Il libro Una cartografia della tecno-arte (Cronopio 2017) di Vincenzo Cuomo è uno spazio di sperimentazione teoretica, un vero e proprio pensiero all’opera. Il suo obiettivo è quello di mettere in evidenza, mediante le sperimentazioni artistiche contemporanee ibridate con la tecnologia, spazi di riflessione ancora inesplorati: il campo del non simbolico.
Il libro Una cartografia della tecno-arte ha indubbiamente un gran merito: quello, cioè, di essere uno spazio di sperimentazione teoretica, un vero e proprio pensiero all’opera. Per questo non risulta un libro facile da recensire. La lettura, al contrario, è tanto gradevole quanto impegnativa, nel senso migliore del termine, perché si tratta pur sempre di un libro di filosofia, di quella vera, una filosofia in atto e non semplice resoconto di diverse posizioni teoriche. Ciò implica, in prima battuta, una serie di abbozzi, di rimandi e di connessioni con altri percorsi di ricerca – tanto di Cuomo stesso, quanto di altri autori – in dialogo costante con alcuni dei più importanti pensatori degli ultimi cinquant’anni: da Jacques Lacan a Peter Sloterdijk, passando per Gilles Deleuze, Félix Guattari, Jean-François Lyotard, Jean Baudrillard, solo per dirne alcuni.
Molteplici sono gli obiettivi del saggio, così come i piani di lettura possibili e le tracce che si possono seguire e che impegnano il lettore in un percorso di immaginazione teorica. Impegnare è qui usato in una accezione decisamente positiva: in una officina teorica come questa, leggere equivale a prendere parte e contribuire attivamente al processo di creazione filosofica. Non è, insomma, un libro per menti pigre, perché lo sforzo che richiede al lettore è quello di seguire l’autore nel suo percorso immaginativo di un “altrove” che è qui, celato nelle pieghe conflittuali di una realtà che tende a fuggire – a dileguarsi direbbe un hegeliano – e di un ordinamento simbolico incapace di esprimerne le molteplici sfaccettature e che, perciò, produce una oppressione asfissiante su tutto quello che non riesce a contenere. Ma cos’è, come si chiama, come possiamo almeno intuire questo altrove? Intanto, nominandolo. Lontano dalla paura heideggeriana del nominare l’essere – perché se lo si nominasse, lo si perderebbe – Cuomo conferisce un nome e un pedigree di tutto rispetto a questo altrove (inciso: un altrove e non, invece, l’alterità del “Grande Altro”, ma ci torno tra un po’): il campo del non simbolico.
Definire concretamente il campo del non simbolico è, per la filosofia contemporanea, specialmente di matrice post-strutturalista, l’urgenza teorica principale. Il problema del simbolico, infatti, ha caratterizzato praticamente tutto il Novecento, con linee e scorci teorici molto variegati: sebbene non si possa qui entrare nel dettaglio, il problema del Simbolico lo troviamo, ad esempio, nella matematica novecentesca – pensiamo, ad esempio, al problema dei sistemi formali in rapporto al pre-formale e all’incompletezza di Kurt Gödel – nella filosofia – si pensi alla proposta teorica di Ernst Cassirer, al rapporto tra Lebenswelt e categorie trascendentali in Edmund Husserl e al rapporto tra conoscenza e Essere in Martin Heidegger e Maurice Merleau-Ponty – nell’antropologia – le strutture parentali di Claude Lévi-Strauss – ma, soprattutto, nella psicoanalisi – si pensi all’interpretazione dell’inconscio data da J. Lacan.
Proprio da quest’ultima Cuomo mutua la sua concezione di Simbolico – e, con essa, quella del non-simbolico – mediante la tripartizione lacaniana nei registri “Simbolico”, “Immaginario” e “Reale”. Potrebbe sembrare, per un lettore pigro e poco attento, una ripresa erudita di un tema ormai demodé, senza relazioni con il nostro presente, che riguarda dibattiti teorici (ma, ricordiamolo, anche politici) di anni ormai lontani, quegli anni Sessanta e Settanta ormai pasto quotidiano di storici e nostalgici. Eppure non è così. Molti i libri, le conferenze, i convegni ancora oggi su questo tema: non ultimo, si pensi al lavoro del noto psicanalista Massimo Recalcati. Il tema, insomma, è più attuale che mai. E non solo per la filosofia.
Qual è, dunque, la cifra principale della proposta avanzata da questo libro? Intanto, in quanto pensiero all’opera, la proposta è più il riconoscimento di un possibile spazio d’azione, la visione di un margine di gioco, che una risposta, più o meno definitiva, al problema della crisi simbolica della tarda modernità. È quel che si richiede, in fondo, alla filosofia sperimentale: un modo nuovo di porre i problemi in generale – parafrasando un’immagine kantiana.
L’intuizione generale che sta alla base di questo lavoro di Cuomo può essere enunciata – senza pretese di esaustività, data la necessaria apertura di un “lavoro in corso” – nel seguente modo: esiste uno spazio ontologico inesplorato, inaccessibile alle consuete categorie della filosofia moderna, in quanto eccede la matrice immediatamente fondativa-simbolica, ed è esplorabile mediante quella filosofia non-filosofica (cioè non-fondativa e immaginativa) rappresentata dall’Arte sperimentale.
È soprattutto l’ibridazione tra la ricerca artistica e lo sviluppo tecnologico tardo novecentesco, secondo l’autore, a mettere in risalto la creazione di spazi esistenziali esterni al processo simbolico. La body art che esplora limiti e potenzialità del corpo (la vecchia domanda spinoziana: cosa può un corpo?) e la sinestesia dell’expanded cinema degli anni Settanta fino alle recenti installazioni tecnoartistiche hanno messo in luce le possibilità ontologiche della sperimentazione artistica.
L’arte Novecentesca – ma, in fondo, non è l’Arte in generale ad aver questo requisito? – si è mostrata essere un veicolo antropogenetico di primaria importanza, dove la creazione non è il semplice mezzo attraverso il quale si palesa la genialità del singolo artista, bensì un luogo di metamorfosi dell’umano, che sfugge alle simbolizzazioni strutturali che certe teorie della società – e della Storia – ci hanno lasciato in eredità. L’arte come luogo di creazione, indubbiamente, ma una creazione impersonale, collettiva, frutto più dell’immaginazione e del desiderio che non di un calcolo raziocinante a priori, un luogo di sperimentazione dove, per dirla con l’antropologo scozzese Tim Ingold, si tratta di abitare degli spazi prima ancora che di progettarli: l’atto di creazione, che queste sperimentazioni artistiche ci offrono, sono concatenamenti collettivi, pratiche che non fuggono dal mondo, ma che, al contrario, sono veri e propri processi immersivi nel Reale. Certo, queste pratiche e questi percorsi hanno anche qualcosa di crudele nel loro incedere: i processi di antropogenesi, infatti, non sono affatto esenti da traumi e shock, soprattutto se si considera che gli ambienti in cui si effettuano sono ambienti intensivi, cioè composti e popolati da intensità, e, soprattutto, se guardiamo al nostro presente, alle nostre vite immersi in città sempre più roboanti, con attività (e passività) percettive sempre all’opera – si pensi, qui, alle infinite petites perceptions di cui parlava Leibniz all’inizio della modernità concatenandole ai coloratissimi e rumorosi centri commerciali delle grandi città capitaliste.
Una cifra costitutiva del nostro presente è, senza dubbio, la gran massa di stimolazioni esterne e interne che quotidianamente sentiamo, percepiamo e assorbiamo con voracità esistenziale. Ma non c’è pessimismo nella riflessione di Cuomo. Né puro e semplice autocompiacimento: tale voracità è un fatto, e in quanto tale la filosofia deve prenderne atto e renderne conto. Questa accelerazione percettiva, questo divenire schiumoso della sensazione – per dirla con Sloterdijk – straborda da quegli steccati simbolici ai quali abbiamo adattato i nostri corpi, le nostre menti e i nostri immaginari. Steccati simbolici che sono messi in discussione proprio dall’ibridazione della tecno-arte, per usare il linguaggio di Cuomo. All’interno della crisi dell’ordine simbolico del nostro presente, si aprono strade, si presentano contrade a venire – come dicevano gli autori di Mille Plateaux – e due sono le alternative possibili: da una parte, troviamo la strada battuta dal pessimismo post-moderno che ha trovato nel disfacimento della realtà il piano di fuga critico; dall’altra parte, sebbene un certo gusto post-moderno abiti le pagine che stiamo recensendo, si prospetta la fuoriuscita (quanto meno teorica) da questo pessimismo, una fuoriuscita guidata dall’intento pioneristico di tracciare mappe e cartografie di territori differenti, molteplici e variegati, virtuali ma non per questo irreali, sebbene non necessariamente simbolici. Territori che non risiedono affatto in una “alterità esotica” – quel grande Altro irraggiungibile che assilla il nostro immaginario, dall’alto della sua, simbolicamente reale, torre d’avorio – ma in un altrove inteso come possibilità ontologico-esistenziale, creazione di spazi immersi nelle pieghe variegate e sfaccettate del nostro incedere quotidiano. Tracciare e disegnare, in una parola, immaginare queste mappe, dunque, vuol dire sperimentare l’ignoto creando combinazioni nuove e imprevedibili, attraversando le soglie verso quel fuori che è già sempre dentro.
Cuomo ci guida, mediante la sua cartografia, nell’esplorazione di quel multiverso extra-simbolico messo in luce dalla filosofia non-filosofica della tecno-arte: un campo molteplice e multivoco «che possa farci abitare anche le stelle» (p. 154). Bisogna mirare, dunque, a quei sentieri che la modernità ha decretato interrotti e che, a quanto pare, così interrotti non sono. E questo, è solo l’inizio.