Teoria e prassi militante

Non si ferma la discussione avviata dopo la pubblicazione di un breve estratto dal saggio di Fabio Dei Di Stato si muore? Per una critica dell’antropologia critica. Di seguito il contributo di Stefano Boni.

Mi inserisco nell’interessante dibattito stimolato da il lavoro culturale (d’ora in poi LC) a partire  dal contributo di Fabio Dei nel volume Stato, violenza, libertà (d’ora in avanti SVL), a cui hanno contribuito Saitta, Romitelli, Cutolo, Di Pasquale, Gribaudo e Ribeiro Corossacz e che ha visto un nuovo intervento di Dei su LC. Qui cerco di spiegare perché una buona fetta dei recenti lavori etnografici (tesi di laurea magistrale, dottorati di ricerca, pubblicazioni, presentazioni a convegni e seminari) hanno scelto di adottare strumenti critici nell’analisi dello Stato. Cerco di radicare la disquisizione teorica nel vissuto e nella tensione etica dei ricercatori che si sono formati nel nuovo millennio in Italia.

È vero che in alcuni scritti si trova un bricolage di concetti non pienamente sviluppati e problematizzati ma sostengo che nel complesso la teoria critica si muove in maniera eclettica e contestuale, ovvero cerca all’interno di un ampio spettro di autori, diversi tra loro per approccio teorico, gli strumenti analitici che paiono utili per esaminare dati etnografici puntuali. Non si tratta di “negare l’esistenza dell’antropologia critica” (Dei LC) ma di rilevare che gli autori che Dei elenca come rappresentativi della Theory costituiscono riferimenti potenziali, accanto a molti altri. Nella maggior parte degli studi critici dei giovani ricercatori italiani non riscontro un “tono totalizzante” alimentato da “teorie del sospetto” (Dei SVL), né “dogmatismo” (Dei LC); c’è piuttosto una convergenza rispetto a certe preoccupazioni analitiche e al posizionamento etico del ricercatore. Non mi pare che “l’influenza della teoria critica spinge a scegliere forme particolari di campo e a valorizzare certi tipi di esperienza” (Dei, LC). È vero il contrario: è il posizionamento etico a condurre certi percorsi esistenziali verso l’antropologia e, attraverso questa, a strumenti critici (di cui la caratterizzazione della Theory di Dei è un surrogato semplificato). Per queste ragioni ha senso approfondire il confronto rispetto alle posizioni di Dei sui due versanti, su quello della scelta della impostazione teorica e sulla collocazione morale e politica degli autori.

Con riferimento alle divergenze teoriche, Dei si chiede: “Tutta l’antropologia è antropologia politica?”. La risposta che si da è negativa; non solo, ritiene che la politica vada esaminata come “costellazioni locali di significati” (p. 3). Tale approccio al potere e allo Stato (forse esemplificato da Negara di Geertz) è stato via via abbandonato perché la nozione di potere negli ultimi decenni è stata progressivamente estesa all’esercizio delle capacità di condizionamento, alla possibilità di indurre o standardizzare condotte. Questo percorso analitico passa attraverso la costruzione di significati ma riguarda la mutilazione, almeno parziale, della libertà individuale. Non tutti i campi, sostiene Dei, “devono essere ricondotti ad una teoria generale del Potere” (p. 3), ma se il potere è possibilità di indirizzare i destini individuali e le condotte collettive, riguarda il come di ogni dinamica culturale: ogni costruzione di significato implica il conflitto tra posizioni e forze ineguali in quanto hanno pesi impari nel plasmare il senso e le condotte condivise. Questo confronto continuo tra agencies determina la sorte di significati, idee e prassi: alcune si diffondono diventando norme di condotta (a volte sancite anche da leggi), altre rimangono marginali (e a volte vengono represse). Ogni consolidamento, riproposizione o trasformazione di forme culturali ha una dimensione politica nei rapporti di forza che ne determinano l’esito osservabile.

Questa messa a fuoco teorica che risale alle prime riproposizioni antropologiche di Foucault già negli anni Ottanta (ad esempio Fardon, Comaroff), genera un’attenzione alla produzione istituzionale e statale di alcune norme, condotte, soggettività e alla conseguente estinzione di altre. A differenza di quanto afferma Dei, che tende a vedere repressione e produzione come due processi scindibili (l’antropologia critica si sarebbe interessata solo del primo), la dinamica costitutiva e repressiva sono le due dimensioni di un unico processo: lo Stato contribuisce a istituire, produrre, diffondere proprio punendo, marginalizzando, escludendo visioni e pratiche alternative, spesso senza dover usare violenza. James Scott, Beatrice Hibou e David Graeber, tra gli altri, associano il successo della leggibilità statale, della burocrazia, della codificazione numerica alla estinzione della metis, dei saperi pratici e della opacità e informalità del tessuto sociale.

Il potere in alcuni contesti si esplicita attraverso istituzioni predisposte all’utilizzo della forza, si rende evidente in forme di coercizione esplicita. Eppure, nello scorrere della vita quotidiana il suo impatto principale è la capacità di dare forma e contenuti alle credenze, di sedimentare abitudini, di diffondere canoni e letture, di creare un senso del limite alle aspirazioni di ciascuno. La dinamica culturale è plasmata da questo continuo flusso di condizionamenti che vede tutti protagonisti, sebbene con una capacità di influenza ben diversa.

Queste riflessioni segnano una marcata discontinuità rispetto agli studi marxisti perché la cultura (anche nella sua dimensione simbolica) è intesa a pieno titolo come un campo di scontro tra protagonismi sociali e individuali. Per questo gli studi critici sullo Stato non sono caratterizzati da una scarsa considerazione per la dimensione culturale “declassata a ‘sovrastruttura’, ‘ideologia’ o ‘falsa coscienza’” (Premessa p. 3, cfr. p. 11, 26). Su questo punto c’è da aggiungere una ulteriore “nostalgia” a quelle che Cutolo attribuisce a Dei: la nostalgia per la contrapposizione al riduzionismo marxista della fine degli anni Ottanta (SVL, 29). L’impressione è che sia in SVL che il LC Dei faccia difficoltà a decifrare la collocazione politico-teorica degli studi critici contemporanei e a cogliere la profondità delle linee di rottura emerse negli ultimi venti anni rispetto alla tradizione marxista, a cui ha contribuito tra gli altri anche il femminismo (Gribaldo & Ribeiro Corossacz). Questi hanno davvero poco da spartire con la “tradizione comunista” (SVL, 13), con le “categorie ‘materialiste’” (SVL, 28), con il positivismo (SVL, 29 in nota) o con il “determinismo economico politico” (SVL, 28, anche LC) con cui invece vengono insistentemente letti. Il marxismo, anche quello nella sua versione post-operaista (ad esempio in “Impero” di Hardt e Negri) rappresenta un filone non più centrale in un panorama critico policentrico, eclettico e sperimentale, sia nella scelta dei concetti che nei percorsi analitici.

Con riferimento al secondo aspetto, al ruolo militante dell’etnografia, è vero che l’antropologia è una disciplina anomala e che soffre di una “emarginazione dalla sfera pubblica” (SVL, 14). Va però specificato che è una emarginazione dalla sfera pubblica istituzionale, testimoniata dal calo generalizzato dei docenti universitari strutturati negli ultimi anni, non dalla sfera pubblica intesa come interesse diffuso nel corpo sociale. Il progressivo inserimento dei saperi universitari all’interno di un orientamento produttivista neoliberale ha interessato, finora, solo marginalmente l’antropologia, sia come corpo docente che come orientamento studentesco, sia come scelta dei temi di ricerca che come orientamento delle pubblicazioni. La disciplina ha mantenuto una collocazione poco propensa a farsi integrare nelle logiche delle istituzioni. Questo posizionamento critico, ricordiamolo, è una caratteristica consolidata dell’antropologia, critica con l’esperienza coloniale, attenta ai rischi del coinvolgimento nei progetti di sviluppo, e ora poco disposta ad avallare le semplificazioni e banalizzazioni che spesso accompagnano le procedure e le codificazioni dello Stato. Ciò avrebbe comportato, secondo Dei (SVL, 35) l’attrazione di “un po’ di militanti e fricchettoni ma […] tanto ha nuociuto alla sua [dell’antropologia] immagine pubblica”.

Quello che Dei chiama “impegno militante” consiste nel posizionarsi dalla parte di chi tendenzialmente ha un limitato spazio di agency politica ed economica. Dei sostiene giustamente in LC che l’etnografia deve immedesimarsi con tutti i contesti in cui si immerge: “l’antropologia critica si interessa poco dei ‘cattivi’”; probabilmente è vero, ma non li ignora, si pensi ai lavori critici di Fassin sulla polizia o a quello di Gretel Cammelli su Casa Pound. Inoltre, anche i lavori con i “subalterni” o con i “movimenti sociali” mantengono una tensione critica e raramente sono solo frutto di immedesimazione celebrativa. La scelta del campo da parte dei giovani etnografi mi pare frutto di una volontà di dare voce a chi ne ha poca. Ci sono contesti quali le “SS di Auschwitz o i torturatori argentini” ma anche i vari poteri istituzionali contemporanei, tra cui “le caserme di polizia” e “i partiti tradizionali”, la cui visione del mondo era ed è continuamente espressa e diffusa attraverso potenti mezzi di comunicazione e altri, quelli presso cui molti giovani etnografi fanno ricerca, che sono sistematicamente sotto-rappresentati, oggetto piuttosto che soggetti di rappresentazione mass-mediatica.

Di fatto l’etnografia è tra le poche discipline ad ascoltare e a dare voce, nella loro complessità, ai drammi di numerosi circuiti culturali contemporanei: non si tratta quindi di imporre una tensione politica come “prospettiva necessaria per tutte le scienze sociali” (Dei, LC vedi anche Di Pasquale) ma di salvaguardare questa possibilità in un panorama scientifico dove diventa sempre meno praticabile. Le discipline più disponibili ad integrarsi nel sistema di potere contemporaneo, rinunciando a sviluppare paradigmi critici, sono numerose (vengono in mente i saperi applicativi scientifici, la giurisprudenza, l’economia, buona parte della sociologia e della psicologia) e ne traggono evidenti vantaggi. In questo scenario, sorprende che Dei si scagli contro una delle ultime isole di sapere critico autonomo, invitandola ad un posizionamento più ortodosso, in linea con i tempi. Irridere i tentativi di costruzione di una critica come “grandiosamente distaccate dal buon senso” (14) corre il rischio di elevare il buon senso egemonico come l’unico, e su questo ci si aspetterebbe – tra antropologi – un atteggiamento più prudente.

Molti di quelli che usano impianti critici si sono misurati empiricamente con enti statali o parastatali: progetti di cooperazione, lavoro per enti pubblici, impiego per cooperative che gestiscono servizi a migranti o pazienti, didattica integrativa nelle scuole. Spesso queste esperienze hanno permesso di approfondire e mettere a punto, nella esperienza diretta, la critica allo Stato: è la conoscenza pratica, piuttosto che una posizione preconcetta o dogmatica, a dettare uno scetticismo rispetto ad alcune entità, ad esempio “le istituzioni”, di cui secondo Dei (SVL, 28) dovremmo riconoscere di esser stati beneficiari. I presunti benefici statuali sarebbero “l’etica, il pensiero, la stessa scienza” (SVL, 28) che faccio difficoltà ad attribuire allo Stato, così come il fatto che “lo stesso posizionamento [dei critici] sia reso possibile dalle norme statuali”. Le attività analitiche e morali sussistono a prescindere dalla centralizzazione politica e, a dire il vero, la loro declinazione statuale, ovvero la forma che prendono nel momento in cui sono innestati in apparati statali, appare a molti poco attraente. Inoltre c’è chi continua a credere che quello che gli stati “siano in grado di opporre… a guerre, razzismo, genocidi” sia largamente insufficiente e che l’opposizione a questi orrori sia stata promossa al di fuori (e a volte esplicitamente contro) i governi centralizzati contemporanei.

Accusare chi conduce antropologia critica di avere una “mera postura accademica, un radicalismo autoreferenziale diffuso tra ristrette élites intellettuali per lo più prive di rapporti col mondo della politica reale” significa non conoscere la condizione esistenziale, gli intrecci relazionali e le intenzioni politiche di un numero consistente di giovani etnografi che hanno scritto nell’ultimo decennio. Se per “politica reale” si intende il mondo dei partiti, in effetti i rapporti sono scarsi, ma ricordiamo che la fiducia degli italiani nei partiti era al 5% nel 2017: questo dato può essere interpretato sia come un rimpianto per la funzione di corpi politici intermedi che ricoprivano nella prima repubblica sia come il rifiuto di riconoscerli come soggetti centrali nella vita politica. Comunque lo si interpreti, si rischia l’ “isolamento ultraminoritario” (Dei, LC) e di essere auto-referenziali rispetto al tessuto sociale, proprio nel richiedere un allineamento della disciplina alla “politica reale”, se si intende come istituzioni guidate da partiti. La nozione di “reale” applicata sia alla politica che alla “società” (Dei, LC), che andrebbe “da tutt’altra parte” rispetto alla etnografia critica, appare ambigua se non fuorviante. Negare la “realtà” sia di quel “po’ di militanti” che dei “fricchetoni” nonché dei contesti sociali con cui entrano in relazione (qualunque essi siano) appare oltre che pericoloso, profondamente sbagliato su un piano epistemologico.

Diversi etnografi considerano più “reale” una politica condotta con e tra i movimenti sociali, una politica né rivoluzionaria né escatologica, ma quella dei piccoli passi per rafforzare l’autonomia e l’autogestione. La caratterizzazione degli antropologi critici come “intellettuali-Jedi” che si oppongono alle “forze del male”, oltre ad essere caricaturale non considera le relazioni che si creano soprattutto nei ricercatori più giovani con varie forme di subalternità sociale “reale”. Come giustamente notato da Gribaldo & Ribeiro Corossacz abbiamo dinnanzi “un panorama fatto da antropologhe e antropologi che più che stare dalla parte, sono parte di quei gruppi che l’antropologia sarebbe titolata a descrivere”. E‘ vero, come rileva Dei (SVL, p. 31), che non hanno un rapporto organico in senso Gramsciano, non perché non si relazionino “con i gruppi che vorrebbero difendere o rappresentare”, ma perché spesso rifiutano la rappresentanza e sondano posizionamenti etnografici ed etici innovativi rispetto al paradigma proposto da Gramsci ormai quasi un secolo fa. La “partecipazione soggettiva e militante” per molti non è un “mito” (Dei, LC) ma una scelta molto “reale”; rischia di essere letta come “mito” se ci si limita a caratterizzazioni denigranti e semplicistiche (“fricchetoni”) che si accontentano della identificazione estetica piuttosto che considerare la profondità dei vissuti con il rispetto per la diversità che l’antropologia ci ha insegnato.

Molti antropologi sono o sono stati vicini ai subalterni sia in termini di condizione esistenziale (pensiamo ai docenti universitari precari a contratto per decenni con stipendi che consentono nei casi migliori la mera sopravvivenza e nulla più) sia professionale (le decine di antropologi coinvolti con i richiedenti asilo assunti dalle cooperative con paghe scarse e irregolari). Sempre più antropologi interagiscono fattivamente con la subalternità non ponendosi da guide intellettuali ma attraverso un coinvolgimento complessivo con realtà con cui riconoscono affinità di analisi ed intenzioni politiche nel “predisporre gli strumenti necessari a un intervento politico che faccia breccia nella società”, come ben espresso da Saitta nel suo contributo su LC. Ciò significa che sia i contesti subalterni che gli antropologi cercano di leggere oltre le auto-rappresentazioni dello Stato per capirne il funzionamento effettivo, per elaborare strumenti critici e per individuare opportunità di scansare i dispositivi indesiderati. La critica allo Stato che gli antropologi propongono nei testi non è una postura da intellettuali: gli ultimi sondaggi di opinione (stranamente poco pubblicizzati) rivelano che  meno di un cittadino su cinque nutre “molta” o “moltissima” fiducia nello Stato: questo scetticismo fa parte delle “strutture del senso comune” che Dei (LC) pare ignorare1. Chi si pone lontano dallo scontento diffuso paiono invece quegli intellettuali pronti a giustificare, minimizzare, ignorare o legittimare le violenze e le negligenze statali.

Nel chiedersi cosa rende critica una etnografia, Dei (LC) risponde:  “Non il porsi per principio da una parte o dall’altra, ma l’equilibrio di soggettività e oggettività, la capacità di render conto del punto di vista dei diversi soggetti implicati nelle dinamiche sociali; e ancora, la consapevolezza delle ‘seduzioni’ del campo, l’esame riflessivo delle proprie stesse reazioni”. Per molti giovani etnografi, e anche per chi scrive, queste irrinunciabili questioni epistemologiche non generano di per sé uno spessore critico. La critica – ma mi rendo conto che siamo nell’ambito soggettivo delle preferenze semantiche – richiede anche una tensione etica e politica, un impulso alla trasformazione sociale che mina le rappresentazioni egemoniche. Questa tensione si sposa bene con l’etnografia, o con un tipo di etnografia, mentre trova raramente spazio in altre metodologie di ricerca. Nello studio dello Stato ci sono una infinità di approcci possibili.

L’approccio interpretativo, riflessivo, simbolico che Dei preferisce è del tutto legittimo ed è stato prezioso nella storia dell’antropologia. Buona parte degli studenti che si sono formati nel nuovo millennio lo ha però trovato poco stimolante perché non riusciva a dar conto – se non in termini di negoziazioni di significati – dell’inasprimento della disuguaglianza economica, della violenza istituzionale, della invadenza burocratica, delle tecniche di controllo pervasivo. Abbandonata la rigidità marxista in ambito teorico e le prospettive partitico-rivoluzionarie in quello politico, l’antropologia ha offerto ai giovani etnografi con una forte pulsione morale sia gli strumenti analitici sia la possibilità di stringere, attraverso pratiche etnografiche inedite, sinergie con chi ha cercato di opporsi alle nuove forme di sfruttamento, al consolidarsi del razzismo, a nuove forme di controllo, all’esaurimento del protagonismo politico dal basso. Ciò può aver dato fastidio alle istituzioni governative e ad alcuni accademici ma credo che possiamo essere fieri di una disciplina che, controcorrente, contribuisce a tenere vivi questi valori morali e politici.

 

*Stefano Boni insegna Antropologia Politica e Antropologia Culturale presso l’Università di Modena e Reggio Emilia. Ha condotto ricerche etnografiche e archivistiche in Ghana, Italia e Venezuela. Le sue riflessioni sono incentrate sulla dialettica tra disuguaglianza e dominio, da un lato, e autonomia e resistenza, dall’altro.

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