Finalmente in Italia il primo volume “Rinata. Diari e appunti 1947-1963”.
La costruzione di uno scrittore o scrittrice si fa con mattoni molto diversi fra loro. Tenere un diario può essere utile a stilare resoconti delle giornate trascorse, registrare gli accadimenti della vita per offrirne un’alternativa o, in maniera più ambiziosa, a gettare le basi per la creazione di un’identità. Ne era convinta Susan Sontag (1933-2004) che fino a tarda età ha riempito centinaia di taccuini riuniti in parte nei tre volumi postumi curati dal figlio David Rieff, di cui ora Nottetempo pubblica il primo, Rinata. Diari e appunti 1947-1963, tradotto da Paolo Dilonardo.
Le pagine racchiudono le annotazioni di Sontag dai quattordici ai trent’anni, periodo in cui cresce a Tucson e Los Angeles, studia filosofia a Berkeley e Chicago per poi specializzarsi a Harvard, Oxford e Parigi. Sposa diciassettenne – «pienamente consapevole + impaurita dalla mia volontà di autodistruzione» – di Paul Rieff e madre diciannovenne di David, «oggetto d’amore meno mentale, il più intensamente reale» da cui si allontanerà spesso, Sontag sa bene che non esiste altro limite al di fuori di sé. Pronta fin da subito a farsi agitare dalle idee per vincere la solitudine, sceglie di riempire quella «conoscenza insufficiente» attraverso una formazione che procede per accumulo: lunghi elenchi di letture compiute e desiderata da acquistare, film visti, concerti di Bach, Mozart e Beethoven, parole straniere, citazioni e aforismi, rappresentazioni di Shakespeare e Pirandello. Si tratta di immagazzinare possibilità, modi di comportamento e soprattutto libri che vuole e deve leggere, per nutrire la sua «mente bianca» e avvicinarsi sempre più a una «pienezza individuale» utile a rinnovarsi. Una curiosità siderale che spazia da Katharine Hepburn alla mitologia hindu, dal rapporto con l’America, di cui registra numerose locuzioni gergali, all’ebraismo originario. Pur avendo letto fin da bambina letteratura per adulti, suo libro fondante resta Martin Eden di Jack London, con quel binomio di «disperazione + sconfitta» che le permette, al contrario di altre storie illusorie, di crescere senza mai sperare nella felicità, ritenuta solo una «conseguenza dell’attività a cui si aspira».
Apparentemente disinvolta nella vita sociale, dove spesso finge di divertirsi in serate da dimenticare, Sontag teme in realtà la vita perché non sa affrontarla: talmente insicura e vacillante – a causa di «un’inestirpabile e pericolosissima vena di tenerezza» – da cercare riferimento nelle opinioni altrui, a partire dalle relazioni extraconiugali con Harriet Sohmers, scrittrice e modella, e Irene Fornés, pittrice, vissute in modo diverso e complementare. Annoiate da lei e da loro stesse, sono amanti cui si arrende mendicando protezione, tollerandone le continue rimostranze al fine di una rinascita che è prima di tutto sessuale: un sesso violento, privo di cortesia e personalità, dove il senso di colpa per la sua omosessualità diventa un «permesso di vivere» che la porta ad abbandonare la dicotomia mente-corpo in favore di un’esperienza percettiva, sensoriale, fisica.
Nella selezione di David Rieff gli anni si dilatano o filano rapidi come le città che Sontag inizia a visitare: Londra, Firenze, Atene, Madrid, Delfi e, su tutte, Parigi, vera folgorazione con la sua «routine dei caffè» e la convivenza con Sohmers. Pigra, ciarliera, disordinata e sprovvista della volontà necessaria a stare sola, si nutre di cibo in scatola e non ama rispondere al telefono perché rappresenta un «barbarico oltraggio alla vita privata». Insoddisfatta del mondo universitario, risoluta nel giudizio quanto malsicura nei sentimenti, alla «scrittura plebea» di Faulkner predilige la «magia della realtà» di Kafka. Tuttavia, restare salda nella volontà di agire senza passare dalla ragione, per una ragazza che aspira a diventare una «custode della cultura», non è certo semplice. Il costante desiderio di migliorare si scontra con l’inibizione che accompagna ogni rapporto intimo: amori sbocciati e appassiti, come quello per il marito Paul, definito «totalitarista delle emozioni», da cui divorzia nel 1958 avviando una battaglia legale per l’affidamento del figlio.
«Come rendere metafisica la mia angoscia?» si chiede Sontag, disposta a mettere in discussione la sua sanità mentale pur di fuggire all’inerzia. Afflitta da continue emicranie, assume anfetamine e si rivolge a una psicoanalista per scacciare le vanterie dell’intelletto e concedersi alla scrittura, di cui teme il rischio. Dura con se stessa anche come scrittrice, nell’ultima parte dei taccuini ricorre a una serie di doveri, imponendosi di abbandonare il sarcasmo, le frasi logore, la formalità ereditata dalla madre, in cerca di qualcosa da dire, invece di parlare. «Scrivere è spendersi, giocarsi d’azzardo» e per farlo Sontag decide di conoscersi a partire dal suo corpo, finora rinnegato, al punto da lavarsi ogni giorno controvoglia. Tornata a New York, in cui «ogni sensualità si trasforma in sessualità», vuole scansare la delusione alla ricerca di un nuovo rapporto tra mente e sentimento che escluda valutazioni esterne. Sesso e scrittura diventano qui zona di investigazione intelligibile, dove prenderà forma il suo primo romanzo, Il benefattore, pubblicato nel 1963.
Tra gioie e avversioni, Rinata termina con la consapevolezza di una trentenne avida di affetto e intenzionata a stringere la vita prima di viverla tramite la scrittura, luogo eletto in cui «devi autorizzarti a essere la persona che non vuoi essere (tra tutte quelle che sei)». Dunque, scrivere per apprendere un nuovo modo di esistere, senza mai smettere di sorvegliarsi.