Il tempo della post-antimafia (II)

Sulle derive del discorso e della pratica antimafiosa.

La seconda parte di un articolo sulle derive della lotta alla mafia. Lorenzo Misuraca si sofferma sull’antimafia in quanto categoria che vive ormai di vita propria, proponendo una riflessione che va ben al di là del giudizio sull’operato delle singole componenti di un movimento (qui la prima parte).

Dove vanno rintracciate le origini della post-antimafia, dal punto di vista storico e politico? A costo di apparire schematici, potremmo individuare tre fasi funzionali al nostro ragionamento. Nella prima, che si conclude nei primi anni ’90 dello scorso secolo, l’antimafia rappresenta un mezzo; nella seconda diviene essa stessa un’ideologia (un fine); la terza fase si sovrappone alla seconda (fino a sostituirla, almeno nell’ultimo decennio): è qui che l’antimafia diventa post-antimafia. Storicamente, il movimento antimafia nasce in seguito a battaglie contingenti, legate all’estensione dei diritti di lavoratori, contadini, operai e sottoproletari, fino a diventare battaglia di mantenimento, di resistenza, nelle fasi di maggiore avanzamento del potere mafioso sui territori interessati dal fenomeno. Dal punto di vista politico, la prima fase dell’antimafia si intreccia dunque inevitabilmente con le rivendicazioni del sindacalismo e delle forze progressiste, il partito comunista italiano su tutti nel secondo dopoguerra.

Questo perché i clan, prima in funzione di manovalanza dei feudatari e della borghesia mafiosa, poi per conto proprio, costituiscono il maggiore ostacolo per l’emancipazione delle classi subalterne. Si fa antimafia perché la mafia è un ostacolo contro il progresso, contro l’innalzamento dei salari e la riduzione degli orari lavorativi, contro le condizioni di vita nei quartieri popolari e l’assenza d’istruzione e sanità per i più poveri. Come spiega lo storico Umberto Santino, la mafia è un’estensione della lunga mano del capitalismo, e l’antimafia è un mezzo per raggiungere un avanzamento politico e sociale complessivo (Cfr. U. Santino, Storia del movimento antimafia, Editori Riuniti, Roma 2009).

Il passaggio tra gli anni Ottanta e i Novanta del ventesimo secolo costituiscono, come è noto, un terremoto storico-politico a livello italiano e internazionale. Cade il muro di Berlino, crolla il blocco sovietico e anche la sinistra italiana, che si trova orfana della copertura geopolitica di cui ha goduto per tutta la prima Repubblica, si deve reinventare. In quello stesso periodo scoppia tangentopoli. Il sistema partitico ne esce quasi annientato. Grande è il disorientamento delle forze progressiste, non solo all’interno del Parlamento e delle istituzioni, ma anche nel tessuto sociale del paese. Proprio in quella fase intervengono le stragi del 1992, a Capaci e via d’Amelio, creando una soluzione di continuità nella relazione tra presenza mafiosa e opinione pubblica siciliana e nazionale. La “primavera di Palermo”, la stagione della Rete di Leoluca Orlando e la partecipazione emotiva di gran parte della popolazione creano i presupposti per il passaggio alla seconda fase dell’antimafia. Questa nasce senza un progetto preciso, o non del tutto consapevole, da parte dei suoi principali promotori, con la funzione di riunire all’interno di un nuovo campo di riferimenti ideologici la vasta area progressista orfana del blocco comunista in disfacimento.

In quegli anni, si creano le condizioni e la necessità storica per cui l’antimafia si fa, per la prima volta, ideologia. Non più un complesso di conoscenze, strumenti, relazioni utilizzate come mezzo per rimuovere l’ostacolo rappresentato dalle mafie sulla via del progresso, ma sistema di idee, visione del mondo, ideologia, appunto. E come tutte le ideologie, anche attorno all’antimafia si sviluppa una narrazione che ha come primo obbiettivo il rafforzamento del blocco ideologico che celebra. L’etichetta “antimafia” può essere così associata a prodotti culturali quali libri, film, dischi, senza che questo sia incidentale rispetto al loro valore intrinseco, ma donando loro un valore più alto proprio in quanto al servizio della causa comune. Dinamica che rimanda agli artisti di partito, che negli anni della divisione in blocchi, acquistavano fortuna in funzione alla loro devozione all’ideologia di riferimento. L’antimafia, come tutte le ideologie nel loro degradarsi storico, finisce per essere fine e non mezzo verso qualcos’altro. In una fase di progressiva corsa verso l’autoreferenzialità politica, culturale, economica, la lotta antimafia finisce con il trasferirsi quasi esclusivamente sul piano simbolico.

Diversi sono i fattori che contribuiscono al progressivo abbandono del terreno della contingenza da parte delle organizzazioni politiche, culturali e sindacali verso il meno faticoso piano simbolico. Oltre all’ideologizzazione dell’antimafia, possiamo citare l’oggettiva crisi della rappresentanza, e l’imbrigliamento della politica da parte degli equilibri economici e finanziari internazionali, che producono frustrazione in chi lavora per il miglioramento delle condizioni di vita e spinge la lotta alla mafia su un fronte fatto soprattutto di linguaggio, narrazione, creatività, produzione culturale. La necessità di costruire un’epica dell’antimafia popolare altrettanto seducente quanto quella della criminalità organizzata e l’importanza dell’alfabetizzazione dei valori antimafiosi spinge i movimenti antimafia in un angolo con poca prospettiva di sviluppo. La crisi economica che arriva in Europa e in Italia nella seconda metà degli anni 2000 funziona da detonatore. A crollare non è più un sistema partitico, come nel caso della prima Repubblica, ma lo stesso patto di fiducia tra cittadini e corpi intermedi, siano essi i partiti, i sindacati o i grandi soggetti del terzo settore, percepiti ora come carrozzoni tenuti in piedi più per la sopravvivenza dei dipendenti che per i principi fondativi.

Siamo nel periodo di passaggio tra la seconda fase dell’antimafia e la post-antimafia. I movimenti che lottano contro i clan e, volendo estendere il campo, le cosiddette forze progressiste del paese, pagano l’aver sostituito il piano politico, rivendicativo, vertenziale, con quello culturale e simbolico, invece di limitarsi a un affiancamento delle due modalità, entrambe necessarie e indispensabili. Flash mob, campagne di comunicazione, grandi eventi, bestseller, si rivelano idiomi incomprensibili per quelle masse che dovrebbero essere per prime interessate ad imbracciare le armi dell’antimafia per migliorare le proprie condizioni di vita. Le adunate al grido di “la mafia è una montagna di merda”, gli one man show televisivi di Roberto Saviano, le regole del marketing applicato alla lunga lista di martiri, come nelle produzioni televisive e cinematografiche di Pif , tutte queste forme di narrazione depurate dalla dimensione politica, riescono a scaldare solo le coscienze di chi possiede già un’alfabetizzazione e una formazione culturale al di sopra della media. Il resto della popolazione, assediata dalla morsa della crisi economica, inizia a percepire la “lezione antimafia” come una bella favola lontana, o peggio, come un privilegio dell’alta borghesia che non ha problemi più urgenti. Siamo all’antimafia delle liturgie, che – come tutte le ideologie in fase di decomposizione – inglobano in sé anche le liturgie dell’anti-liturgia. Prende piede, grazie anche alla diffusione del web 3.0 e dei social network, una rete di movimenti e aggregazioni antimafia che fondano la propria ragion d’essere proprio sull’opposizione all’”antimafia d’apparato”, che però lascia fuori dal vaglio critico la magistratura in toto: il movimento delle agende rosse e il popolo viola ne sono un paio di esempi.

Si arriva allo stravolgimento del termine “antimafia sociale”, non più inteso come la parte che la cosiddetta società civile e i singoli cittadini devono svolgere a fianco dei corpi intermedi per combattere la criminalità organizzata, ma una battaglia corpo a corpo con partiti e istituzioni visti come estensioni camuffate e ripulite dei clan. Siamo ormai negli anni dei movimenti populisti post-televisivi, rappresentati in Italia soprattutto dal Movimento 5 stelle, ma anche dalla corrente salviniana della Lega Nord che prende il sopravvento all’interno del partito. Se uno vale uno, sempre e comunque, non vi è storia o complessità da far valere. Non esiste il vero e il falso, ma comunità che eleggono la propria verità e in base al peso elettorale o al carisma mediatico riescono a imporla ad altre comunità. Eccoci in piena era della post-verità, e di conseguenza della post-antimafia. Crollano i capisaldi della ventennale ideologia antimafia, anche il Santo padre della lotta ai clan, Don Ciotti, e la sua Chiesa, Libera, vengono sottoposti ad atti di guerriglia, quando non a veri e propri tentativi di demolizione. Cosa ci riservano i prossimi anni è difficile prevederlo.

Rimane una domanda forte alla fine di questo ragionamento: e la mafia, dove se n’è stata la mafia in tutti questi trasmutamenti dell’antimafia? Sicuramente anch’essa è cambiata così tanto da essere a malapena riconoscibile rispetto a quella di appena venti anni fa: imprenditoriale, finanziarizzata, sempre meno militare, sempre più simile a un comitato d’affari (R. Sciarrone, a cura di, Alleanze nell’ombra. Mafie ed economie locali in Sicilia e nel Mezzogiorno, Donzelli 2011).

Se anche la mafia si sia spinta così oltre da poter parlare di post-mafia è un argomento su cui qui non si osa proporre un’analisi. In ogni caso, per rinsaldare la battaglia contro la criminalità organizzata e tirarla fuori dalle secche della post-antimafia servirà ultimare il processo di de-ideologizzazione e riportarla a una dimensione di strumentalità verso un avanzamento progressista complessivo della società, a partire dalla fasce di popolazione più umili e umiliate.

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