vogliono la guerra: Essa ha detto loro: voi volete andare in cerca di sciagure, di feriti, di morti. Ecco che gli do da toccare con mano che cosa sia una sciagura, che cosa sia la morte. Io voglio sperare bene che coloro i quali, durante il tremito orrendo della terra hanno visto faccia a faccia la terribile immagine della morte non avranno più voglia di andarla a cercare ancora sui campi di battaglia».[1]

Andrea Cardoni ha scritto un interessante post su qcodemag.it affrontando un parallelo tra la guerra tra uomini e la guerra contro la terra, ricorrendo alle parole di Giovanni Cena, scrittore piemontese che si impegnò sia a Messina, sia nella Marsica per operazioni di volontariato in favore dei sopravvissuti, e di Johannes Jorgensen, scrittore e poeta danese.

Ma il cammino affiancato che compiono guerra e terremoto è testimoniato anche dalla proclamazione dello stato d’assedio, cioè la sospensione dei poteri ordinari e l’applicazione del codice penale militare di guerra e il passaggio della giurisdizione penale ai tribunali militari; non era la prima volta che ciò avveniva, anticipato da Bava Beccaris nei disordini pubblici milanesi del 1898 e da Giolitti dopo il terremoto del 1908 a Messina e Reggio Calabria, e il tema è tornato di nuovo d’attualità nella gestione straordinaria affidata in epoche recenti alla Protezione civile nazionale.

La devastazione provocata da un terremoto, espressione di ferocia naturale, e la devastazione della guerra novecentesca sono rievocati spesso, ad esempio nelle testimonianze dei sopravvissuti, parlando dei soccorsi (anche dopo i terremoti, spesso, sono stati i militari a intervenire, così come la Croce Rossa e le altre organizzazioni che si sono occupate dei soccorsi). Le tendopoli, le file per accedere ai servizi di ogni tipo (mense, servizi igienici, e, un tempo, telefoni pubblici), la distribuzione di aiuti per la quotidianità perduta, la provvisorietà e la precarietà senza scampo sono tutti elementi comuni che la memoria delle catastrofi ha rievocato spesso.

Sul terremoto della Marsica, però, le pagine letterarie più significative risalgono a Ignazio Silone, scrittore e anche uomo politico nato a Pescina, paese che subì in pieno le conseguenze disastrose del sisma. In Uscita di sicurezza, una raccolta di racconti e saggi politici che sanciva una sorta di autobiografia di Silone, gli accenni diretti o indiretti al terremoto, al territorio di provenienza dello scrittore, ai suoi abitanti e alle loro abitudini sono numerosi. In uno di essi scrive:

Nel 1915 un violento terremoto aveva distrutto buona parte del nostro circondario e in trenta secondi ucciso circa trentamila persone. Quel che più mi sorprese fu di osservare con quanta naturalezza i paesani accettassero la tremenda catastrofe. In una contrada come la nostra, in cui tante ingiustizie rimanevano impunite, la frequenza dei terremoti appariva un fatto talmente plausibile da non richiedere ulteriori spiegazioni. C’era anzi da stupirsi che i terremoti non capitassero più spesso. Nel terremoto morivano infatti ricchi e poveri, istruiti e analfabeti, autorità e sudditi. Nel terremoto la natura realizzava quello che la legge a parole prometteva e nei fatti non manteneva: l’uguaglianza. Uguaglianza effimera. Passata la paura, la disgrazia collettiva si trasformava in occasione di più larghe ingiustizie.[2]

In effetti, Silone riproponeva una delle questioni interpretative più dibattute dalle scienze umane, a proposito di catastrofe: la tabula rasa, lo sconvolgimento improvviso e totale che provoca la perdita di punti di riferimento fisici e umani. Anche nel caso del terremoto della Marsica, però, allo spaesamento iniziale subentrò la riorganizzazione dei poteri e dell’interventismo statale, che adottò in gran parte i provvedimenti legislativi già sperimentati a Messina dopo il 1908, cioè una serie di decreti regi specifici che riproponevano con strumenti, in parte nuovi, gli interventi già attuati in eventi precedenti.

L’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 bloccò, di fatto, per cinque anni i fondi destinati alle zone terremotate; il regime fascista intervenne con alcuni provvedimenti nell’opera di sgombero delle macerie e nella ricostruzione attraverso la costruzione di alloggi economici e popolari, ma la crisi economica del ’29 e, dopo pochi anni, il secondo conflitto mondiale fecero proseguire a rilento la ricostruzione, tanto che nel 1946 è possibile ritrovare Silone, sui banchi dell’Assemblea Costituente, che propone un’interrogazione parlamentare «a 32 anni dal disastro sismico, lo Stato non ha ancora adempiuto agli impegni solennemente presi verso tutti quei danneggiati […] costretti da circa 32 anni ad abitare in penosa promiscuità ed in baracche pericolanti».[3]

A molti anni di distanza, poi, quelle baracche destinate ai terremotati, di cui parla Silone, risultavano ancora presenti in molti centri della piana del Fucino e della Marsica, a volte inserendosi  e mimetizzandosi nel tessuto urbano dei paesi. Secondo un reportage compiuto nel 2009 da Lorenzo Salvia del «Corriere della sera», dei circa diecimila esemplari costruiti tra il 1916 e il 1920 ne restano in piedi ancora 1.066 sparsi in 38 comuni, da Avezzano a Balsorano passando per tutta la Conca del Fucino»

È, questa, l’ennesima dimostrazione del provvisorio che diventa definitivo, un triste leitmotiv che si è riproposto anche nel terremoto del 2009 con le abitazioni del progetto “C.A.S.E.” a L’Aquila e dintorni.

Le commemorazioni del centenario, nella zona colpita, sono affidate a iniziative dei singoli comuni e a momenti di riflessione istituzionale e scientifica che sono confluite nella istituzione di un comitato per il centenario e una serie di convegni che coinvolgono la Protezione Civile, l’istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e le Università abruzzesi.

Non mancano, tra le iniziative, le presentazioni di libri e opere poetiche a ricordo del sisma (come Soda caustica, di Dimitri Ruggeri di Nella, con un commento di Alessandro Fo, e rappresentazioni teatrali, come ad esempio Voci dal terremoto, scritta da Dacia Maraini e Ernesto Salemme per la regia di Riccardo Milani.

Nei paesi colpiti sono numerose anche le intitolazioni di strade e l’inaugurazione di monumenti alla memoria delle vittime, in piena continuità con quelle “memorie di pietra” che spesso ha inteso lasciare segni visivi nei territori ricostruiti come monito e avvertimento rispetto alla scomoda presenza del terremoto come fattore di rischio.

Note

[1] L’Idea Nazionale, 14 gennaio 1915.

[2] Ignazio Silone, Uscita di sicurezza, Mondadori, Milano, 1979, pp. 27-28.

[3] Citato in Sergio Castenetto e Fabrizio Galadini F. (a cura di), 13 gennaio 1915. Il terremoto nella Marsica, Agenzia di Protezione Civile – Servizio Sismico Nazionale, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1999, p. 44.

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