Conversazione con Michela Cometa.
L’impegno e la passione nella riflessione, teorizzazione e divulgazione della cultura visuale in Italia ha caratterizzato uno dei percorsi di ricerca di Michele Cometa e il libro Cultura visuale, recentemente uscito per Raffaello Cortina Editore, rappresenta non una semplice sistematizzazione di un dibattito ma uno stimolo al dialogo all’interno di quel campo di studi in cui immagini, sguardi e dispositivi convergono. Partendo dal concetto di regime scopico e da una costellazione che mette insieme il lavoro di Aby Warburg, considerato come l’innovatore della teoria dell’immagine, Freud preso in esame come l’estensore della più complessa teoria dello sguardo e Walter Benjamin, archeologo del dispositivo, Cometa ricostruisce le genealogie della cultura visuale. Attraverso queste tre figure si delinea un percorso di ricerca affascinante e complesso che si confronta con il dibattito attuale in cui temi come l’agency, la vita e il potere delle immagini, l’atto iconico, la svolta bioculturale appaiano centrali. In questa conversazione ripartiamo da temi e metodi della cultura visuale provando ad approfondire alcune questioni che riguardano lo statuto di questo campo di studi e gli sviluppi possibili.
Marco Mondino: La cultura visuale ha una genealogia complessa e plurale. Da un lato ci sono gli studi di matrice anglo-americana, i visual cultural studies, dall’altro quelli europei, la Bildwissenschaft e gli studi di teoria dell’immagine. Come valuta il lavoro di divulgazione in Italia di questo campo di ricerca che lei definisce una strategia ermeneutica e al contempo un’indisciplina?
Michele Cometa: In Italia possiamo contare non solo su un’agguerrita pattuglia di autori originali che senz’altro rappresentano al meglio la disciplina, ma anche su sistematizzazioni che danno una particolare tonalità teorica che non era possibile in altri contesti culturali. Tra gli autori più originali e certamente tra i primi a introiettare i paradigmi del dibattito internazionale vanno senz’altro citati Gian Piero Piretto, con i suoi studi sulla cultura visuale russa, e Umberto Curi con la sua indagine sullo sguardo nell’antichità classica, ma forse sono ormai riconoscibili contributi per così dire ante litteram, penso agli studi di Lina Bolzoni, Maria Bettetini, Stefano Poggi, o a quelli di un italiano di adozione come Krešimir Purgar. Un lavoro altrettanto importante è stato fatto nella mediazione dei contenuti principali della disciplina, penso all’introduzione di Andrea Pinotti e Antonio Somaini apparsa nel 2016 da Einaudi, o ai lavori sull’iconic turn proposti da Maria Giuseppina Di Monte e da Michele Di Monte. In Italia un forte impulso è stato dato – come del resto è il caso di W.J.T. Mitchell negli Stati Uniti – dalla comparatistica e dalla teoria letteraria, dalla quale io stesso provengo. Il desiderio di emancipare gli studi letterari dalla loro testolatria ha fatto sì che molti di noi cominciassero a guardare alla cultura visuale degli scrittori. Adesso però le questioni aperte da quella che io, come Mitchell, definisco un’”indisciplina”, vengono affrontate da più tradizioni di ricerca, interessate a confrontarsi con questo “supplemento pericoloso” che sono gli studi di cultura visuale. Mi riferisco agli studi di cinema (Ruggero Eugeni, Enrico Carocci, Michele Guerra), a cui oggi si aggiungono la storia dell’arte, l’estetica e le scienze cognitive. Anche a queste discipline farà bene il confronto con una strategia ermeneutica che, tra l’altro, offre l’enorme vantaggio di farci interrogare sui presupposti epistemologici delle nostre strategie ermeneutiche.
M. M.: Il suo libro è un’avventura genealogica, il tentativo di costruire un’epistemologia della cultura visuale a partire dal concetto di regime scopico e dalla relazione tra immagine, sguardo e dispositivo. Gli scritti e le teorie di Warburg, Freud e Benjamin sono la costellazione da cui parte il suo lavoro di ricerca. In che modo questi autori hanno segnato un punto di non ritorno nello studio dell’esperienza visuale?
Ovviamente si tratta di un’evidente semplificazione di un panorama certo complesso e variegato. Non è un caso che Pinotti e Somaini abbiano indicato altre ascendenze teoriche e lo stesso vale per molti manuali d’oltralpe. Si tratta di una mossa didattica soprattutto – il libro si rivolge anche agli studenti – ma tuttavia sono convinto che questi tre autori siano un punto di non ritorno nella riflessione su quelle che considero le componenti fondamentali della cultura visuale: l’immagine, lo sguardo, il dispositivo. Dopo Warburg la nostra idea sui tempi e le dislocazioni dell’immagine, comunque li si voglia intendere, è radicalmente cambiata; non ci sarebbe una riflessione sullo sguardo senza il nesso inscindibile che Freud instaura tra ragioni del vedere e ragioni del corpo, con tutte le conseguenze che ciò ha avuto per riflessione gender sull’esperienza visuale e nell’era dell’embodiment; Benjamin, infine, è anche colui che è riuscito a connettere la dimensione tecnica, il dispositivo, con la più ampia, e oggi decisiva, questione di un’ecologia delle immagini e della visualità. Questi autori stanno all’inizio dell’avventura della cultura visuale ma, io credo, ci forniscono un viatico per gli sviluppi futuri della disciplina. Tutti e tre, questa l’ipotesi che intendo continuare a sviluppare, anticipano quella che io chiamerei la «svolta bioculturale» della cultura visuale, perché hanno rivendicato, sin da subito, la centralità della dimensione biologica (e ecologica) dell’esperienza visuale, e più in generale il rapporto con il bios che oggi nutre sia la riflessione filosofica sia quella neuroscientifica e cognitivista.
M. M.: Il volume costruisce a questo proposito un ponte tra gli approcci culturalisti e le neuroscienze. Quali sono le linee di ricerca più interessanti secondo lei oggi in questa prospettiva?
M. C.: Come dicevo si tratta di recuperare le profonde implicazioni biologiche della teoria dell’immagine. Non si tratta di una novità. Si pensi alla biologia delle immagini tedesca e anglosassone che culmina in Warburg, o al nesso sguardo-sessualità instaurato da Freud, Lacan e tutta la critica femminista, o, ancora, alla filosofia delle forme alla Focillon che introietta la grande tradizione della morfologia e la rilancia verso la modernità, o, da ultimo, all’ecologia delle immagini e dei dispositivi che da Jacob von Uexküll, passando per Benjamin, arriva alla teoria dei media odierna (Casetti, Parikka, Peters). La svolta bioculturale della cultura visuale è insomma da sempre in fieri. Oggi sappiamo che le immagini hanno una vita – Mitchell pensa ai cloni – che i dispositivi sono fatti di materia, di polvere, di minerali, esprimono una loro geologia (Parikka) e comunque sin dall’inizio della riflessione occidentale hanno avuto a che fare con “elementi” come l’aria e l’atmosfera (si pensi al “diafano” di Aristotele), che le immagini hanno una loro sostanza biomorfa, rispondono cioè alle nostre aspettative biologiche e come esseri biologici si riproducono, si diffondono, si modificano e lottano per la sopravvivenza. Insomma, c’è più di una ragione per credere che un innesto del sapere biologico, e del bios, possa aiutare a spiegare molti fenomeni che riguardano la vita delle immagini. Per non parlare ovviamente del fatto che tutte le nostre facoltà cognitive si costruiscono attraverso l’esperienza del vedere.
M. M.: Una delle questioni più interessanti che trova spazio anche nel suo libro riguarda l’agentività delle immagini. Debray scrive che le «immagini fanno agire e reagire» a prescindere dal loro statuto artistico, Freedberg si sofferma sul potere delle immagini, Elkins dedica un volume alle persone che piangono davanti a un quadro, Mitchell si chiede che cosa vogliono le immagini, mentre Latour si interessa ai casi di iconoclash chiedendosi perché le immagini scatenino tanta passione. Interrogarsi sul potere delle immagini significa dare allora rilievo agli investimenti valoriali degli osservatori. Oggi temi come quelli dell’iconoclastia e dell’iconofobia continuano a sollecitarci, da Palmira, all’Afghanistan. Non è forse questo uno degli ambiti contemporanei di applicazione su cui lo sguardo interdisciplinare della cultura visuale può provare a fornire delle chiavi di lettura?
M.C.: Certamente, e per un duplice ordine di ragioni. La cultura visuale si interroga infatti sulla vita sociale delle immagini, sulla loro agency e sulle reazioni che esse suscitano. Oltre a fornire strumenti per comprendere fenomeni come l’iconoclastia e l’iconofobia, globalmente presenti, la cultura visuale assume spesso la forma di un’antropologia fondamentale interrogandosi sui comportamenti che l’Homo Sapiens, sin dalle origini, ha sviluppato al cospetto delle immagini. Feticismo, idolatria, totemismo, per non citare quelli che più risuonano maggiormente nelle dottrine più moderne, sono comportamenti che vanno compresi a partire dalle immagini, dalla loro circolazione sociale e dalla loro sostanza mediale. Comprendere questi fenomeni richiede una declinazione congiunta di immagini, sguardi e dispositivi che solo la cultura visuale ha saputo combinare in un oggetto nuovo, per dirla con Roland Barthes, quello che definiamo regime scopico. Lo studio dei regimi scopici, come già suggeriva Martin Jay, è ciò che distingue la cultura visuale da altre strategie ermeneutiche, è ciò che ne caratterizza la sostanza fondamentalmente sociale. Non è un caso che gli studi culturali siano nella genealogia (e probabilmente anche nel futuro) di questa disciplina.
M. M.: Ci sono stati eventi traumatici che hanno definito la visualità del Novecento (pensiamo all’11 settembre, alle foto delle prigioni di Abu Ghraib ampiamente studiate da Mitchell, o ancora alle immagini strappate all’inferno di Auschwitz analizzate da Didi Huberman). La pandemia Covid-19 sta contribuendo a lasciare una traccia importante nella nostra cultura visiva e come lei stesso ricorda rappresenta un nuovo pictorial turn. Il patrimonio di immagini diffuse in questi mesi (si pensi ad esempio alle infografiche e ai fenomeni di data visualization, al proliferare di interventi di street art su questo tema o ancora alla fotografia che ritrae una schiera di mezzi militari carichi di bare nelle strade di Bergamo) rappresenta materiale di studio e di analisi. Quali sono gli strumenti e le letture che la cultura visuale può mettere in campo? Qual è secondo lei l’immagine emblema di questo pictorial turn?
M.C.: Effettivamente la pandemia ha certamente imposto nuovi feticci e nuovi totem al vedere contemporaneo. È presto per dire se si tratta di un pictorial turn che, come spesso in passato, mette in discussione tutte le nostre verità sulle immagini, sugli sguardi e sui dispositivi. Ma certamente la pandemia ha prodotto molte immagini ed è giusto così. Bisogna infatti diffidare – se mi è permessa questa notazione “politica” – dell’immagine unica, dell’immagine sola. Proprio Didi-Huberman ci ha insegnato che il primo compito della cultura visuale è farci uscire dalla nevrosi dell’immagine con la “i” maiuscola. Anche le quattro sfocate, strappate, assurde e quasi “invisibili” immagini di Auschwitz-Birkenau sono immagini che meritano la massima considerazione. La cultura visuale si basa su questo assunto. Dunque le immagini della pandemia, non l’immagine della pandemia: anche una marginale rappresentazione di uno sconosciuto street artist potrà diventare la fonte di inusitate riflessioni sul nostro tempo. E la nostra eredità visuale si gioca in ogni momento, per strada, sul web, nelle raffinate infografiche…
M. M.: L’Università di Palermo ha rappresentato un polo importante per la disseminazione degli studi visuali: qui è nato prima un master in comunicazione e cultura visuale, poi un corso di laurea in Cultura visuale e un dottorato di ricerca in Studi Culturali. Dal punto di vista della ricerca quali sono stati i risultati più interessanti e quali sono oggi i punti di forza?
M. C.: Ti ringrazio di aver fatto riferimento al lavoro dei molti colleghi palermitani che con me hanno in questi venti anni sviluppato gli studi di scienze della comunicazione in direzione della cultura visuale. È stato un percorso necessario, per chi come me pratica le scienze letterarie, perché ci ha permesso di emanciparci da quella che ho già definito testolatria e nel contempo di rinnovare il nostro rigore filologico comprendendo che dentro e accanto a un testo ci sono sempre molte immagini, e sguardi e dispositivi. Ma anche per gli studiosi più naturalmente legati al destino delle immagini e dei media, come i colleghi di semiotica, di estetica e di storia dell’arte, forse non è stato inutile riaprire il dibattito con i letterati se non altro per ristabilire la giusta proporzione tra le specificità disciplinari e la questione che è davvero in gioco: il comportamento creativo dell’Homo Sapiens che, come abbiamo imparato dalla grande antropologia filosofica, soprattutto tedesca, è un comportamento che ci permette di compensare i nostri deficit istintuali e di esonerarci dal peso della realtà e dell’assoluto. Ecco un altro motivo per imprimere una svolta bioculturale alla nostra disciplina.