Sulle derive del discorso e della pratica antimafiosa.
La prima parte di due uscite sulla deriva dell’antimafia. Una riflessione su una categoria che vive ormai di vita propria, con finalità a se stanti (qui la seconda parte).
Possiamo dare un nome allo scollamento ormai conclamato tra buona parte dell’azione antimafia organizzata e gli obiettivi per cui esiste: post-antimafia. Per spiegare cosa intendo con questo termine, utilizzerò l’accostamento con un neologismo che negli ultimi mesi ha conquistato un posto di rilievo nel dibattito pubblico: la “post-verità”. L’espressione fa riferimento al diffondersi di notizie false accolte come vere e in grado di generare conseguenze tangibili. La sfumatura concettuale che differenzia la post-verità da una semplice “bufala” è l’utilizzo che se ne fa per i propri obiettivi politici o di identificazione con una comunità indipendentemente dalla veridicità o meno del fatto in questione. In altre parole ci troviamo di fronte a una sorta di bluff a carte scoperte, dove ognuno finge – finendo col crederci – che il trucco possa trasformarsi in verità solo grazie alla passione e alla pressione con cui viene imposto alla platea, reale o virtuale. Questa “sfumatura” è importante per poter parlare di “post-antimafia”, laddove è possibile affermare che oggi il valore e la spendibilità dell’antimafia e il contrasto effettivo alla criminalità organizzata possono viaggiare – e spesso viaggiano – su due binari del tutto indipendenti.
La riflessione al centro di questo articolo è centrata soprattutto su Cosa nostra e sull’antimafia civile e politica in Sicilia, sebbene alcune tendenze possano essere rilevate anche nei movimenti anti-camorra e anti-‘ndrangheta. La cronaca degli ultimi anni abbonda di scandali legati alla cattiva antimafia, reale o presunta. Ne citiamo qui alcuni, tra quelli che hanno destato più clamore nell’immaginario mediatico italiano.
A inizio 2016 scoppia il caso Antonello Montante: l’allora vicepresidente di Confindustria nazionale con delega alla legalità e presidente di quella siciliana, tra i protagonisti della discesa in campo dell’associazione degli industriali nella battaglia contro il pizzo, viene indagato per concorso esterno a Cosa nostra, con l’accusa di avere avuto “un rapporto continuativo con la famiglia mafiosa di Serradifalco dal 1990 in poi”. Lo scorso settembre, invece, la Corte d’appello di Palermo conferma la pena di 4 anni e 8 mesi per Roberto Helg, presidente della Camera di commercio di Palermo, e vicepresidente Gesap all’epoca dei fatti, per aver intascato una tangente da 100mila euro da un commerciante dell’aeroporto di Palermo. Helg, fino all’arresto, si era distinto nell’attività di promozione di manifestazioni e attività antimafia.
Un altro caso che ha suscitato clamore riguarda l’allora presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, tutt’ora sotto inchiesta per una presunta mala gestione dei beni confiscati alla mafia. Del caso si era interessato un altro volto simbolo dell’antimafia di questi anni, il giornalista Pino Maniaci, direttore di TeleJato, piccola emittente locale di Partinico, divenuta famosa per le quotidiane denunce delle attività dei clan e perch per molti anni è stata una palestra per giovani aspiranti giornalisti che provengono da tutta Italia. Nella primavera del 2016, lo stesso Maniaci finisce nel registro degli indagati del tribunale di Palermo con l’accusa di estorsione ai danni di due amministratori locali: pagare per non essere “sputtanati” dai microfoni di TeleJato. Maniaci si difende affermando di essere al centro di una trappola, ma quello che interessa qui, in attesa che l’iter giudiziario faccia il suo corso, è sottolineare come questa storia faccia da detonatore per una serie di malumori diffusi e sotterranei nei confronti dell’antimafia, anche in presenza di soggetti non ancora giudicati, come Maniaci, Montante e Saguto.
L’antimafia da parata, l’antimafia degli eroi, i professionisti dell’antimafia, il marketing antimafia. Riemergono con virulenza le critiche mosse in questi anni ai volti più pop dello schieramento antimafia, su tutti Roberto Saviano. Ma soprattutto si comincia a mettere in discussione apertamente anche la stessa Libera, l’associazione caposaldo del movimento antimafia degli ultimi due decenni. Un dirigente di peso come Franco La Torre, figlio di Pio, va via in polemica denunciando la scarsa democrazia interna all’associazione. Sempre nel 2016 esce per Rubbettino “I tragediatori”, un atto d’accusa verso l’antimafia istituzionale firmato da Francesco Forgione, ex presidente della commissione parlamentare antimafia e già segretario regionale di Rifondazione comunista in Sicilia. E nello stesso anno, l’editore Laterza pubblica “La mafia è dappertutto. Falso!”, del giurista palermitano Costantino Visconti, che punta il dito su politiche antimafia e strategie giudiziarie controverse.
La fortezza dell’antimafia sembra scricchiolare come mai dagli anni Novanta in poi, quando un patto tacito tra i militanti impone di silenziare il fuoco incrociato per non indebolire il fronte comune contro i clan.
Cosa è successo, quale mutazione è avvenuta, affinché una comunanza così solida di valori cominciasse a sbriciolarsi? L’antimafia si è fatta post-antimafia, in un processo di divaricazione lento ma sempre più netto tra esigenze dovute al contrasto alla criminalità organizzata ed esigenze endogene alla sopravvivenza di una categoria che sembra ormai vivere di vita propria, con finalità a se stanti.
Da questo punto di vista, un caso interessante è quello della post-antimafia dell’attuale presidente della regione Sicilia, Rosario Crocetta. Il governatore, che ha iniziato la sua ascesa nelle istituzioni come sindaco di Gela, ha costruito attorno al proprio ruolo di “eroe antimafia” la sua stessa carriera politica. Minacciato dai clan quando era amministratore locale, e per questo messo sotto scorta, tra le sue caratteristiche mediatizzabili – omosessuale, comunista e paladino antimafia – ha scelto di attingere maggiormente da quella politicamente più neutra e più adatta a costruire un consenso trasversale. Crocetta, protagonista di una controversa legislatura fatta di crisi di governo e rimpasti ripetuti, ha sin dall’inizio retto la sua maggioranza grazie all’appoggio di soggetti provenienti dalle file dell’ex Democrazia cristiana, e dall’Mpa di Raffaele Lombardo, storicamente tutt’altro che baluardi della legalità e interessati in più di un’occasione da indagini e processi per le relazioni stabilite con i clan. Per Crocetta questo non è un problema, non costituisce una questione: di fronte a critiche nel merito, il governatore suole mettere avanti la sua storia di paladino antimafia, sotto scorta, come salvacondotto per sottrarsi a qualsiasi responsabilità fattuale della sua azione politica.
Interessante, da questo punto di vista, il parallelo tra Rosario Crocetta e Salvatore Cuffaro, presidente della Sicilia dal 2001 al 2008, anno in cui rassegna le dimissioni dopo la condanna in primo grado per favoreggiamento a Cosa nostra e rivelazione di segreti d’ufficio. Nel 2005, l’allora governatore promuove per tutta l’isola una campagna di comunicazione consistente in grandi manifesti affissi per le città siciliane: “La mafia fa schifo”. Al di là delle inevitabili ironie sollevate dall’iniziativa, va notato che quello di Cuffaro, al contrario di Crocetta, è un vero e proprio atto di mimetizzazione: il politico democristiano, per storia personale, è sempre stato estraneo agli ambienti antimafia (in molti ricordano l’appassionato intervento in difesa della “migliore classe dirigente” democristiana dalle accuse dell’antimafia, di fronte a un attonito Giovanni Falcone durante una puntata del Maurizio Costanzo Show). Dunque, la sua campagna contro la criminalità organizzata appare più come una bufala che come un atto di post-verità.
Cuffaro spaccia per vero un posizionamento personale che sa essere falso. Crocetta, al contrario, è così immerso dentro la mitopoiesi dell’eroe antimafia che ha maturato in seno, che ingannando gli altri inganna anche se stesso. Sembra dire all’opinione pubblica siciliana: “Dovete stare con me perché io sono l’antimafia, e questo prescinde da quanto la mia azione politica sia in linea o contraddica i principi dell’antimafia”.
La post-antimafia non si cura della verità dei suoi assunti ma della concretezza degli effetti ottenuti: e gli effetti sono innegabili. Senza l’aura e lo scudo di eroe antimafia, Crocetta – un outsider nel centrosinistra siciliano – non avrebbe probabilmente avuto alcuna speranza di imporsi come presidente della Regione.