“I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. […] In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva.”
Federico Massidda
Il 24 gennaio 2012 sono arrivate le proposte di liberalizzazione del signor Monti. L’artico 66 del decreto legge titola: Dismissione dei terreni demaniali agricoli o a vocazione agricola. Parla del fatto che la liberalizzazione toccherà anche i 324 mila ettari di terra dello stato destinato alla collettività, quelli che la commissione Rodotà sui beni comuni chiama “Cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona. I beni comuni devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future. […] In ogni caso deve essere garantita la loro fruizione collettiva.”
La proposta metterebbe in vendita i demani dello stato con diritto di prelazione ai giovani imprenditori agricoli che vogliono comprarli, fino al valore di 100 mila euro. Quando l’appezzamento supera i 100 mila si mette all’asta pubblica, e la destinazione agricola del terreno rimane tale per 20 anni, obbligatoriamente. Il governo dichiara che tale manovra incentiverebbe la competitività e la fantasia dei giovani, che farebbe girare molto meglio l’economia del settore agricolo, e farebbe fiorire molti posti di lavoro. Non dichiara però, che le stime del ricavo si aggirano intorno ai 6 miliardi di euro, a parte il fatto che il prezzo di vendita attuale potrebbe crollare e il ricavo di conseguenza.
Tutto molto bello, ma nessun rischio? In un paese dove ha chiuso più di un terzo delle aziende per la crisi del mercato internazionale –senza contare che le previsioni di ulteriori chiusure sembrano catastrofiche- e le porcherie e le truffe riguardanti il tanto acclamato made in Italy, evidentemente pullulano i giovani imprenditori agricoli che hanno voglia di inserirsi in un mercato competitivo e al contempo di qualità. Non esiste il rischio di vendere le terre collettive alle mafie e alle camorre, e ancora di più quello di venderlo alle corporations e alle multinazionali, che sicuramente non hanno problemi di capitale iniziale per comprare grossi appezzamenti di terreno per fare le geniali monocolture che soddisfano il fabbisogno dell’Africa nera. Tale pratica si chiama land grabbing, in raffinatissimo inglese, e non ha mai ostacolato i diritti al legnatico, al fungatico, allo stallatico e all’acqua di intere comunità, al godimento di un paesaggio salubre, alla fruizione di un terreno agricolo da parte di individui e cooperative che agivano nel massimo rispetto della natura. In Italia, per esempio, abbiamo dei bianchissimi figli della patria che raccolgono i nostri pomodori; le nostre ragazze prosperose con il fazzoletto in testa mietono il nostro grano ancora con il falcetto, perché con le macchine si rovina; i nostri pastori delle isole sono sereni e con il sorriso in bocca quando vedono che il loro prodotto è premiato quello che vale; nessuno specula sul mercato nero del latte, ed i nostri funghi non provengono certamente dai paesi dell’est. E certo, crescono come funghi. E se proprio proprio qualcuno soffre di una minima ristrettezza economica, ci vendiamo una spiaggia, come disse un menestrello dell’economia, che ne abbiamo così tante.
L’ironia serve per raccontare una delle tante manifestazioni avvenuta davanti a Montecitorio lo scorso 7 febbraio, a cui hanno partecipato AIAB – Associazione Italiana Agricoltura Biologica- e altre 13 associazioni e cooperative, tra le quali Libera, Slow Food e Legambiente, oltre a tantissime realtà di coltivatori grandi e piccole, come i vari GAS di Roma e Italia in generale. La proposta dei manifestanti, che hanno anche inviato una lettera al Senato, è che si dia in affitto a equo canone la terra agli agricoltori, privilegiando si i giovani, ma non solo individuali, anche associati in cooperative, e soprattutto l’agricoltura sociale. «L’avvio di attività di produzione agricola porterebbe immediato beneficio alla casse pubbliche – dicono – tramite le risorse provenienti dai contratti di locazione, le vendite di beni e servizi delle attività avviate che determinano versamenti di Iva, il pagamento degli oneri previdenziali per i nuovi lavoratori». In questo modo gli incassi non sarebbero aleatori –poche entrate ogni tanto e anche piccole- ma un’entrata programmata e strutturale da inserire nelle voci in attivo del bilancio. E i beni comuni? Rimarrebbero intatti, perché chi usufruirebbe dei demani statali non si sentirebbe padrone assoluto, libero di incidere, sfruttare, modificare a proprio piacimento ciò che gli appartiene –come succede per i beni di proprietà privata-, ma starebbe bene attento a non offendere la collettività, perché la terra è un bene di tutti, tutti vi possono accedere, e non appartiene a nessuno.
Lo sconforto è generalizzato, ma lo è anche la grinta e la convinzione dei partecipanti, che se da una parte accolgono con benevolenza l’articolo 24 di Monti sulla disattivazione e smantellamento dei siti nucleari, dall’altra contestano lo strazio e la strafottenza di un governo che per battere cassa vende i beni delle collettività, senza rendersi conto che queste due manovre dello stesso decreto legge entrano in contraddizione. Almeno così crede chi scrive.
Buon panino con salame a tutti.