Una teoria della classe rassegnata

I dati sempre più desolanti sulla condizione giovanile italiana – disoccupazione, precariato, bassi salari – si accompagnano solo da poco a una riflessione critica nel dibattito culturale. Ne è un esempio un libro che negli scorsi mesi ha ricevuto particolare attenzione: Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura, che tenta l’analisi di una generazione e del tradimento delle sue aspirazioni di crescita. 

teoria della classe rassegnata

Dalla prospettiva più disincantata di un’altra generazione, Walter Siti, in Pagare o non pagare richiama invece il piacere che la sua generazione, uscita dalla povertà, provava ostentando il nuovo status sociale tramite beni materiali. Quella che segue è un’analisi che cerca di confrontare queste letture con le condizioni sociali effettive delle generazioni italiane più giovani, nel tentativo di ricalibrare il focus del dibattito sul classismo sempre più drammatico di questi tempi.

Nel suo ultimo libro uscito poche settimane fa (Pagare o non pagare, nottetempo 2018), Walter Siti parla così del «piacere di pagare» che la sua generazione ha vissuto negli anni del boom economico:

Il percorso in salita era facile e gratificante: si trovava un lavoro migliore di quello dei nostri genitori, in qualche scuola o ufficio o come specializzati in fabbrica, si contava sui sindacati per un trattamento salariale decente e coi soldi guadagnati a fine mese si comprava il giusto per fare invidia al vicino.

Si comprava, affascinati dalla magia dell’acquisto, ciò che si riteneva che le classi superiori potessero permettersi, in modo tale da assomigliare a loro: abbigliamento, strumenti per la riproduzione audio e video, ma anche ristoranti, eventi, festival.

Oggi, in anni di crisi economica perdurante, Siti confessa di ritrovarsi a fare conti che non avrebbe mai fatto qualche decennio fa, come ad esempio quanta autosufficienza avrebbe se l’INPS chiudesse improvvisamente i rubinetti. E alla luce di questa esperienza personale e generazionale si chiede: «Può l’autobiografia funzionare anche come autoanalisi di un ceto?»

A questa domanda risponde positivamente un libro che negli ultimi mesi ha ricevuto particolare attenzione: Teoria della classe disagiata di Raffaele Alberto Ventura (minimum fax, 2017).

Tanto Siti quanto Ventura si pongono il problema del futuro delle attuali generazioni in un momento in cui le prospettive appaiono decisamente poco rosee. E il successo di cui Teoria della classe disagiata (TCD) ha goduto e continua a godere testimonia come il libro abbia il merito di porre la questione in un modo che nel dibattito italiano rimane spesso in ombra.

Proprio a partire dagli anni Sessanta del “miracolo economico”, infatti, si è osservata in tutta Europa una grande espansione delle opportunità per i giovani di acquisire un’istruzione superiore, e con essa la prospettiva di un lavoro ben remunerato. Ma se per la generazione di Siti il “pezzo di carta” poteva ancora offrire in modo quasi automatico la possibilità di collocarsi a livello lavorativo ed economico in una posizione sociale migliore rispetto a quella dei propri genitori, questa equazione non sembra essere più così vera per le giovani generazioni. Al crescere della popolazione con un’alta formazione non segue oggi in modo diretto un corrispondente miglioramento di condizioni sociali.

La questione è tanto più rilevante e vicina a noi in quanto affligge in maniera preponderante i Paesi del Sud dell’Europa, e l’Italia in particolare. Qui, dove la struttura economica del Paese non è in grado di assorbire una forza-lavoro altamente qualificata, lo sfasamento tra il livello di istruzione acquisito e la possibilità di trovare un lavoro adeguato al proprio profilo è così alto da ridurre drammaticamente la possibilità di mobilità sociale verso l’alto. Un fenomeno che colpisce in modo ancora più grave i laureati in materie umanistiche, la cui collocazione nel proprio settore lavorativo – l’industria culturale – è, per usare un eufemismo, problematica.

Questa situazione si trova al cuore del libro di Ventura. Al di là degli espliciti richiami alla Teoria della classe agiata di Thorstein Veblen – un classico della sociologia americana del 1899 – la «classe disagiata» del titolo vuole indicare proprio la condizione comune a chiunque abbia investito tempo, denaro ed energie nella propria formazione e si ritrovi ora frustrato nel non riuscire a farla valere nella società. In una frase, TCD è una “teoria generale” sulle cause di questa mancata realizzazione delle aspirazioni di crescita sociale dei giovani laureati.

Sull’ambizioso scopo di TCD pesano però gli stessi presupposti su cui è costruito l’impianto teorico del libro.

Se per Siti il «piacere di pagare» era la reazione di una generazione di figli arricchiti di operai di fronte a una inedita disponibilità economica, per Ventura il consumo di beni sempre più raffinati è il modo per affermare in società la propria posizione. Che sia lo stereotipato champagne raffigurato sulla copertina del libro o la cultura ostentata dai giovani con un’alta formazione umanistica, questi status symbol devono essere “vistosi” perché gli altri ci riconoscano una superiorità di classe. Non si consumano beni ricercati in virtù dell’appartenenza a una classe privilegiata, ma si appartiene a quella classe in quanto consumatori di quei beni ricercati.

Di conseguenza, l’aspirazione al miglioramento delle proprie condizioni da parte di chi investe nella propria formazione è anzitutto aspirazione al consumo di “beni posizionali”, corrispondenti al proprio status. Ecco allora che le difficili condizioni sociali in cui versano i giovani laureati ex-benestanti – il «disagio» del titolo – consisterebbero in una perdita di disponibilità al consumo di beni posizionali.

Ma è veramente così? Proviamo a fare un esperimento mentale. Chi proviene da una famiglia agiata e ha una laurea in lettere, ad esempio, potrà in linea di principio continuare a consumare beni posizionali che segnalino la propria appartenenza a un ceto colto e borghese – per esempio andare a teatro o fare l’aperitivo – anche se disoccupato o precario. Potrà infatti contare su un cospicuo risparmio familiare a disposizione dei genitori – risparmio che, per inciso, in Italia ha tassi tra i più alti d’Europa.

Se di mancato accesso a posizioni sociali più elevate si può parlare, allora, questo non risiede nella possibilità di consumare beni posizionali o nella perdita di status. Risiede semmai nella difficoltà di collocarsi sul mercato del lavoro, ossia nel fantasma della disoccupazione che è presente anche a fronte di condizioni agiate di partenza e di consumi posizionali che rimangono immutati.

Ma questa esperienza collettiva dei giovani di fronte al rischio concreto di disoccupazione non è uguale per tutti. I lavori di sociologi ed economisti sui dati Istat dell’ultimo decennio raccontano che chi proviene da una famiglia agiata ha ancora opportunità di gran lunga maggiori rispetto a chi proviene da una classe inferiore: potrà investire meglio nella propria formazione, accedere a una rete di conoscenze che facilitano l’ingresso nel mondo del lavoro, rimanere disoccupato per qualche tempo in attesa di un posto di lavoro “adeguato”. Tutti fattori che, nel lungo periodo, faciliteranno l’ingresso nel mercato del lavoro.

Torniamo per un attimo al nostro laureato o alla nostra laureata in lettere. Vedremo anzitutto che costui o costei sarà più facilmente di provenienza borghese e di buone letture, cosa che ha reso più facile la scelta di investire in un corso di laurea umanistico nonostante il futuro incerto e i costi di trasferimento in un’altra città. Una volta ottenuto il titolo, questi laureati si troveranno ad affrontare le scarse opportunità di lavoro per critici letterari che, è ragionevole assumere, sarà piuttosto bassa.

Per tamponare almeno temporaneamente questa situazione, le famiglie dei nostri potranno decidere di finanziare un dispendioso master in giornalismo per i propri figli, o mobilitare le proprie conoscenze nel settore perché si presenti loro qualche opportunità lavorativa. Nel frattempo, i nostri continueranno a partecipare a eventi letterari allo scopo di “fare rete” ed entrare nei giri giusti, in cui le informazioni e le offerte di lavoro circolano più facilmente. Supponiamo infine che, ripagando l’attesa e gli investimenti, qualche opportunità alla fine si presenterà; poniamo: uno stage di sei mesi, cui faranno seguito sei mesi di inattività, poi altri sei mesi, e così via, fino a collocarsi in qualche modo nel mondo del lavoro.

Quanti di questi passaggi successivi potrà affrontare con successo chi è privo di origini borghesi e di mezzi economici? Pochi, decisamente. Chi affronta un investimento educativo con pochi mezzi a disposizione dovrà fare i conti anzitutto con le proprie limitate possibilità economiche, ma anche e soprattutto con una minore preparazione culturale al momento della scelta del corso di laurea, con l’inesistenza di connessioni familiari che introducano a reti di lavoro culturale o altamente qualificato, con l’impossibilità di finanziare una formazione post-laurea e di integrare i miseri compensi di stage sottopagati, di sopravvivere in attesa di una collocazione, ecc.

Di qui il probabile fallimento dell’investimento educativo cui fa seguito quell’esperienza di frustrazione duratura che Ventura chiama «disagio». Ma mentre questo «disagio» descrive la condizione di chi si affaccia al mondo del lavoro provenendo da un’estrazione sociale più bassa, Ventura lo attribuisce all’altra componente sociale, quella per cui trovare un lavoro adeguato e retribuito significa preservare la propria provenienza più o meno privilegiata.

Il risultato è una fotografia largamente distorta della situazione reale. Mentre il «disagio» reale deriva da un’aspirazione al miglioramento della propria posizione sociale che viene frustrata per via delle scarse condizioni economiche e materiali di partenza, questo è presentato da Ventura come una mera perdita di status – che però è di partenza inesistente per chi proviene dagli strati sociali più bassi e viene preservato intatto da chi ha disponibilità economica di famiglia. Il «disagio» dei figli delle classi benestanti sarà solo quello di dover dipendere ancora dal risparmio familiare per sostenere la propria vita e il proprio consumo di “beni posizionali”, subendo il confronto frustrante con la posizione dei propri genitori all’inizio delle loro carriere professionali. Questo non impedirà loro di continuare ad andare a teatro e frequentare eventi culturali. Potremmo allora dire che la fotografia che emerge da TCD lascia in ombra chi è ampiamente colpito dallo scompenso tra investimento formativo e opportunità di lavoro per mettere in luce una minoranza agiata che si trova di fronte a un rischio di decadenza in larga misura irrealistico. Presa alla lettera, TCD è una teoria del vittimismo borghese.

Purtroppo, l’ambizione di fornire una teoria generale del funzionamento della società spinge Ventura a definire la “classe disagiata” in termini talmente universali da valere per ogni epoca – dagli attuali operatori del settore culturale fino addirittura ai ceti intellettuali dell’antico Impero Persiano passando per la classe mercantile della Venezia del Cinquecento. «Si ha una classe disagiata», leggiamo, «ogni qualvolta la classe consumatrice non riesce più ad attingere alla propria fonte di benessere e reagisce investendo, ben oltre le proprie possibilità, in una competizione per conservare il proprio status».

La «classe disagiata», dice Ventura, non è un prodotto specifico dell’attuale crisi economica: cicli di ascesa e declino si susseguono in realtà da prima della fase attuale del capitalismo, anzi da prima del capitalismo stesso. L’idea è che, in una fase di ascesa, l’arricchimento generale comporti necessariamente una svalutazione dei beni posizionali di cui gode la classe consumatrice: se tutti possiamo permetterci lo champagne, questo smetterà di essere uno status symbol per i pochi che prima lo consumavano. La classe consumatrice perderà allora il proprio prestigio, divenendo una «classe disagiata».

È così che nelle pagine finali di TCD traiamo una morale da questa storia: è facile uscire dalla crisi, basta accettare che questa sia il conto da pagare per il benessere finora ottenuto e, di conseguenza, ricalibrare al ribasso le proprie aspettative posizionali. Il difficile, semmai, è decidere di farlo e accettare le crisi cicliche come condanna storica. Nelle parole di Walter Siti:

I fornai si lamentano di non riuscire a trovare apprendisti italiani disposti a lavorare per loro – cioè disposti ad alzarsi alle tre e mezza di notte per cominciare gli impasti: la prospettiva di non poter “vivere la notte” viene percepita da molti ragazzi italiani come una condanna ai lavori forzati. Lo stesso si potrebbe dire per lo scaricare le casse ai mercati generali, o per la raccolta di pomodori in Campania e di pistacchi in Sicilia. Dunque tra i giovani disoccupati ce n’è una quota che è semplicemente in attesa di trovare un lavoro non usurante.

Si tratta allora, per Ventura, di prendere coscienza del fatto che trovare un lavoro non usurante è oggi irrealistico, e accettare di dover fare il fornaio, il magazziniere, o il raccoglitore, mettendo da parte il titolo di studio conseguito.

Naturalmente, tutto questo discorso regge solo se si dimenticano le differenze di cui sopra, quelle per cui esistono disparità di classe iniziali che hanno un effetto determinante sulla posizione sociale che si riesce ad acquisire. Proprio queste disparità abbiamo visto conservarsi anche nelle recenti fasi di crisi. Tutti ora possiamo permetterci una bottiglia di champagne, ma qualcuno in enoteca, altri al discount. Una quota di disoccupati è certamente in attesa di lavori consoni alle proprie aspirazioni, ma quei pochi posti disponibili li stanno prendendo i disoccupati con maggiori risorse. Saranno gli altri a cancellare la laurea dal curriculum.

L’oblio di queste differenze nei rapporti sociali e la morale rassegnata che Ventura riserva ai figli delle classi benestanti ci sembrano andare a braccetto. Il sottotesto comune è una prospettiva di quello che il compianto Mark Fisher ha chiamato – in un libro omonimo appena tradotto in italiano per NERO edizioni – «realismo capitalista»: l’idea, cioè, che l’attuale ordinamento della società non sia un prodotto storico di come gli individui si sono organizzati in società – e come tale trasformabile. Al contrario, l’ideologia del «realismo capitalista» ci fa accettare questi rapporti sociali come a-temporali, naturali – magari l’esito necessario di un’aspirazione innata a ostentare uno status – e come tali intrasformabili. «There is no alternative», per dirla con Margaret Thatcher.

A noi piace piuttosto raccogliere il monito di Mark Fisher a tornare a contemplare la possibilità di un futuro diverso, e considerare la prospettiva rassegnata che anche TCD assume come un sintomo di questa possibilità. «La stessa opprimente pervasività del realismo capitalista», scrive Fisher in chiusura del suo libro, «significa che anche il più piccolo barlume di una possibile alternativa politica ed economica può produrre effetti sproporzionatamente grandi». Ovvero: «da una situazione in cui nulla può accadere, tutto di colpo torna possibile».

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