Temporalità del disastro tra frantumazioni e ricuciture

Discorsi in divenire sul terremoto dell’Appennino Piceno-Laziale.

Continuiamo il focus sul terremoto che il 24 agosto ha colpito alcune zone dell’Italia centrale proponendo una riflessione che interpreta le narrazioni dei media attraverso gli strumenti dell’antropologia e delle scienze sociali.

Il terremoto sconvolge i luoghi e le comunità che li abitano: accanto ai propri cari si perdono i riferimenti territoriali e le relazioni sociali, piombando così nella condizione di essere “terremotati dentro”. Il disastro ha un carattere totalizzante ed è potenzialmente disordine: spaziale, morale e sociale, ovvero una forma di alterazione o spaesamento che impedisce di sentirsi completamente a proprio agio in un luogo o in una situazione. Due giorni dopo il terremoto del 24 agosto 2016, la giornalista Benedetta Perilli ha effettuato un reportage ad Amatrice, suo paese d’origine, in cui racconta il parossismo del disorientamento attraverso luoghi che fino a poco prima erano familiari e che adesso, invece, appaiono cancellati, svaniti:

Torno ad Amatrice passando per una strada che non conoscevo, appena asfaltata e con un ponte che non avevo mai visto. Le altre vie di accesso sono chiuse. Da est, il paese sembra intatto ma appena superi l’ultimo blocco, quello al quale accedono solo i parenti delle vittime, si aprono violenti i vuoti sulle case e sui palazzi. La prima che incontro, in questa dolorosa camminata verso un passato che non c’è più, è proprio casa mia. La abbraccio, perché ha salvato mio padre, ma capisco solo in quel momento che non ci entrerò mai più. Continuo, manca l’orizzonte che conosco. Quei tetti che coprono le montagne, ora sono a terra, e tra una tenda che sventola – quella di casa di Marisa – e la testiera di un letto che si è trasformato in tomba, ora spuntano le cime verdi. Sarebbe quasi più bello il cielo di questa Amatrice nuova, dove sul corso svetta solo la torre – senza campana, caduta dopo l’ennesima scossa – senza case, senza vita. Sarebbe quasi perfetto se non fosse che sotto alle macerie sono sepolti ancora i corpi di tanti amatriciani» (La Repubblica, 26 agosto 2016).

Il disastro, però, è anche uno sconvolgimento del tempo, il quale viene sbriciolato in una serie di scansioni e ritmi diversi che si sovrappongono e si scontrano, che si escludono e si evitano. Con il terremoto il tempo si frantuma e dalle sue crepe emergono svariate temporalità: il tempo profondo della geologia e quello umano della biologia e del nostro quotidiano, il tempo dei soccorsi e quello del cordoglio, il tempo della prevenzione e quello della ricostruzione.

Protezione civile, vigili del fuoco, polizia, carabinieri: sono centinaia gli uomini mobilitati negli interventi di soccorso nelle zone colpite. Scavano con le mani, in una lotta contro il tempo, per trovare persone ancora vive sepolte sotto le macerie (Corriere della Sera, 24 agosto 2016)

Soccorsi in ritardo, la prima squadra dei vigili del fuoco è arrivata alle 7 e 40 (Stefano Petrucci, sindaco di Accumoli  dal Corriere della Sera, 24 agosto 2016)

La macchina dei soccorsi si è attivata subito, pur aver scontato ritardi dovuti al fatto di dover arrivare in una zona di montagna, con la viabilità sconvolta: raggiungere ogni singola frazione è difficile ma il sistema si è orma completamente dispiegato» (Carlo Rosa, responsabile Protezione Civile del Lazio) (Il Messaggero, 24 agosto 2016)

Il primo passo, quello più immediato, sarà dunque togliere gli sfollati dalle tende, perché tutti sanno che entro un mese, da queste parti, arriveranno il freddo, la pioggia e, più avanti, anche la neve» (Il Tirreno, 29 agosto 2016)

Un minichalet a nucleo famigliare. Per i cinque anni stimati per la ricostruzione dei paesi terremotati, i 2.500 sfollati dell’area di Arquata del Tronto hanno bocciato sia le soluzioni provvisorie, come i container, sia quelle in muratura che danno concretezza al concetto di definitivo (Corriere della Sera, 29 agosto 2016)

Il disastro, tuttavia, non cambia solo il tempo, bensì dura nel tempo: non è semplicemente un evento, ma un discorso su un evento: permette di osservare continuità e rotture, mette in connessione il globale e il locale, obbliga a speculare sul passato e a mantenere uno sguardo proteso verso l’avvenire (Benadusi, 2015). In quanto processo storico e sociale, il disastro può cominciare prima che il fattore di impatto abbia luogo: si pensi, ad esempio, ai dibattiti pubblici che cercano di ricostruire la situazione pre-evento al fine di identificare le cause, le assenze, i rimandi, le negligenze che non hanno “visto” arrivare il pericolo o l’hanno ignorato, talvolta facilitato, o che in ogni caso hanno determinato l’esposizione al rischio dei luoghi e della comunità colpiti (Ciccozzi, 2013; Saitta, 2015). Nel caso del recente terremoto nel reatino, la Procura di Rieti ha aperto immediatamente un’inchiesta per disastro colposo, con conseguenti polemiche tra istituzioni e appaltatori:

L’ipotesi di reato è disastro colposo e il procuratore capo Giuseppe Saieva – affiancato da tutti i pm – vuole accertare in particolare perché siano crollati una scuola di Amatrice ristrutturata appena nel 2012 e il campanile della chiesa di Accumoli, restaurato pochi anni fa, che ha investito una casa uccidendo padre, madre e due figli piccoli (Huffington Post Italia, 25 agosto 2016)

Terremoto: lo scaricabarile fra Regione e Comune sulle colpe per la scuola crollata. L’istituto fu consegnato nel settembre 2012 dopo mesi di lavori. Ha resistito solo l’edificio aggiunto negli anni Settanta (Corriere della Sera, 28 agosto 2016)

Terremoto, l’imprenditore che effettuò i lavori: “La scuola di Amatrice? Non mi chiesero di fare adeguamenti sismici”» (Gianfranco Truffarelli, titolare di Edilqualità Srl) (Il Messaggero, 29 agosto 2016)

Quello del disastro è un tempo di crisi in cui si tenta una ricomposizione territoriale e sociale, ed è simultaneamente un tempo “sospeso” e un tempo “accelerato”. Nel primo caso si è in una condizione di profonda incertezza, di attesa, di dubbi, ovvero in un periodo di inerzia o latenza (George, 1960) che emerge dall’interazione tra la vulnerabilità fisica e la vulnerabilità sociale (D’Ercole et al., 1993; Ligi, 2009); nel secondo caso, invece, il disastro è un fattore di cambiamento o, per meglio dire, di accelerazione del cambiamento, ovviamente imprimendo una certa direzione al cambiamento stesso (Gribaudi, 2010). Il “collasso del quotidiano” espone la presenza del Sé «al rischio di non mantenersi di fronte al divenire, e soggiacente per ciò stesso all’angoscia» (de Martino, 1977: 227), eppure può anche creare «le condizioni di un’esplosione di dinamismo senza precedenti» (Benadusi, 2013: 104). La distanza tra queste due possibilità è lo spazio politico generato dal caos del disastro (Oliver-Smith, 1996), ovvero quello spazio in cui si possono consolidare antichi poteri locali, la cui gestione dell’emergenza e del post-disastro può rivelarsi molto più distruttiva per il tessuto sociale, economico e ambientale del disastro stesso (Lomax Chairetakis, 1991; Ciccozzi 2016), oppure in cui si possono sviluppare nuove relazioni di potere, con l’emersione (o il tentativo di emersione) di nuovi soggetti politici e di nuove forme associative (Pitzalis, 2015).

La discontinuità politica, economica, spaziale e, appunto, sociale e temporale del disastro non rappresenta, dunque, solamente un periodo di ripresa dallo sgomento, quanto, piuttosto, un ulteriore banco di prova per la tenuta delle istituzioni culturali locali, quelle grazie alle quali gli abitanti «hanno fatto la loro storia; e che sole possono garantire loro la continuità» (Signorelli, 1992). Nel disordine causato da un disastro vengono stravolti i confini cui è affidata la tutela simbolica dell’identità, così faticosamente e continuamente negoziati e ridefiniti dal corpo sociale; vengono cioè alterate le categorie stesse di spazio e di tempo, si accorciano le distanze tra le persone e ne vengono mischiati i generi, alterati i bisogni, ignorati i diritti. Dinnanzi a ciò, la risposta culturale sarà necessariamente volta a ripristinare un legame tra il passato, il presente e il futuro: la ritessitura di una dialettica tra temporalità che valorizzi la continuità piuttosto che la rottura, sia per non perdersi, sia per non perdere i propri punti di riferimento (Ciccozzi, 2015). Senza la ricucitura di questo legame temporale, il disastro rischia di trasformarsi in un abisso che spezza il nesso tra le generazioni:

La popolazione deve restare qui. No all’esodo, neppure temporaneo. Bisogna ricostruire conservando i simboli (Sergio Pirozzi, sindaco di Amatrice) (Il Giornale di Rieti, 27 agosto 2016

Gli sfollati protestano e i funerali tornano ad Amatrice: cancellata la cerimonia a Rieti, si riportano al paese decine di bare già trasferite a valle. […] Renzi: “Esequie nella vostra città, come è giusto” (La Repubblica, 29 agosto 2016)

Le prime dichiarazioni dell’establishment politico-intellettuale nazionale in merito alla ricostruzione sembrano confermare l’impostazione del riedificare ciascun paese “dov’era e com’era”:

Dobbiamo lavorare affinché questi connazionali possano abbandonare quanto prima le tende e per consentire loro di restare vicini alle proprie radici. È un loro diritto rimanere in quei luoghi e restare comunità» (Matteo Renzi, Primo Ministro – Corriere della Sera, 25 agosto 2016)

Ora, il terremoto impone una rigorosa decisione per Amatrice a Arquata, da ricostruire integralmente (con l’eccezione delle brutte architetture moderne) in loco, come erano e dove erano, chiesa per chiesa e palazzo per palazzo (Vittorio Sgarbi, critico d’arte – Il Giornale, 28 agosto 2016)

Per i sopravvissuti che hanno perso le case bisogna operare con cantieri leggeri, che non allontanino le persone dai luoghi dove abitavano. Non tendopoli ma edifici leggeri, vicinissimi, che si potranno smontare e riciclare in seguito». «Non si deve allontanare la gente da dove ha vissuto. Amatrice, Pescara del Tronto, Arcuata, Accumoli, Grisciano: bisogna ricostruire tutto com’era e dov’era. Sradicare le persone dai loro luoghi è un atto crudele. Vuol dire aggiungere sofferenza alla sofferenza» (Renzo Piano, architetto) (La Repubblica, 29 agosto 2016; Corriere della Sera, 29 agosto 2016)

In un paese come l’Italia, ciclicamente funestato da sismi, l’esperienza impone cautela: il tempo della ricostruzione sarà lungo (sebbene facciano ben sperare la riapertura “in tempi record” di un ponte (La Repubblica, 3 settembre 2016) e di una scuola (Corriere delle Alpi, 12 settembre 2016) e non sarà determinato né dallo slancio emotivo e solidale degli italiani in questi primi giorni post-disastro, né dagli annunci governativi. Come ha chiarito lo stesso sindaco di Amatrice, Sergio Pirozzi, «se non si riparte, farò la guerra a tutti» (Il Giornale, 26 agosto 2016). Si è aperto, in altre parole, uno spazio politico che, sebbene sembri impostato in maniera piuttosto diversa da quella verticistica ed egemonica, esterna ed estranea messa in opera a L’Aquila dopo il terremoto del 6 aprile 2009, è ancora tutto da definire, da negoziare, da posizionare. Il «Ditemi cosa è meglio per voi: non possiamo decidere tutto noi da Roma» di Matteo Renzi rivolto ai terremotati (Ansa, 27 agosto 2016) è un buon primo passo di disponibilità all’ascolto, ma per far emergere gli elementi locali di intraprendenza e di ingegno che possono fungere da alternativa al trauma sociale e psicologico estremo, è necessario compiere ulteriori passi: coinvolgere gli abitanti, avviare pratiche di sussidiarietà fondate sulla collaborazione tra amministrazione e cittadini, considerare i saperi locali, accogliere i punti di vista dissonanti, recepire le preoccupazioni di chi vive in condizioni di sofferenza, riconoscere che una serie di condotte umane – innanzitutto politiche ed economiche – hanno prodotto o acuito fragilità diffuse, vulnerabilità sociali, esposizioni al rischio.

Per mezzo di un approccio attento non solo ai fattori tecnici, ma anche al contesto sociale, storico e culturale, è possibile immaginare nuove forme di democrazia e impostare una nuova relazione con lo spazio, così da riformulare il tempo del disastro oltre il frangente dell’emergenza: un lavoro lungo e quotidiano, ma necessariamente lungimirante da compiere durante quello che la Protezione Civile chiama “tempo di pace”.

Bibliografia

  • Mara Benadusi, Cultiver des communautés après une catastrophe. Déferlement de générosité sur les côtes du Sri Lanka, in Sandrine Revet – Julien Langumier (a cura di), Le gouvernement des catastrophes, Editions Karthala, Parigi, 2013.
  • Id., Antropologia dei disastri. Ricerca, attivismo, applicazione. Un’introduzione, in Mara Benadusi (a cura di), Antropologia dei disastri. Ricerca, attivismo, applicazione, numero monografico di «Antropologia Pubblica», rivista della SIAA (Società Italiana di Antropologia Applicata), n. 1, anno 1, gennaio-giugno 2015.
  • Antonello Ciccozzi, Parola di scienza. Il terremoto dell’Aquila e la Commissione Grandi Rischi. Un’analisi antropologica, DeriveApprodi, Roma, 2013.
  • Id., «Com’era-dov’era». Tutela del patrimonio culturale e sicurezza sismica degli edifici all’Aquila, in «Etnografia e ricerca qualitativa», rivista de “il Mulino” (Bologna), n. 2, maggio-agosto 2015.
  • Id., I pericoli della ricostruzione: antropologia dell’abitare e rischio sociosanitario nel dopo-terremoto aquilano, in «Epidemiol Prev», n. 40, 2016.
  • Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali [1977], Einaudi, Torino 2001.
  • Robert D’Ercole et al., Les vulnérabilités des sociétés et des espaces urbanisés: concepts, typologie, modes d’analyse, in «Revue de géographie alpine», vol. 82, n. 4, 1993.
  • Pierre George, Problèmes géographiques de la reconstruction et de l’aménagement des villes en Europe occidentale depuis 1945, «Annales de Géographie», vol. 69, n. 371, 1960.
  • Gabriella Gribaudi, Terremoti. Esperienza e memoria, in «Parole chiave», numero monografico Terra, vol. 44, Carocci, Roma 2010.
  • Gianluca Ligi, Antropologia dei disastri, Laterza, Roma-Bari, 2009.
  • Anna Lomax Chairetakis, The past in the present: community variation and earthquake recovery in the Sele Valley, southern Italy, 1980-1989, tesi phd, Columbia University, 1991.
  • Anthony Oliver-Smith, Anthropological research on hazards and disasters, in «Annual Review of Anthropology», vol. 25, 1996.
  • Silvia Pitzalis, Stravolgimento del mondo e ri-generazione: il terremoto di maggio 2012 in Emilia, in Pietro Saitta (a cura di), Fukushima…, 2015.
  • Pietro Saitta (a cura di), Fukushima, Concordia e altre macerie. Vita quotidiana, resistenza e gestione del disastro, Editpress, Firenze, 2015.
  • Amalia Signorelli, Catastrophes naturelles et réponses culturelles, in Le feu, numero monografico di «Terrain», n. 19, Maison des Sciences de l’Homme, Parigi, 1992.
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