Pratiche partecipate per non tornare alla normalità culturale.
Il lockdown più restrittivo è ormai terminato e il ritorno alla normalità è ciò che in qualche modo tutti auspichiamo: ci permetterà di riprendere le relazioni sociali, riappropriarci dello spazio pubblico e riconnetterci con una dimensione progettuale dell’esistenza. Ma è anche qualcosa che profondamente temiamo, poiché di quella norma abbiamo colto, in questo tempo dell’assenza, le storture, le contraddizioni, le smanie, le incompatibilità con una “buona vita“. Molti di coloro che appartengono al variegato mondo dell’industria culturale, come chi scrive, hanno vissuto questo periodo sospeso nel tentativo di rimanere connessi con le proprie vite e continuare le attività precedenti, attività che giorno dopo giorno venivano erose dall’impossibilità di mantenere le condizioni materiali di fruizione dei prodotti del proprio lavoro.
Nella fase due-quasi tre, di cui si stenta ancora a definire i contorni, si tratterà di attraversare un lungo periodo di incertezza, ridefinizione di ruoli e delle modalità di mantenimento della propria ragion d’essere e ciò è vero soprattutto per quei settori e servizi considerati accessori alla sopravvivenza, tra i quali, ad esempio, musei, teatri, cinema o gallerie. Eppure, una questione centrale nei mesi a venire sarà proprio il contributo che il sistema culturale, e in particolare quello degli spazi dedicati alla fruizione e alla ricerca sul patrimonio materiale e immateriale, potrà dare alla costruzione del prossimo futuro. E all’interrogativo su come reagire sarà necessario allora rispondere collettivamente.
Il lavoro culturale inizia oggi una raccolta delle riflessioni individuali emerse durante il periodo di confinamento domestico e che proseguono nel tempo incerto della “ripartenza”. Inviando le vostre idee all’indirizzo mail culturapartecipata@gmail.com, cercheremo di costruire un percorso condiviso per produrre un documento finale che costituirà il punto d’inizio per una piattaforma di discussione comune.
Negli ultimi mesi abbiamo assistito a una lotta per l’esistenza online che ha investito l’intera industria culturale, i cui contenuti hanno dovuto trasferirsi in blocco sulle piattaforme digitali. Con l’esplosione dell’emergenza, gli operatori culturali si sono scoperti improvvisamente ammutoliti di fronte alle curve epidemiche e alla riscoperta dell’autorevolezza della narrazione scientifica sotto la quale tutti desideriamo rifugiarci. Alcune istituzioni culturali, quelle che più radicalmente hanno accantonato l’idea di una missione sociale, abbracciando piuttosto quella dell’intrattenimento e della moltiplicazione dell’offerta per lo svago, si rivelano adesso addirittura velleitarie, cristallizzate nell’ambito dell’economia dell’effimero e soprattutto senza i mezzi per ripartire da dove avevano interrotto, dato che spesso i costi di mantenimento di macchine produttive altamente complesse non sono ormai sostenibili senza un poderoso intervento pubblico.
Senza dubbio questo periodo ha favorito la libera circolazione di informazioni e dati e la diffusione senza precedenti di mezzi per la condivisione della creatività: musei e gallerie hanno messo a disposizione i propri cataloghi online, organizzato tour virtuali delle proprie collezioni, lanciato contest artistici e chiesto il parere del pubblico. Cinema e biblioteche hanno aperto e reso gratuiti i propri archivi, svelando la possibilità di rendere pubblico, gratuito e accessibile ciò che solo ieri era privato o a pagamento. L’offerta culturale online è talmente ampia che quasi paralizza.
Ma questa sovrapproduzione di contenuti – la cui natura digitale impone brevità, immediatezza e continuo aggiornamento – appare talora autoreferenziale, e tradisce una difficoltà delle istituzioni culturali nel fornire strumenti per navigare questo presente angosciante e disorientante. Ad esempio, la maggior parte delle realtà museali si è limitata a mettere a disposizione le immagini degli oggetti appartenenti alle proprie collezioni sul web e sui canali social, intendendo così esercitare una funzione di “conforto” attraverso la bellezza e la cultura. Alcuni si sono spinti oltre, nel tentativo di agglomerare contributi più variegati, da interventi online di artisti e curatori, passando per visite didattiche virtuali fino a gallerie fotografiche delle mostre passate, ma ben poche istituzioni si sono interrogate sulle connessioni tra il proprio compito sociale e l’attuale condizione di dissesto sistemico, mantenendo invariati gli automatismi legati al proprio posizionamento sociale e decidendo di non fermarsi a riflettere sul proprio ruolo.
Non dalle istituzioni culturali, ma dal basso abbiamo visto nascere un coraggioso spirito di rinnovamento, creatività e collaborazione, che contrasta in maniera netta le spinte egoistiche e le forze di disgregazione sociale che inevitabilmente accompagnano una crisi come questa. A Milano, capoluogo della regione più martoriata dal virus, gruppi informali come le “Brigate Volontarie per l’Emergenza” hanno costruito un servizio capillare e ramificato per il sostegno pratico e psicologico alle persone sole e alle fasce più deboli della popolazione, gli homeless e i migranti. La diffusione delle iniziative di solidarietà dal basso sta gettando le basi per nuove forme di mutuo soccorso e di sostegno al reddito. In che modo le istituzioni culturali possono registrare e rendere conto dell’esplosione di vitalità, resistenza e cittadinanza attiva che azioni del genere rappresentano? Come può la cultura contemporanea instaurare un dialogo con le nuove forme di cooperazione, critica sociale e attivismo di base che l’emergenza sanitaria ha catalizzato?
Oltre a ciò, l’esperienza che oggi viviamo sta espandendo la consapevolezza ecologica nell’opinione pubblica, se non altro perché sta restituendo alla nostra specie il senso della propria caducità e fragilità di fronte agli eventi naturali. Ma sono, di nuovo dal basso, i movimenti ecologisti, quelli che abbiamo visto nascere e crescere nei mesi precedenti alla pandemia, i migliori interpreti della crisi attuale. Ciò che i movimenti predicavano inascoltati: maggior ascolto della scienza, cambiamento di stile di vita collettivo, fine della depredazione delle risorse naturali, decrescita e rallentamento, è ciò che in questo momento il virus ci impone. Come rispondere allora alle sfide poste dal cambiamento climatico, dall’interno di istituzioni culturali che raramente hanno preso posizione su questo tema, ma che invece le riguarda da vicino, laddove attuano pratiche produttive che non tengono in considerazione la sostenibilità ambientale?
Ci sarà inoltre un grande trauma collettivo da elaborare, un profondo dolore da attraversare. Le istituzioni culturali riusciranno ad accompagnare la comunità in questo percorso o semplicemente riprenderanno da dove avevano sospeso?
Di tutti questi aspetti, dissotterrati crudamente dal virus sotto i nostri occhi, è necessario che il mondo della cultura si faccia carico con urgenza, usando questo tempo per riflettere, produrre un pensiero creativo e coerente con il momento che stiamo vivendo.
Come possiamo dunque meditare oggi sulla direzione che il settore culturale prenderà nel prossimo futuro, consapevoli che le dinamiche che hanno dominato finora non lasceranno spazio ad un mondo più equo, più solidale e aperto, ma si faranno semmai ancora più stringenti, sotto la spinta della ricostruzione post emergenziale?
Il dibattito è acceso all’interno delle reti professionali e delle associazioni di categoria: si stanno focalizzando ad esempio su questioni sociali ed ambientali alcuni dei prossimi appuntamenti indetti dalla sezione italiana di ICOM (International Council of Museums), che ha organizzato cicli di incontri sul tema della sostenibilità ambientale e ha dedicato all’inclusione sociale la “Giornata Internazionale dei Musei” del 18 maggio. Ma è fondamentale far crescere dal basso e rendere più capillare la riflessione degli operatori culturali sull’impatto del sistema che contribuiamo a creare con il nostro lavoro quotidiano e sulle strategie che potrebbero essere messe in atto in questo frangente storico al fine di farsi agenti di cambiamento.
Da qui nasce la necessità di costruire un documento collettivo di questo tempo che dia voce a tutti coloro che ruotano attorno all’ampio mondo delle istituzioni culturali e museali: dai guardia sala ai redattori, dai docenti alle guide, dai tecnici audio ai project manager, dai grafici ai curatori, dai direttori ai fruitori sino ai ricercatori e agli studiosi del campo storico-artistico. Un grande mosaico di riflessioni scaturite dalla quarantena, raccolte a partire da oggi e per tutto il mese di giugno, perché la ripresa che stiamo attuando, e che sarà guidata con rinnovata energia dai policy makers di prima, non ci colga completamente impreparati e perché questo periodo non sia stato inutile. Proponiamo in tal modo di costruire un approccio “di comunità”, capace di far dialogare le profonde differenze che si situano all’interno del variegato ecosistema della cultura – quelle tra lavoratori precari e partite iva da un lato e lavoratori strutturati dall’altro, quelle tra settore pubblico, privato e no profit, quelle tra chi può farsi carico del periodo di sosta accedendo ad altri redditi e aiuti familiari e chi no – una parte dei quali è stata e sarà pesantemente danneggiata nel lavoro quotidiano dalla crisi in corso (si vedano ad esempio i risultati dell’inchiesta Cultura e lavoro ai tempi di Covid-19 a cura del gruppo “Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali”).
Immaginiamo una metodologia descrittiva molto pratica e autoriflessiva per porsi di fronte alle domande cogenti di questo tempo e provare a tracciare delle soluzioni basate sull’esperienza diretta. Qualcosa di simile a quanto delineato dal sociologo Bruno Latour, il quale ha recentemente parlato di “immaginare gesti-barriera contro il ritorno alla produzione pre-crisi” . Ecco che questa sorta di auto-etnografia sarà fondamentale per costruire una rete interconnessa di tattiche di resistenza per ridefinire attivamente il nostro futuro e per rafforzare la consapevolezza del proprio posizionamento nel panorama sociale da parte degli addetti culturali.
Ognuno di noi, oggi cassaintegrato dell’industria culturale, conservatore di musei vuoti, operatore didattico senza pubblico, ricercatrice che non ha potuto accedere agli spazi pubblici, appassionato d’arte in attesa dell’apertura di una mostra, ma anche cittadino che ha sperimentato un vuoto nelle proprie giornate a causa della chiusura dei luoghi della cultura, oppure insegnante attento all’offerta educativa extra scolastica per i propri studenti, potrebbe trovare stimolante chiedersi: quello che ho fatto, quello per cui ho lavorato, quello per cui mi sono impegnata, come ha contribuito a farmi arrivare fin qui? E cosa vorrei cambiare oggi? Come interpreto il mio ruolo sociale alla luce di quello che sta accadendo? E in che modo la mia vicenda personale, paralizzata oggi da questa crisi, si interseca con quei meccanismi che sembrano posti sotto i riflettori dalla pandemia?
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Ognuno di noi può scegliere un ambito sul quale focalizzarsi nel proprio racconto, inserendo il ruolo delle istituzioni culturali all’interno dei temi e dei problemi del nostro tempo. Le proposte e le riflessioni possono essere inviate all’indirizzo mail culturapartecipata@gmail.com e non devono seguire necessariamente uno schema prefissato né avere una lunghezza prestabilita: possono essere brevi considerazioni estemporanee, così come interventi più strutturati. Tuttavia, per garantire una maggiore coerenza al materiale inviato, può essere utile provare a seguire alcune delle indicazioni sotto riportate:
A) Scegliere un focus una tra queste una macro-areee di riflessione:
1. Beni comuni: quale ruolo possono avere le istituzioni culturali nella difesa e ampliamento del concetto di beni comuni.
2. Democrazia – partecipazione: quali attività delle istituzioni culturali possono essere utili per favorire una concreta partecipazione dei cittadini alla costruzione di una governance pubblica inclusiva.
3. Crisi ecologica – sostenibilità: in che modo le istituzioni culturali possono farsi carico di azioni concrete per la salvaguardia dell’ambiente.
4. Inclusione/esclusione: in che modo le istituzioni culturali possono lavorare per la realizzazione di una società inclusiva verso gruppi sociali svantaggiati, sia dal punto di vista della fruizione che della composizione dei lavoratori del settore.
B) Definire la propria relazione con le istituzioni culturali:
1. Dipendente di una istituzione culturale (pubblica, privata o no profit)
2. Collaboratore autonomo
3. Fruitore
C) Tenere in considerazione qualcuno di questi aspetti:
1. Scegli un tema che ti sta a cuore che si inserisce nelle macro aree sopra e descrivi brevemente perché
2. Racconta cosa hai apprezzato del lockdown relativamente al tuo rapporto con le istituzioni culturali
3. Racconta cosa ti è mancato nel lockdown relativamente al tuo rapporto con le istituzioni culturali
4. Cosa ti aspetti che cambi domani nel tuo rapporto con le istituzioni culturali
5. Quale attività vorresti smettere di compiere e perché (nel tuo lavoro o nella tua modalità di fruizione)
6. Quale attività vorresti ampliare (nel tuo lavoro o nella tua modalità di fruizione)
7. Quale necessità o tematica la tua istituzione di riferimento dovrebbe prendere in carico
8. Cosa puoi fare da solo per favorire ciò
9. Cosa potresti fare insieme ai tuoi pari
10. Cosa chiederesti a una rete di lavoratori della cultura che occupano ruoli diversi
11. Quali pensi siano i principali ostacoli
L’immagine in homepage è Folla resistente, disegno di Angelo Monne, www.angelomonne.com