La surrogazione di gravidanza fra senso comune e contro-narrazione. Corinna S. Guerzoni intervista Zsuzsa Berend, sociologa e autrice del libro The Online World of Surrogacy.
Penso alla gravidanza come a una cosa meravigliosa. Ci sono molte persone là fuori che non hanno la possibilità di avere figli. Forse perché è troppo tardi (per età) o per altri motivi. Penso sia un’azione grandiosa restituire a qualcuno la stessa gioia che mio figlio ha portato alla mia vita. Penso alla surrogacy come a una benedizione, la benedizione di dare a un’altra famiglia l’abilità di essere genitori. C’è chi fatica a capire come faccia a portare avanti una gravidanza per sconosciuti, per gente che non conosco e che parla una lingua completamente diversa dalla mia. Ma è come dire che fai beneficenza solo per gente che conosci personalmente. È come dire: se sostieni i senzatetto, come puoi dare loro una coperta senza conoscerli? Non funziona in questo modo. Quando fai beneficenza, non conosci chi riceverà il tuo gesto. Ecco, è lo stesso cuore. E non importa se conosci dall’inizio queste persone o no. Conosci la loro storia, il loro percorso di sofferenza, gli anni di infertilità e i diversi tentativi di FIVET. Quindi quello che faccio riguarda il mio cuore. È più su ciò che dice il mio cuore e questo lo fai per entrambi: per aiutare loro e sentirti bene con te stessa allo stesso tempo. […] Ovviamente i soldi sono una buona cosa, ma non sono sicuramente la ragione principale per la quale sto facendo questo percorso. Sono un extra.
Robin, alla sua prima esperienza di surrogacy – Encino (California), 2017
Molte persone immaginano la surrogazione di gravidanza basandosi solo sul sentito dire o su ricerche che si sviluppano su dati incerti. Vorrei proporre una contro-narrazione rispetto al dibattito, mediatico e non, che si è costruito attorno a questo tema. Quello che mi spinge a proporre una differente descrizione della gestazione per altri (GPA), trova ragione nell’esperienza di ricerca che ho condotto, tra Italia e Stati Uniti, per il Dottorato in Antropologia Culturale e Sociale (Università degli studi di Milano-Bicocca). L’intervistata è Zsuzsa Berend, sociologa dell’Università della California di Los Angeles e autrice di The Online World of Surrogacy.
The Online World of Surrogacy è un’esplorazione etnografica del più grande forum di informazioni e supporto online di surrogate degli Stati Uniti: http://www.surromomsonline.com/ (SMO). La sociologa Zsuzsa Berend ha seguito e analizzato i thread di discussione in cui le surrogate hanno negoziato questioni mediche, legali e relazionali, sostenendosi o criticandosi l’un l’altra. Berend ha documentato come le surrogate, attraverso le discussioni online, abbiano formato un significato collettivo rispetto alla surrogazione di gravidanza.
Due motivazioni principali mi hanno spinta a intervistare Zsuzsa Berend.
Prima di tutto, i principali studi socio-antropologici che hanno approfondito la tematica della surrogacy, ne hanno analizzato gli sviluppi in varie realtà culturali quali India, Tailandia, Russia ecc.; ma, nonostante il numero elevato di persone che ogni anno si reca negli USA per avere accesso alla pratica, sono pochi gli studi che hanno focalizzato il loro interesse rispetto alle vite delle surrogate statunitensi. Lo studio di Berend offre una prospettiva unica e un’analisi puntuale rispetto alla surrogacy commerciale negli Stati Uniti, permettendo di conoscere meglio i pensieri, le esperienze e i punti di vista delle donne direttamente coinvolte in questi percorsi.
In secondo luogo, The Online World Of Surrogacy di Zsuzsa Berend decostruisce alcuni preconcetti relativi alla surrogazione di gravidanza, mostrandone una delle varianti presenti al mondo: la surrogacy commerciale statunitense. È importante infatti sottolineare quanto questa pratica non possegga caratteri universali, ma si sviluppi e muti in relazione ai differenti contesti culturali.
Corinna S. Guerzoni: Nel tuo libro presti molta attenzione al contratto che viene stipulato tra le parti, ovvero tra le surrogate ed i genitori di intenzione. Puoi spiegare le ragioni di questa tua scelta?
Zsuzsa Berend: Il contratto è cresciuto come un capitolo perché mi sono resa conto di quanto esso fosse significativo per le surrogate stesse. Non solo legalmente, ma anche in termini di relazione, come un modo di capire in anticipo la relazione, quasi per assicurarsi che il rapporto tra loro e i genitori di intenzione funzionerà. Il contratto è una negoziazione così difficile ed estenuante che se le persone riescono a sopravvivere a questa fase allora ne usciranno come partner più forti. Inoltre, quello che ho compreso durante la mia ricerca decennale è come il contratto sia diventato sempre più sofisticato, più intricato e con molte nuove questioni che devono essere negoziate, acquistando così un valore maggiore. Alcuni di questi aspetti sono molto importanti per le surrogate, come ad esempio le interruzioni di gravidanza, il trasferimento degli embrioni, ma anche le questioni relative alle remunerazioni. Mi riferisco agli eventuali salari persi (nel caso la surrogata lavori), come babysitting o le possibili complicazioni durante la gravidanza. Le surrogate vogliono essere certe di non subire un decremento economico alla fine di questi scambi.
C. S. G: Le persone che esprimono un parere contrario alla surrogazione di gravidanza descrivono il contratto come uno strumento che costringe le donne a portare a termine un “compito”, basato sul fatto di aver firmato un contratto, un accordo tra parti. Che cosa rivela la tua ricerca decennale riguardo alle esperienze delle surrogate statunitensi?
Z. B.: Per le surrogate il contratto è un accordo reciproco tra parti, una mutua collaborazione. Nella loro visione ogni persona onesta e responsabile ne dovrebbe avere uno. E anche se il contratto non fosse legalmente vincolante, le surrogate incoraggiano sempre tutti ad averne uno, sapendo che non sarà valido a soli scopi legali, ma come visto, può essere un modo per comprendere in anticipo la relazione con i genitori di intenzione. Quindi per loro vale comunque la pena di analizzare gli scopi del percorso, chiarirsi su tutti i punti e comprendere esattamente dove ci si trovi, cosa si voglia e cosa si accetti. In questo senso, non pensano ai contratti come ad una forma di costrizione; loro vogliono davvero capire cosa essi comportino. Nessuna surrogata di SMO ha mai sostenuto di aver stipulato un contratto sotto costrizione; anzi, hanno sempre consigliato alle nuove arrivate di prendere molto sul serio questa fase, suggerendo di non collaborare con coppie con le quali non ci sia una buona intesa sin dall’inizio.
C. S. G: In relazione al contratto, molti critici descrivono la surrogazione di gravidanza come sfruttamento, come mercificazione della vita umana. Qual è la tua opinione avendo svolto per oltre dieci anni una ricerca sulla surrogacy statunitense?
Z. B.: Le surrogate hanno spesso discusso del valore di dare la vita e di quello di creare famiglie. Esse erano generalmente concordi nel sostenere che la famiglia fosse l’istituzione più significativa e che l’infertilità fosse una delle disgrazie più devastanti. In questo quadro, possiamo capire che aver aiutato alcune persone a costruire una famiglia grazie alle loro risorse sia per loro un’azione altruistica. Per loro non è ragionevole aspettarsi che una donna offra le proprie capacità riproduttive gratuitamente, perché la gravidanza comporta rischi e privazioni.
Le surrogate considerano l’accordo con le coppie una situazione “win-win”; un accordo reciproco che beneficia entrambi: le coppie avranno un bambino mentre le surrogate riceveranno il denaro che le aiuterà a “realizzare i loro sogni” (pagare alcune rate del mutuo o risparmiare per l’educazione dei figli). Queste donne hanno sottolineato che essere informate sia un aspetto fondamentale per raggiungere un accordo reciprocamente vantaggioso. Le surrogate statunitensi hanno spesso affermato che i genitori d’intenzione non abbiano altra scelta se non quella di utilizzare il supporto di una surrogata, contrariamente alle surrogate che hanno invece la possibilità di scegliere se aiutare queste coppie e di decidere soprattutto quali coppie aiutare.
C. S. G: E cosa pensano le surrogate statunitensi dell’idea della surrogacy come pratica di sfruttamento?
Z. B.: Ironia della sorte, le surrogate statunitensi considerano la surrogacy indiana una pratica di sfruttamento. Leggendo le loro discussioni ho compreso che le statunitensi considerano le surrogate indiane come donne povere, persino indigenti, che non comprendono pienamente le complessità legali e soprattutto mediche della surrogacy. Secondo le statunitensi, le indiane sono donne oppresse dalla famiglia o da altre necessità e «non hanno scelta, nessuna vera autonomia» (al contrario di loro che diventano surrogate per svariati motivi). In generale, insistono molto sul fatto che se qualche surrogata statunitense sia mai stata sfruttata negli Stati Uniti, è da ritenersi una colpa più sua che del sistema. Le donne di una nazione come la nostra, sostengono, hanno tutte le capacità di cercare informazioni in merito, di essere aggiornate prima di «imbarcarsi in qualcosa senza prima riflettere».
C. S. G: Molti critici rappresentato il denaro come la risorsa più importante per analizzare questa pratica. Qual è la tua opinione a riguardo?
Z. B.: Molte persone pensano al denaro come la risorsa più rilevante in questo settore perché l’iter costa molto alle coppie: pagare le surrogate, le cliniche, i medici e gli esperti legali. Ma quello che manca in questo quadro è che i soldi da soli non possono comprare bambini. E c’è molta verità nel punto di vista delle surrogate, cioè nel sostenere che la coppia che spende molti soldi in trattamenti alla fine di un simile percorso può arrivare a non avere un bambino tra le braccia. Il denaro non è chiaramente l’unica risorsa rilevante. È una risorsa perché le persone che non hanno soldi non possono avviare una surrogacy. Tuttavia, anche le persone con i soldi possono non essere completamente certe che alla fine di questi percorsi nascerà un bambino, se la surrogata non mette a disposizione una serie di risorse: la sua fertilità, la sua generosità e tutte le altre abilità di cui esse ne sono così orgogliose. E nella loro comprensione, i genitori di intenzione dovrebbero vedere la surrogata come una componente chiave di tutto questo processo.
C. S. G: Quindi, quali sono le altre diverse forme di potere che svolgono un ruolo durante il percorso?
Z. B.: Le surrogate pensano alle loro capacità di portare avanti una gravidanza e di dare alla luce un bambino come una specie di risorsa, non come qualcosa che viene dato, ma come una combinazione di abilità e qualità che è abbastanza preziosa e piuttosto impressionante. La loro fertilità è un fatto biologico, ma usarla per mettere al mondo figli di altre persone è un’attività mirata. Il fatto che lo faranno, il fatto che seguiranno il protocollo – anche se questo significa fare iniezioni, assumere farmaci, sopportare procedure invasive o impiegare del tempo per andare agli appuntamenti in clinica – conferma loro che tutto ciò costituisca una risorsa che i genitori di intenzione non possiedono. Una sorta di mancanza di risorse che le surrogate vanno a colmare. Questa è un’inversione interessante: la surrogata può fare qualcosa per una coppia che la coppia non può fare per sé. Le surrogate ne sono molto orgogliose e prendono molto sul serio la loro agency (potere di agire). Esistono numerosi racconti di donne che sottolineano quella loro agency, le loro abilità e le loro risorse. Non pensano a se stesse come impotenti, assolutamente. Dicono anche che le surrogate devono essere ben informate e devono avere una buona consapevolezza di se stesse, piuttosto che basarsi semplicemente sul parere dei medici o di altri professionisti. Loro direbbero: «Conosco il mio corpo, so che posso farlo. Il dottore ha detto questo, ma io conosco meglio il mio corpo».
C. S. G: C’è un significato complesso che ruota attorno al concetto del gift-giving. Spesso, il senso comune tende a descrivere solo il bambino come il dono della vita. Dalla tua ricerca è emerso qualcosa che possa essere aggiunto a questa discussione?
Z. B.: Sarebbe molto semplicistico pensare solo al bambino come l’unico dono. Esiste una lunga lista di cose che le surrogate includono come doni. La loro generosità di portare avanti gravidanze per gli altri, per esempio, è un dono. Il coinvolgimento corporeo delle surrogate e tutte le difficoltà che esse attraversano diventano un dono ai genitori d’intenzione. Ci sono state surrogate che hanno parlato del dono della fiducia, della fiducia che le coppie danno loro scegliendole come surrogate, come le donne a cui verrà affidato “il loro bambino”. E le surrogate si dicono onorate di ciò. La fiducia che ricevono dai genitori di intenzione diventa così un dono. Se osservata sotto questa lente, la surrogacy assume i caratteri di una reciproca donazione, superando la visione più utilitaristica del mutuo-aiuto. Diventa molto interessante, un tipo di dono reciproco, una relazione reciproca, almeno quando le cose vanno bene.
C. S .G: Hai analizzato la relazione tra dimensione altruistica e commerciale della surrogazione di gravidanza?
Z. B.: In questo tipo di relazioni, in cui l’intimo e le componenti finanziarie sono così correlate, penso che ci sia più un continuum piuttosto una semplice opposizione. In generale, l’altruismo convive con le pratiche commerciali. Quando i soldi cambiano mano, c’è ancora spazio per l’altruismo e viceversa. Sono d’accordo con la definizione di altruismo che dice che le persone sono altruiste se fanno un’azione per altri con l’intenzione di beneficiarne, anche se a loro volta ne beneficiano. Le surrogate spesso dicono di sentirsi bene quando aiutano gli altri e sostengono che sentirsi bene sia un vantaggio. Questo squalificherebbe l’atto come altruista? Certo che no. Se così fosse, solo le persone meschine e insensibili che non si sentono bene quando accidentalmente fanno del bene sarebbero in grado di agire altruisticamente. Nelle relazioni che coinvolgono le merci corporee (come alcune persone chiamano donazione di organi, maternità surrogata, ecc.), ci sarà sempre una sorta di coesistenza di dono e denaro, perché questi non sono beni standard. In questi scambi è impossibile calcolare “costi” e “profitti” poiché il denaro è generalmente utilizzato in modi che sono diversi dalle pratiche monetarie dello scambio di merci. Ci sono tutti i tipi di rischi coinvolti in questo tipo di pratiche a cui le persone non possono attribuire un prezzo. Non sto dicendo che questo tipo azioni non abbiano nulla a che fare con le questioni finanziarie; sto sostenendo che il dare, l’aiutare e gli scambi monetari coesistono in modi che non hanno nulla a che fare con il “profitto” puro. So che possa sembrare un po’ approssimativo, ma ci sono economisti come Kenneth Arrow, ad esempio, che hanno scritto su come certi rischi non abbiano un prezzo monetario (o un importo di compensazione) e che non possano quindi essere espressi in termini monetari.
Con l’intervista alla sociologa Zsuzsa Berend ho voluto toccare alcuni dei nodi tematici che sono spesso al centro dei dibattiti, scientifici e non: le surrogate come soggetti passivi e privi di agency; il denaro come l’unica risorsa rilevante degli scambi di surrogacy; e il contratto come forma di coercizione. Le risposte che Berend ha fornito, partendo da riflessioni maturate da una ricerca decennale sulla surrogacy statunitense, offrono indubbiamente nuovi e interessanti spunti di riflessione dai quali partire per interpretare questo fenomeno in maniera differente.
Dobbiamo riconsiderare il modo in cui questa tematica è rappresentata, ma soprattutto analizzata. E per fare ciò è essenziale, in primo luogo, considerare il contesto locale in cui viene praticata la surrogazione di gravidanza; dobbiamo inoltre considerare le esperienze e le posizioni dei diversi soggetti coinvolti in questi percorsi, perché essi possono presentare diversità culturali in relazione ai diversi contesti socio-economici nei quali la surrogacy prende corpo.